Rocco Scotellaro, PADRE MIO
ROCCO SCOTELLARO – E’ FATTO GIORNO – QUADERNO A CANCELLI
PADRE MIO
Padre mio che sei nel fuoco,
che brulica al focolare, come eri
una sera di Dicembre a predire
le avventure dei figli
dai capricci che facevamo:
« Tu pure non farai bene » dicevi
vedendomi in bocca una mossa
che forse era stata anche tua
che l’avevi da quand’eri ragazzo.
(1952)
p. 195 della II edizione di E’ fatto giorno, dicembre 1954 con 10 tavole di Aldo Turchiaro
Carattere magico attribuito ai venti
nella poesia di Rocco Scotellaro
Prima che riscoperto memorialmente da Levi e prima che indagato scientificamente da De Martino, il mondo magico, connesso col regime esistenziale dei contadini lucani, affiora in tutta la sua valenza rituale, quindi mitica e reale insieme, in Scotellaro.
***
Padre mio è l’ultima poesia di E’ fatto giorno dedicata al padre, dopo Al Padre, Mio padre, Nel trigesimo di mio padre, La benedizione del padre, Per il camposanto, Così papà mio in America.
In Padre mio sono concentrati il valore propiziatorio del fuoco e il fine divinatorio che si persegue con esso. Dei molti attributi del fuoco nei riti iniziali dei cicli d’estate e d’inverno del folklore europeo viene qui ritagliato il più privato e domestico, legato al culto dei lares della casa, in cui il poeta fa rivivere la figura del padre che predice la sorte dei figli dai loro gesti davanti al focolare.
Il vento, elemento perturbatore e divinatorio, legato anch’esso al regno dei morti, è un altro elemento rituale e favoleggiato che Scotellaro riprende dalla cultura contadina e restituisce in veste letteraria attualizzandone i significati alla condizione presente dei contadini lucani. Esso ben ritrae, anche solo per immagine, i loro legittimi fermenti di fame della terra. Sul piano metastorico si avverte una analogia di significati.
Ma prima di tutto sentiamo riecheggiare in Scotellaro significati comuni a culture di origine e alle letterature ch’esse generano, quali la poesia popolare negra e la poesia di Pablo Neruda, per esempio.
Nel racconto delle sue prime estasi di fanciullo/adolescente nel Collegio Serafico dei Cappuccini a Sicignano degli Alburni riemerge il valore propiziatorio e apotropaico (che tende ad allontanare o annullare una influenza negativa) riconosciuto nel culto agreste di Dioniso al giuoco dei venti:
La mia stanzetta era come quella dei padri, in un incrocio di corridoi o dove mi piaceva farmi prendere dal vento che vi giocava sempre (Dall’Uva puttanella).
Nella piazza antistante il Palazzo Ducale:
I venti vi giuocano tutti (Idem).
E in L’Adige scroscia:
gioca il vento le sue rapine
Ancora più mitica è l’evocazione del vento in altre poesie. Come ogni essere soprannaturale, esso è bifronte. C’è il vento buono che dà pace:
querce e cerri affratellati nel vento (Passaggio alla città)
che ci concilia con i morti:
Dalle fosse supini
con noi quanti nostri fratelli
li collocammo dirimpetto
per darci a vicenda conforto,
faranno di sentire le tue voci nel vento dei pini
(Carità del mio paese)
Quest’ultima immagine ci fa riandare al virgiliano oscilla ex alta suspendunt mollia pinu (Georg. II 387 ss.). E ancora:
Le viti si aggrovigliano a levante
dove le chiama il primo vento. (La pioggia)
Di contro c’è il vento nocivo alle campagne:
se le campagne scacceranno
il vento afoso che s’è levato.
(I padri della terra se ci sentono cantare)
Il motivo-immagine della campagna che scaccia il vento rientra pur esso nell’universo contadino. Il «lamento della campagna» è dato proprio dal vento che «infuria sulle giogaie» (Non suonate le trombe voi)
Inoltre si ha il vento che appaura:
Il vento che mi ronza tutt’intorno
m’appaura: giaccio.(Dietro il Basento).
E che, dopo passata la paura (la paura del lupo), porta sonno:
E’ il vento che mi porta il sonno
ora che nell’ovile è morta la paura.
Ma porta anche distruzione, malattia e morte:
È venuto il vento
è caduta la giostra,
è morto il vicino di casa,
che era stato a quella terra. (C’era l’America)
Il vento coordina il maleficio degli spiriti maligni che vagano nell’aria: «Le malattie stanno nell’aria e si combinano per inaspettati colpi di vento»( Da Uno si distrae al bivio).
Ed ancora il vento cattivo che sveglia i morti violenti:
Con questi venti nei nostri tuguri
svegliate la faccia dei morti violenti
e ci fate più lupi di prima.
(I santi contadini di Matera)
I venti che svegliano i morti violenti e fanno diventare lupi, anzi «più lupi di prima» (giacché i lucani discenderebbero già totemicamente dal lupo ), sono appunto li mal’ uint’. In essi s’incarnano gli spiriti degli uccisi che, stanchi del loro lungo errare, si aggrappano al passante, specie negli incroci e nei crocevia, s’impossessano di lui (il che avviene quando si è presi nel vortice di un mulinello), provocandogli chiazze rosse su tutto il corpo.
Questa, come ogni altra credenza, viene posta come postulato, sulla base di un racconto-testimonianza che si trasmette come se fosse vero. Esso coagula vari motivi narrativi, a cui corrispondono concezioni mitiche e credenze magiche. Gli incroci e i crocevia sono punti di alto rischio per i camminanti, soggetti al libero gioco degli spiriti maligni, in questo caso i venti, spiriti degli uccisi, che se ne impossessano lasciando impresse sul loro corpo le tracce del proprio sangue versato. Il sangue è un elemento primario di contagio: quello che i morti violenti hanno perduto lo riversano sui vivi nelle loro scorrerie da dannati. Nel mondo contadino il terreno e l’ultraterreno si comunicano e si collegano direttamente e realisticamente: colpe e pene sono regolate da una naturale, forse più della dantesca legge del contrappasso. Li mal’ uint’ (spiriti degli uccisi) accomunano così i vivi al loro destino di un errare aggressivo trasformandoli in lupi più violenti («e ci fate più lupi di prima» ), come sono i lupi mannari, il cui segno di trasformazione avvenuta è appunto il sangue (come già appare nel famoso racconto petroniano di Nicerote nel Satyricon, in cui il soldato compagno di Nicerote si trasforma in lupo mannaro).
Una diffusa credenza basilicatese e calabrese attribuisce agli spiriti maligni portati dai venti e identificati con essi (tanto che scazzariello-u indica sia il diavoletto malefico sia il mulinello o vortice dei venti) l’effetto di provocare sulle persone prese nel vortice «arrossamenti cutanei, eczemi, pustole, eruzioni di pelle, contro i quali si ritiene quindi rimedio infallibile acqua santa, benedizioni, scongiuri e fattucchiere». Analoga è la terapia prescritta nel caso specifico. Per liberarsi dal funesto possesso dei mal’ vint’ e per guarire dalle macchie di sangue si passano sopra le giunture, uno alla volta, tre pezzetti di pane bagnati nel vino e una foglia di ulivo benedetta, facendo il segno della croce e recitando lo scongiuro:
Fuggi vento tristo
ti perseguita Gesù Cristo
vattene a quel lato
dove Dio ti ha condannato.
In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito.
È da spiegare che le giunture sono punti di sutura e quindi di maggiore vulnerabilità del corpo, equivalenti ai crocevia. L’operazione curativa è ripetuta tre volte: il tre è di per sé numero sacro, qui in relazione con la Trinità.
Alla formula cristiana in lingua segue il testo in dialetto, in cui il vento viene assimilato alla figura della «brutta bestia» o all’espressione del «frutto cattivo» con cui si designa il demonio nella iconografia e innologia cristiana:
Male vinte brutta bestia
vattinne da ‘ncudde a chesta
sciativenne, scumbinatoria
ca ve caccia S. Antonie.
Male viente e male frutte
vattinne da dò sì venute,
ca tu si cacciate
da la Santissima Trinitate.
(Male vento brutta bestia / vattene da dosso a questa / andatevene disordine / vi caccia S. Antonio. /Malo vento e malo frutto / vattene da dove sei venuto /ché tu sei cacciato / dalla Santissima Trinità.)
Così si chiude l’orazione-scongiuro che si recita a Oppido Lucano contro il «malo vento tristo», apportatore a «chi va per la via» di ogni specie di fascinazione e/o fattura e quindi di specifiche malattie. Nel bosco (lontano, oscuro) il «malo vento» risiede ed esplica la sua azione malefica. Il bosco è perciò uno dei punti di maggiore pericolo per il passante (che deve difendersi dai venti come dalle bestie feroci avendo il «malo vento» l’aspetto demoniaco della «brutta bestia»). Nel bosco, dove esso non può nuocere se non a chi vi si addentra, viene ricacciato il «malo vento» stando alle parole del seguente scongiuro impiegato a Ferrandina per l’emicrania e l’orticaria:
– Male viente da dò viene?
Male viente a dò vai?
– Vado sopa a N. N.
– Sopa a N.N. non pote scì
chedda è carne vattesciata.
A scì ndo nu vasche streme
dò non se séntene
né campane de sunà
né cristiane de passà
né galle de cantà!
Campane che suonano, cristiani che passano, galli che cantano: sono segni di resurrezione e di vita.
La sede del maleficio è il bosco oscuro (ancora una volta fa testo sullo sfondo medievale dell’immaginario individuale e collettivo la ‘selva oscura’ di Dante), dove non c’è luce né lume, come si recita nella versione di Savoia di Lucania:
Fuj male vinte
da sop’a quest’anima innocente
ind’a lu vosche oscure
addò non c’è luce e lume.
A Pisticci lo si manda ad annegare nel mare, dove il maleficio si dissolve secondo un motivo tipico degli antichi scongiuri:
Male viente maledette
e vattine a mare a necà
ca sta carne benedetta
non hai cosa le fa.
«Dette queste parole» – riferisce De Martino – «si tolgono i vestiti e si vanno a deporre a un crocevia dove il primo passante ne assorbirà la malignità di cui sono impregnati». Ritroviamo, dunque, il crocevia come transito insidiato dal maleficio dei venti.
Del potere magico dei venti Frazer (James George Frazer è stato un antropologo e storico delle religioni scozzese) ci dà testimonianze antiche, etnologiche e demologiche, che attestano nell’antichità e presso le popolazioni primitive la credenza sulla natura demoniaca del vento”. Ve ne sono alcune, infatti, che descrivono la funzione delle streghe nel produrre il vento (la connessione con le streghe è presente nella poesia di Scotellaro) e le pratiche messe in atto per difendersi:
Così in Scozia le streghe solevan far alzare il vento, immergendo un cencio nell’acqua e sbattendolo tre volte contro una pietra, dicendo:
Io sbatto questo straccio su uno scoglio
per fare il vento in nome del Demonio
e non si cheterà s’io non lo voglio.
[ … ]
Spesso il vento tempestoso vien considerato come un essere malefico che può essere intimidito, cacciato via o ucciso. Quando le tempeste e il cattivo tempo sono durati un pezzo e il cibo è scarso, gli Eschimesi dell’interno cercan di scongiurare la tempesta facendo una gran frusta con delle alghe, e armati di essa vanno alla spiaggia e tirano gran colpi in direzione del vento, gridando: «Taba (basta)!». [ … ].
Gl’Indiani Léngua del Gran Ciaco attribuiscono la violenza del turbine al passaggio di uno spirito e scagliano dei bastoni per spaventarlo. Quando il vento abbatte le loro capanne, i Payagua del Sud America dan di piglio a dei rami accesi e corrono contro il vento minacciandolo coi tozzi ardenti, mentre altri battono il vento coi pugni, per spaventar la tempesta. Quando i Guaycuru son minacciati da un aspro uragano gli uomini escon di casa armati e le donne e i bambini inalzano gli urli più alti per intimidire il demonio. [ … ].
In Australia le grandi colonne di sabbia rossa che muovono rapida- mente per il deserto sono credute dagli indigeni spiriti erranti.(Da Frazer, Il ramo d’oro, 2 voll. Einaudi, 1950)
Gli esempi addotti spiegano indirettamente la credibilità di «una storia, narrata da Erodoto e che i critici moderni han trattato da favola»:
Egli dice, pur senza farsi garante della verità del racconto, che una volta nella terra di Psylli, la moderna Tripoli, il vento del Sahara aveva asciugato tutte le cisterne. Allora il popolo, dopo aver deliberato nell’assemblea, marciò in massa a portar guerra al vento del sud. Ma quando entrarono nel deserto il simun gli si avventò contro e li seppellì tutti sino all’ultimo. Questa storia può benissimo essere stata narrata da uno che li vide scomparire in pieno assetto di guerra e al suono dei tamburi e dei cimbali dentro la rossa nube del vortice di sabbia.(Frazer, Ibidem)
A noi interessano più direttamente queste testimonianze dell’area mediterranea, che confermano il generale carattere magico attribuito ai venti nella mitologia e religione greca e in particolare attestano il culto preistorico dei venti trasmessosi alle popolazioni greche del Peloponneso che lo importarono in Magna Grecia: la venerazione dei venti, con il relativo sacrificio rituale dell’asino, era praticata nella colonia ateniese di Turi, donde forse l’appresero i tarantini, come deduce il Giannelli (Giulio Giannelli, Culto e miti della Magna Grecia. Contributo alla storia più antica delle colonie greche in Occidente, Sansoni, Firenze 1963, p.40-41):
Il culto dei Venti, di carattere generalmente magico, non era ignoto nel Peleponneso, benché la sua sede principale fosse nell’Attica: culto predorico è probabilmente quello di Megalopoli e di Corinto; forse quello pure che aveva sede sul Taigeto. A quest’ultimo ci richiama forse il sacrificio di un asino ai venti, praticato a Taranto. Non si può trascue per altro il fatto che anche Turi, come la sua madre patria, Atena, praticava il culto di Borea: e che da quella città potrebbero i Tarantini avere appreso a venerare i Venti.
A questo sostrato culturale di animazione del vento, che l’equivalenza linguistica con l’anima (ànemos ’vento’) porta nel nome, si può ricongiungere, anche se si tratta di un congiungimento preterintenzionale in Scotellaro ed operato da Bronzini, la concezione che il poeta di Tricarico ha del vento come forza animata: «il vento è mio fratello»: (Notte di Roma), l’urlo della maledizione è «come quello di borea che si sente» (E ci mettiamo a maledire insieme); «conosco [ … ] la voce del vento» (Conosco); il vento fa paura e porta sonno (Dietro il Basento).
Il turbinio nefasto del vento («Ma se c’è vento che turbinio!») (I manifesti)” è, dunque, l’effetto di una condanna mitica. Perciò il vento cattivo è disperato come le anime che trasporta:
Non gridatemi più dentro,
[ … ]
s’acquieti il nostro vento disperato.
Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti.(Sempre nuova è l’alba)
È disperato come il cuculo:
Tu non ci fai dormire
cuculo disperato,
col tuo richiamo:
sì, ridaremo i passi alle trazzere,
ci metteremo alle fatiche domani
che i fiumi ritorneranno gialli
sotto i calanchi
e il vento ci turbinerà
i mantelli negli armadi.
(Tu non ci fai dormire cuculo disperato).
Anche sul cuculo incombe un’antica maledizione, che fa parte della mitologia ornitologica contadina d’ispirazione evangelica ed è stata registrata in Lucania, propriamente nel circondario di Atella. Alla sua sorte di andare ramingo tra gli alberi e di cantare funestamente al vento viene identificata la pena che Gesù inflisse al vaccaro che gli aveva negato il latte secondo il criterio di compensazione del reato («occhio per occhio, dente per dente»), proprio della legge ebraica: «Andrai facendo cucu sugli alberi, cantando per quante stille di latte mi hai negato». Di qui, per via antropologica, si spiega il destino del pastore errante e il suo tormento, che Leopardi poeticamente ritrasse.
Un altro rilevamento cospicuo. La facies carnevalesca, probabilmente originaria, del gioco della moscacieca riemerge nella poesia Nei nascondigli ridono da pazzi, col riso demoniaco degli uomini bendati che afferrano la vittima in uno scenario infernale di «vicoli dirupati» e «abissi» funestati dal vento:
Uomini fatti
giocano a moscacieca
nei vicoli dirupati.
Agguantano la vittima
nelle parti molli.
Nei nascondigli ridono da pazzi.
E un uomo curvo, il vento
sperde i mantelli neri negli abissi
sussura la parola
alla vittima che è rimasta sola.
Quanto è stato qui rilevato è sufficiente per concludere che, prima che riscoperto memorialmente da Levi e prima che indagato scientificamente da De Martino, il mondo magico, connesso col regime esistenziale dei contadini lucani, affiora in tutta la sua valenza rituale, quindi mitica e reale insieme, in Scotellaro.
(Parafrasi del paragrafo Il fuoco, il vento, il cuculo e il riso del capitolo terzo Mito e storia – simboli e funzioni del volume di Giovanni Battista Bronzini, L’Universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro).
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