La quarta e ultima parte di «Una passera grigia» è un monologo d’amore in prosa a Rina (Irene) composto di 9 motivi. Nell’indice i motivi sono citati con l’incipit del motivo stesso, che, nel testo di seguito pubblicato, ho evidenziato. Ho utilizzato il copia e incolla del monologo per conservare le dimensioni del libro: La dimensione del testo a dimensione della pagina del blog, mi è infatti sembrato che presentasse una compatta durezza, che annullava la tonalità poetica del testo in prosa.

     Soffermo l’attenzione sul finale del quinto motivo « Qui tutto avanza piano, Rina; non come nelle terre del Nord. La civiltà è quella di secoli fa e, come tu vedi, le donne hanno volti antichi, di divinità in fuga », che rimanda al passo di Nerio Tebano riferito da don Benì Perrone nella sua lezione su Giuseppe Giannotta all’Università della Terza Età – riportata sul blog – e qui ripeto, perché mi piace come conclusione della pubblicazione di «Una passera grigia»: «Basta leggere la maggior parte delle liriche di Giannotta per accorgersi che esse prendono direttamente l’aria della terra dove sono nate … Forse egli non le avrebbe mai scritte se fosse nato e vissuto altrove. Il clima della Lucania, di questa terra difficile, l’atmosfera mediterranea, hanno una influenza determinante sugli uomini e sugli artisti che vivono … Non possono vedere altro, non possono e non sanno vivere altrove, visceralmente legati alla loro terra e perciò passionali, comunicativi, vigorosi ».

P.S. Come è noto, i blog danno la precedenza ai testi postati più anticamente. Avverto che tra qualche giorno ordinerò le poesie qui pubblicate secondo il loro ordine proprio, invertendo la data di pubblicazione. (a.m.)

1

Senti il tuo sangue farsi pauroso, le gambe cedere.

È questo l’amore, Rina, che fa il petto più friabile,

l’orgoglio generosa dolcezza. Nell’amore il corpo

si scioglie, si fonde miracoloso in altri esseri. Si

dà il meglio della nostra giovinezza, della nostra fantasia,

per creare chi verrà dopo di noi.

2

Ti ho rivisto nell’aria bianca del mattino. Il tuo

vestito azzurro era un piano staccato nell’aria fresca.

Andavi in cerca della vita, di segreti balocchi.

Avevi il richiamo dell’ energia che scoppia dal tronco

maschio, da foglie dure. Io non ho voluto turbarti

nel tuo incantesimo; perché in silenzio si trama

la rete del nostro errare, del grido che spalanca

3

L’amica gentile ha compiuto il miracolo. Ci ha

messo faccia a faccia e la sua mano ha tremato al contatto

della mia. Quando ci ha lasciato, non ho saputo

che dirti. Ho visto le tue guance farsi rosse, ed

anch’io ero inquieto, in cerca d’un appiglio.

Poi per fare qualcosa ho toccato il tuo cappotto

e tu sei rimasta lì, a guardare, con gli occhi che ridevano,

senza renderei conto che toccavo i tuoi indumenti,

il tuo tepore.

4

Tu adesso corri quando m’incontri. Corri come

una che teme. Non devi impaurirti delle cose stabilite.

Devi accettarle come il sole, come la crescita

degli alberi e dei bimbi.

Ognuno ha un suo arco, lungo o corto. Non bisogna

fermarsi, poiché le soste uccidono: si ha l’impressione

che si formino pozze d’acqua sporca e che

si rimanga impigliati, tanto è difficile uscirne. Non

le soste, Rina, ma un andare sciolto, spigliato, come

acqua che scorre, come rondine che va e viene dai

suoi luoghi, senza incertezze.

5

Oggi sono stato nella selva vicino a Fondi. Tutto

era eguale, come quando ero bambino; gli alberi

gli stessi e l’acqua della fontana nitida. Passavano i

contadini, con le braccia gonfie di vene. Con uno

di essi mi sono fermato a parlare e m’ha detto che

l’argilla si spacca e il grano stenta a crescere. C’è nei

loro occhi una pazienza che rasenta quella dei cani,

dei muli. Non si ribellano mai, tranne che in alcuni

momenti, quando la fame insulta i figli. Se fosse per

loro, morirebbero dolcemente, come gazzelle. È ammirevole

questo senso che li lega alla prole, tanto

che per essa sono propensi alla rivolta, al carcere e

alla morte.

Qui tutto avanza piano, Rina; non come nelle

terre del Nord. La civiltà è quella di secoli fa e, come

tu vedi, le donne hanno volti antichi, di divinità

in fuga.

6

La passeggiata non è stata piacevole.

Hai visto i ragazzi, che venivano dai campi? Quei

giovani sono già vecchi, la loro pelle è arida, e non

li consola l’idea di dormire in un letto sporco, insieme

alla donna che intendono sposare.

Io non so se questo è vita. Ma il peggio è che

costoro non sanno che sia possibile una vita migliore.

– È meglio mantenerli rozzi, senza domani, –

dicono alcuni che, col balzo di quei giovani, vedrebbero

compromesse le loro fortune, fondate sul lavoro

– Guai se vedono, – essi dicono.

E studiano, si contorcono, picchiano il popolo,

autentico custode di questa terra.

Quanto durerà, quando uno spiraglio batterà alle

porte?

Bisognerà essere dritti, contro il Malvento.

7

Stasera eri mesta.

Siamo come nebbie o uccelli di una sola stagione:

non bisogna cadere.

Occorre saltare, afferrare il mondo, correre come

cavalle indomite su questi pascoli.

O amica, quella mestizia stonava sul tuo viso.

Sia anche pesante il motivo, occorre considerare che

con questo nulla si acquista. Consumiamo solo il nostro

sangue, il volo che lo accende.

Andare sempre leggeri sulle vie del mondo, senza

l’ombra della casa che cade. La casa deve cadere, e

noi non possiamo evitare il crollo.

Cammina e disperdi le tue noie al vento, al canto

della sera. L’acqua deve correre e non stagnare;

altrimenti fuoriescono le zanzare.

Non conviene essere in lotta con la natura. La

nostra vita ha bisogno di movenze, di danze briose.

Fà un piccolo salto e grida, come bimba, senza tempo,

senza storia e città, balza fino a stordirti.

Risorgerai, dalla noia bruciata.

8

Ieri sera non son potuto venire all’invito. Un

amico vagabondo mi ha tenuto con sé. È uno di quelli

che soffrono.

Lo prende la mania delle cose belle, dell’erba che

nasce dalla creta, dell’onda che sgorga dai sassi. Trascina

il mio pensiero dove forse non arriva, mi fa

toccare il fondo del vetro, del raggio che picchia sui

capelli. Che fortuna avere un amico simile. S’esalta

di ciò che dice, mette una forza nuova nelle parole,

il suo linguaggio è quello di chi si sente destinato

a lasciare orma di sé, del suo sangue che lo rende

IL suo pallore ricorda i martiri, le vittime di un

sogno elevato, coloro che soggiacciono a un’idea gloriosa,

che, quaggiù -si sa- semina sacrifici e lutti;

e vi muoiono i puri, i fragili, chi non la durezza e

la lascivia del fango; perché, attentissima Rina, la sublimazione

dell’essere si disperde, diventa rarefatta

sostanza, che corre per case e colline, a lievitare gli

animi pronti, che a quel vento disciolgono il cuore

e schiudono il cammino.

9

Se talvolta i tuoi occhi mi guardano vinti, è forse

perché intravvedi io me un mezzo eroe, un giovane

destinato a far pazzie.

Io t’amo (non c’è bisogno di dirlo), ma non mi

concedere pietà, perché la stessa forza che pongo in

amore, posso usare per slegarmi dal vento dell’ora,

e migrare ad altri incantati paesi.

È legittimo che ogni uomo conosca i suoi turbamenti,

i suoi arresti fuggevoli; ma la vita sta nel

rialzarsi, nell’andare oltre, nel cogliere il bersaglio,

sia pure con la faccia smorta.

Forse, non t’aspettavi da me questa confessione,

ma è la sincerità che mi detta a farla. Ed io sono

sincero quando ti dico che adoro i tuoi occhi, navi

d’amore, le tue mani, il tuo corpo che porti in giro

per ingrandire l’orizzonte. Tutto può accadere, Rina;

e io potrò lambirti la veste e l’omero tiepido,

o la pelle scoperta sul petto, il calore che ti scorre

sotto-pelle.

E tu devi essere ampia, come lenzuolo pulito:

una domestica colomba o una passera grigia.

 

 

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