Rocco Scotellaro, AMERICA
ROCCO SCOTELLARO – E’ FATTO GIORNO – QUADERNO A CANCELLI
AMERICA
Mia madre, la porto in tasca la lettera,
mio padre l’ha trovato intero, dice,
nella bara dopo dieci anni,
e non è entrato nella cassetta
per averlo in cenere;
altre cinquantamila lire,
se il cugino non sfondava il tetto
della sua cappella per porlo lì,
come lo spuntone di una trave,
dopo tre giornate di fatica offerta
perché lui spera che lo faccia partire
in America, dove ha figli e moglie,
e lui, già cittadino, non lo vogliono.
(1952)
p.184 II ed., dicembre 1954 di E’ fatto giorno con 10 tavole di Aldo Turchiaro
Il cugino di cui si parla nella poesia è Vincenzo Miseo, muratore, che con Vincenzo Carolillo gestiva il cinema, mantenendo l’ordine tra i bambini e imponendo il silenzio, fustigandoli con un sottile vincastro, che lasciava dolorosi segni sulle cosce. L’accenno, negli ultimi versi, al rifiuto del visto per l’emigrazione negli Stati Uniti ci rimanda a una pagina dell’infausta politica maccartista vissuta senza onore a Tricarico, che ho raccontato altrove e qui ripropongo.
Nel dopoguerra dall’Italia era partito un imponente flusso migratorio in diversi Paesi dell’America e d’Europa. Una legge varata dal Congresso degli Stati Uniti favoriva il ritorno di chi avesse la cittadinanza americana e concedeva il diritto al ricongiungimento con familiari di cittadinanza non americana. Ma la prospettiva che la legge apriva venne in conflitto con uno dei capitoli più neri e squallidi della storia americana, che si ricorda col nome di maccartismo, quasi a voler scaricare la vergogna su un modestissimo e squallido senatore del Wisconsin, che sul terrore americano per il pericolo comunista costruì il suo quarto d’ora di celebrità, trascinando sul banco degli accusati e facendo espellere dagli Stati Uniti il fior fiore della cultura, della scienza e dell’arte americana. Il maccartismo fu l’esplosione di un’isteria generale, di un male profondo della società americana, che avvelenò la vita pubblica e danneggiò gravemente la reputazione degli Stati Uniti nel mondo. Le radici di questo male profondo non affondavano certamente nell’isteria, o nella furbizia, di un politico di mezza tacca, morto alcolizzato, ma in una crisi morale della società americana.
L’ondata migratoria del dopoguerra, che non ebbe negli Stati Uniti la più consistente direzione, assunse dimensioni ragguardevoli, che ridussero a meno della metà i residenti a Tricarico. Sorsero nuove professioni per l’assistenza agli emigranti dal disbrigo delle pratiche burocratiche, al procacciamento di un posto di lavoro nel Paese di destinazione, ai contatti con i consolati per l’ottenimento dei visti, all’accompagnamento al punto d’imbarco al porto di Napoli.
Gli aspiranti emigranti negli Stati Uniti furono vittime, complice il maccartismo, d’invidie, odî, malanimi. Bastava far giungere al consolato americano di Napoli una lettera anonima con l’accusa di sovversivismo per bloccare, talvolta definitivamente, una pratica di emigrazione. In quel periodo furono scritte a Tricarico, e non solo a Tricarico, pagine indegne, che rimarranno purtroppo sconosciute. Il consolato, che aveva la sede ufficiale in un imponente palazzo al Lungomare, dovette triplicare i suoi organici, assumendo anche personale italiano che avesse una buona conoscenza dell’inglese, e a prendere in locazione alcuni edifici nella bella via Orazio, che da Mergellina sale al Vomero. Tra gli italiani assunti c’era un mio amico, che mi spiegò, scandalizzato, cosa stesse accadendo: si trattava di far fronte a un’imponente massa di lavoro che era cresciuta per impedire l’ingresso in America di pericolosi sovversivi. La prima segnalazione del grave pericolo era data da lettere anonime.
Un giorno venne a cercarmi mastro Andrea Sellitti, barbiere con bottega nel corso di fronte alla cattedrale, che svolgeva anche funzioni di sagrestano; mi disse che nella sagrestia della Cattedrale mi aspettava un funzionario del consolato americano. Il suo arrivo a Tricarico, con un enorme macchinone, non era passato inosservato. Ero segretario della sezione di Tricarico della DC ed era quindi chiaro il motivo per cui il funzionario americano mi cercava. Accettai di incontrarlo. Giunto al suo cospetto, mi feci confermare ciò che già avevo supposto: ossia che aveva intenzione di incontrare il segretario locale della DC, ma non voleva chiedere in paese chi fosse e dove trovarlo per il timore che lo indirizzassero verso … un pericoloso sovversivo per depistare la sua missione. Entrò nella Cattedrale e si rivolse a mastro Andrea, intento all’espletamento dei suoi compiti. La Cattedrale e il sagrestano gli dettero sicurezza.
Aveva con sé alcune pratiche di aspiranti emigranti e voleva chiedermi informazioni sul loro orientamento politico. – Non c’è una sola pratica – mi disse – senza segnalazioni anonime. Noi vogliamo essere giusti, vogliamo accertare senz’ombra di dubbio chi è veramente un sovversivo che non deve entrare in America, perché pensiamo che non tutti lo siano, che non dobbiamo prendere per oro colato tutte le lettere anonime -.
Gli risposi che se avessi collaborato avrei fatto il gioco delle lettere anonime, perché, se non gli avessi indicato almeno un “sovversivo”, avrei gettato un’ombra su tutti gli altri. Aggiunsi che nessuno, assolutamente nessuno, costituiva un pericolo per gli Stati Uniti e che l’aiuto di cui avevano bisogno se lo dovevano dare da soli, guarendo dall’isteria che rendeva ridicola l’America agli occhi del mondo intero. Ci rimase male, ma accettò la stretta di mano che gli porsi per il commiato. Lo lasciai vergognandomi dei miei paesani autori di vigliacche lettere anonime, che causarono non pochi patemi d’animo e in almeno due casi produssero l’effetto voluto.
In un caso si trattò di Santino Paradiso, mio compagno di giochi e mio amico, nipote di Vincenzo Miseo. Egli emigrò, in America si sposò con un’americana oriunda tricaricese ed ebbe un figlio. La follia maccartista lo travolse, fu espulso e rimandato in Italia. Vissi con lui il suo dramma: per anni fece di tutto per risolvere il suo problema, vivendo con le rimesse che gli inviava la moglie. Anche per non continuare a pesare sulla moglie emigrò nel Venezuela e, finalmente, quando l’America riuscì a lenire il suo male profondo, rientrò in America, ricongiungendosi alla famiglia.
Sorte analoga toccò a suo zio Vincenzo Miseo, che abitava in via Roma, di fronte alla casa di Rocco Scotellaro, di cui era cugino. A Vincenzo Miseo, cittadino americano, dovette nuocere la parentela con Rocco Scotellaro, al più era stato iscritto al partito socialista. Anche lui, come Santino, riuscì a tornare negli Stati Uniti dopo alcuni anni di traversie, previa sosta nel Venezuela.
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