Antologia della Civiltà contadina – 2) CONTADINI E LUIGINI
Don Luigino, il maestro di scuola, segretario del fascio e podestà di Gagliano (Aliano) divenne per Carlo Levi l’emblema delle « ameboidi piccole borghesie » di ogni tempo, con tutte le sue miserie e i suoi complessi di inferiorità. Da quel momento Levi divise il mondo in due categorie: « Luigini e Contadini », che è anche il titolo di un suo libro postumo (Basilicata Editrice, Roma –Matera, 1975).
Nella dolorosa esperienza della malattia e della cecità, in Levi si fa strada, con l’uso preferito della metafora, la convinzione che la storia del mondo è iscritta nella malattia assai più che nella storia delle idee e delle istituzioni. Per questo propone di rivedere la distinzione fra « Contadini e Luigini », aggiornandola in quella tra « Diabetici e Allergici ».
In uno dei testi più belli e innovativi del dopoguerra, « L’Orologio » Levi fa spiegare a un compagno del protagonista che cosa volesse intendere questa distinzione del mondo tra Contadini e Luigini. In questo primo articolo riporto tale spiegazione, e mi riservo di riportare in un successivo articolo che cosa debba intendersi con l’aggiornamento in Diabetici e Allergici.
A riprendere in mano « L’Orologio » dopo sessantaquattro anni, l’anno (1950) della sua uscita, la vecchia edizione con la sovracopertina col gufo e l’orologio, nel cui muoversi meccanico delle lancette si svolge l’eterna vicenda delle infinite sorti individuali; a rileggere nello scorrere di una lunga vita, quelle pagine compatte di carta autarchica che pare volersi consumare in polvere, quei minuscoli caratteri infilati come mosche, senza a capo per risparmiare carta, mi ha spinto, con affettuosa insistenza, Gilberto Marselli, che pare conoscere a memoria quell’antica storia leviana. Non si tratta proprio del volume che ebbi in mano sessantaquattro anni fa, ma di un omaggio di Levi al padre di mia moglie, con la dedica scritta con la penna intinta nel calamaio, tendente a ingiallire: «All’avv. Domenico De Maria ringraziandolo per il piacere provato nel leggere la sua bellissima storia di Taras, con viva cordialità e amicizia, Carlo Levi. Roma 18 giugno 1950 ».
Ringrazio Gilberto. Non poteva darmi migliore suggerimento. «L’Orologio » è libro di raffinata letteratura da considerarsi, anche dal punto di vista storico, tra le più importanti testimonianze del dopoguerra. Rileggendolo, si comprende quanto sia stato ingiusto ignorarlo e attaccarlo con ira. Levi ripercorre in modo romanzesco momenti cruciali della nostra storia, dalla fine del governo Parri alla nascita dei ministri De Gasperi. Le vicende si svolgono tra Roma e Napoli, dove il protagonista si reca per assistere uno zio moribondo dalla sapienza medioevale. Quel viaggio di andata e ritorno, fatto tra paesi ancora distrutti dalla guerra, riserva sorprese ed avventure in un paesaggio lunare ed irreale. Il congegno narrativo si regge sull’uso di una continua ricerca espressiva ed artistica, corroborato da una limpida tensione ideale. Il libro si apre sulla potente immagine di un Roma barocca, misteriosa:
« La notte a Roma par di sentir ruggire i leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza. il ruggito dei leoni, nel deserto delle case. » (p. 11).
Nell’analisi leviana sulle sorti del paese si sviluppa anche, la visione della divisione del mondo in due, in Contadini e Luigini. L’analisi dopo la svolta del novembre 1945 con la caduta del governo Parri, Comandante, con Raffaele Cadorna e Luigi Longo, del Corpo Volontari della Libertà dell’Alta Italia, è affidata a due amici dopo la polemica conferenza stampa del presidente del consiglio dei ministri. Siamo dunque a tarda sera del 24 novembre 1945. Fuori il Viminale la notte era fredda. Davanti al Palazzo, sulla spianata, gruppi di uomini rimanevano a commentare e a discutere, nella massima eccitazione, prima di correre alla sede dei rispettivi partiti per esaminare di nuovo la situazione e decidere sul da farsi. Tutti erano agitati, preoccupati e aggressivi.
Venti pagine, tutto il capitolo VIII, raccontano quella tarda serata del 24 novembre 1945, dopo la conferenza stampa di Parri, che è un drammatico capitolo della storia dei primi mesi del dopoguerra. Peccato dover tagliare molte pagine di quel capitolo, per poter riferire in uno spazio adeguato l’argomento a cui ho accennato.
All’uscita dal Viminale i due amici prendono Levi sotto braccio e insieme attraverseranno il traforo (da via Nazionale a via Barberini), impegnandosi in un ampio e approfondito dialogo, di cui riferirò solo l’argomento della distinzione tra Contadini e Luigini, e anche questo solo parzialmente.
I due amici sono Carmine Bianco (individuato in Manlio Rossi-Doria) e Andrea Valenti (individuato in Leo Valiani). Zoppicavano tutti e due. Andrea Valenti (Leo Valiani) era stato ferito a una gamba nella battaglia della fine di aprile e ricominciava appena ora a camminare, reggendosi a un bastone col puntale di gomma. L’altro, Carmine Bianco, zoppicava solo nei giorni di pioggia, per una vecchia frattura a un piede, di molti anni prima.
« Carmine [Rossi Doria] era piccolo, e squadrato come un contadino; qualcosa di contadinesco aveva anche nel viso, giallo come l’argilla, e precocemente rugoso, nella luce un po’ fissa e paziente degli occhi, nella lentezza dei movimenti, nei vestiti scuri e trasandati, nelle inflessioni ostentatamente dialettali del parlare, di un dialetto indeterminato, misto di romanesco, napoletano e pugliese. Ma, sul naso aguzzo, portava degli occhiali da professore; come effettivamente era, e tecnico dei lavori della terra, e coltivatore moderno di un suo piccolo podere modello. Del tecnico aveva il candore, l’entusiasmo, il gusto utopistico per le cose pratiche e precise; del contadino il senso poetico dell’unità dei problemi, la diffidenza per lo stato e per tutto quello che non nasce dal cuore stesso delle cose. Era stato comunista, da giovane, aveva passato qualche anno in prigione; c’era tornato recentemente, sotto i tedeschi.
Da molto tempo aveva lasciato quelle sue prime opinioni, volgendosi a interessi apparentemente più piccoli e quotidiani, ai contratti, alle riforme agrarie, all’irrigazione, ai metodi di lavoro, a tutte quelle attività che possono cambiare la faccia di un pezzo di terra, e nelle quali egli metteva la stessa passione che se si fosse trattato di mutar volto alla terra intera, a quelle piccole cose vere e diverse, che gli pareva ora fossero sacrificate dagli schemi politici della sua adolescenza, dalla loro uniformità, dalla loro rigidezza intellettuale. Ma anche verso i grandi progetti, le grandi visioni era tuttavia attirato: oscillava cosi tra due poli, tra il tecnicismo e la passione rinnovatrice, seguendo un giorno il sogno di una lenta, paziente costruzione, che nascesse naturale dai problemi del campo e del villaggio, e il giorno seguente quello dell’efficacia della lotta politica, dei partiti, delle idee nuove, della spinta delle masse, della organizzazione. Stava a cavallo, con un piede sulla politica pura e l’altro sulla pura tecnica, ma questa stessa incertezza gli chiariva le idee, gli impediva di fossilizzarsi in una abitudine mentale, lo conservava vivo e appassionato »
L’altro, Andrea [Leo Valiani], « era un uccello di gran volo. Era stato anche lui comunista, fino a qualche anno prima: ma mentre in Carmine questa esperienza era passata senza quasi lasciar traccia, sepolta sotto la terra smossa dalle vanghe dei contadini, in lui aveva lasciato un segno profondo, e una infinità di problemi […] Era passato attraverso le prove più diverse; guerre e battaglie, direzioni di partiti, lotte di tendenze e di fazioni, emigrazioni, esili, campi di concentramento, prigioni, studi approfonditi di filosofia, di storia e di scienze economiche e finanziarie, avventure umane di ogni genere, amori e tempeste, e, infine, una attività bellissima nella direzione della guerra partigiana del Nord. Era giovane ancora, tanto che ci si domandava quando avesse avuto il tempo di mettere insieme tanti, e cosi profondi, elementi di vita […]. Parlava a scatti, con voce metallica, nervosa e impaziente, come annoiato del tempo fisico della parola, troppo lento per la rapidità della sua immaginazione, che ne sentiva l’impaccio, e della lentezza di comprensione degli ascoltatori, della loro ignoranza, dei loro pregiudizi sentimentali: verso tutte queste cose non sapeva nascondere (per quanto talvolta se ne sforzasse) un fin troppo evidente disprezzo.
Da tempo aveva preveduto la crisi, e molti altri fatti che erano avvenuti o che dovevano succedere poi: il piacere delle idee lo consolava della tristezza delle previsioni; del senso delle delusioni inevitabili ».
E’ Andrea che spiega la distinzione tra Contadini e Luigini. Ed è ancora un peccato saltare la lunga analisi deg li ultimi eventi e le previsioni, che sarebbe invece necessario conoscere per meglio comprendere la spiegazione che Andrea si accinge ad esporre ai due amici.
« Ecco: i due veri partiti che, come direbbero nel Mezzogiorno, si lottano, le due civiltà che stanno di fronte, le due Italie, sono quella dei Contadini e quella dei Luigini. Contadini e Luigini, – gridò, alzando le braccia, nel frastuono della caverna, – ecco i due movimenti, nemici e impenetrabili; ecco le due sole Categorie della nostra storia. Contadini e Luigini, Luigini e Contadini!
[…]Le cose vanno chiamate con i loro nomi: io ho scelto questi perché sono veri. Contadini, non c’è bisogno di aggiungere altro: non ti pare, Carmine? Quanto ai Luigini – e qui si rivolse a me, – li chiamo così dal nome di un personaggio fantastico, che, non per colpa o merito suo, li rappresenta completamente, in un libro che tu conosci di certo: quel don Luigino, podestà e maestro di scuola di un villaggio meridionale che tu sai. Cominciate a capire, ora? Ebbene: chi sono i Contadini? Sono, prima di tutto, i contadini: quelli del Sud, e anche quelli del Nord: quasi tutti; con la loro civiltà fuori del tempo e della storia, con la loro aderenza alle cose, con la loro vicinanza agli animali, alle forze della natura e della terra, con i loro dèi e i loro santi, pagani e prepagani, con la loro pazienza e la loro ira; e via, via, queste cose le sapete. È un altro mondo: il mondo della magia e della indistinzione, la civiltà della tradizione orale, della lingua fondata, anziché sugli ideogrammi, sugli ideofonemi: è l’oscuro fondo vitale di ciascuno di noi. Tutto questo, siete voi a insegnarmelo. Ma non sono soltanto i contadini. Sono anche, naturalmente, i baroni. Che? Non mi guardate cosi di traverso: non si tratta di dividere i buoni dai cattivi: non sono né predicatore, né demagogo, né moralista. Ho detto i baroni, quelli veri, con il castello in cima al monte: i baroni contadini. Tu li conosci, don Carlo. E poi ci sono gli industriali, gli imprenditori, i tecnici: soprattutto quelli della piccola e media industria, e anche qualcuno della grande: non quelli che vivono di protezioni, di sussidi, di colpi di borsa, di mance governative, di furti, di favoritismi, di tariffe doganali, di contingenti, di diritti di importazione, di privilegi corporativi. Gli altri, quelli che sanno creare una fabbrica, quel poco di borghesia attiva e moderna che, malgrado tutto, c’è ancora nel nostro paese, per quanto possa sembrare un anacronismo, E anche gli agrari, magari i grossi proprietari di terre (questi sono per te, Carmine), ma quelli che sanno dirigere una bonifica, ridare una faccia alla terra abbandonata e degenerata. Anche loro sono Contadini. E gli operai, non quelli corrotti e alleati senza saperlo dei loro padroni in difesa di un povero interesse di sezione, non quelli che non sai se più compiangere come sfruttati o più disprezzare come infimi sfruttatori, ma tutti gli altri, la grande massa operaia abituata all’ordine creativo della fabbrica, alla disciplina volontaria, al valore che sta nelle cose. Non importa come la pensino, in quale partito siano organizzati: sono Contadini anche loro, e non solo perché vengono in gran parte dalla campagna; ma perché, su un altro piano, hanno la stessa sostanza: la natura, per loro, non è più la terra, ma sono torni, frese, magli, presse, trapani, forni, macchine; con questa natura di ferro, sono a contatto diretto, e ne fanno nascere le cose, e la speranza e la disperazione, e una visione mitologica del mondo. Sono Contadini tutti quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano, che se ne contentano. Sono Contadini anche gli artigiani, i medici, i matematici, i pittori, le donne, quelle vere non quelle finte. Infine, se permettete, siamo Contadini noi: non intendo noi tre, ma quelli che si usano chiamare, con una parola odiosa, gli « intellettuali » –
[…] E i Luigini, chi sono? Sono gli altri. La grande maggioranza della sterminata, informe, ameboide piccola borghesia, con tutte le sue specie, sottospecie e varianti, con tutte le sue miserie, i suoi complessi d’inferiorità, i suoi moralismi e immoralismi, e ambizioni sbagliate, e idolatriche paure. Sono quelli che dipendono e comandano; e amano e odiano le gerarchie, e servono e imperano. Sono la folla dei burocrati, degli statali, dei bancari, degli impiegati di concetto, dei militari, dei magistrati, degli avvocati, dei poliziotti, dei laureati, dei procaccianti, degli studenti, dei parassiti. Ecco i Luigini. Anche i preti, naturalmente, per quanto ne conosca molti che credono a quello che dicono, e che, loro, non sono Luigini, ma Contadini. E anche gli industriali e commercianti che si reggono sui miliardi dello Stato, e anche gli operai che stanno con loro, c anche gli agrari e i contadini della stessa specie. Tutti questi sono i Luigini. Poi ci sono i politicanti, gli organizzatori di tutte le tendenze c qualità, che sono Luigini magari senza saperlo e senza valerlo: Luigini per posizione, anche se molti, personalmente, sarebbero piuttosto Contadini. Ce li metto tutti: comunisti, socialisti, repubblicani, democristiani, azionisti, liberali, qualunquisti, neofascisti, di destra e di sinistra, rivoluzionari o conservatori o reazionari che siano o pretendano di essere. E aggiungete infine, per completare il quadro, i letterati, gli eterni letterati dell’eterna Arcadia, anche se, per fortuna, non sanno né leggere né scrivere. Questi sono i Luigini, il grande partito luigino. Perché, badate, i Luigini sono la maggioranza. Democraticamente, voto contro voto, vincono loro. Sono di più, lo dicono le statistiche, in questo paese piccolo-borghese. Sono di più, ma non molto, per ragioni evidenti. Noi, i Contadini, siamo la minoranza, ma una minoranza molto grossa, che si avvicina quasi alla metà, al 49 per cento, che oscilla fino a questo limite massimo, ma non può neppure diminuire di molto: perché ogni Luigino ha bisogno di un Contadino per vivere, per succhiarlo e nutrirsene, e perciò non può permettere che la stirpe contadina si assottigli troppo. Se facciamo dunque i conti, i Contadini staranno sempre lì per lì per vincere, ma non potranno vincere mai: per quanto tutto venga dalle loro mani. I Luigini hanno il numero, hanno lo Stato, la Chiesa, i Partiti, il linguaggio politico, l’esercito, la Giustizia e le parole. I Contadini non hanno niente di tutto questo: non sanno neppure di esistere, di avere degli interessi comuni. Sono. una grande forza che non si esprime, che non parla. Il problema è tutto qui.
Prima Carita Sincipi Tabego, – disse Carmine (E’ l’ultimo verso di un sonetto del Belli, riproduzione popolare del motto latino “prima charitas incipit ab ego [ndr]. Andrea rise. – Proprio cosi, – riprese. – Grande poeta il Belli! Prima Carita Sincipi Tabego : parole sante! dovrebbero essere scritte sul frontone di tutti gli edifici pubblici. Mentre gli altri Stati si preoccupano della Giustizia, e dell’Uguaglianza o della Libertà, il nostro è una grande organizzazione caritatevole per coloro che ne fanno parte, cioè, in parole semplici, per i Luigini. Qualcuno deve pagare le spese della pubblica carità, le spese di Stato: e questi sono coloro che dello Stato non fanno parte: i Contadini.
[…] Del resto, Luigini puri non esistono, e neanche Contadini. Tutti hanno un po’ dell’uno e un po’ del- l’altro, soltanto in diversa misura. Bisognerà concedere al Luigino che è in tutti di sfogarsi nei partiti, e preparare, per i Contadini, un altro piano ».
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Grazie per avermi citato; ma tu non avevi affatto bisogno del mio suggerimento di tornare a “L’Orologio” di Levi. Quelli della nostra generazione che hanno vissuto realmente quelle esperienze narrateci da Carlo non potranno maidimenticare quei temi che, poi, Rocco ha saputo far rivivere attraverso le sue poesie e le sue ricerche.
Forse, sarebbe opportuno far ricordare che proprio per questo noi che sostenemmo la “civiltà contadina” (cioè, quella dei ‘contadini’ contro i ‘luigini’ segnalati da Levi) dovemmo subire gli attacchi di Alicata e di Salinari(ai tempi dell’assegnazione del Premio Viareggio a Rocco)poi confermati da Chiaromonte e Galasso quando noi ‘porticesi’ presentammo le ricerche fatte in Basilicata (ai ‘Sassi’ di Matera con Friedmann, a Chiaromonte con Banfield, a Grassano con Ambrico ed a Tricarico ed Irsina con Peck) con i colleghi americani. Così come sarebbe opportuno ricordare anche che, in occasione del primo anniversario della morte di Rocco, fu lo stesso Giorgio Amendola a volerlo commemorare al Teatro Duni di Matera. Tutto questo come testimonianza della persistente conflittualità, all’interno della ‘Sinistra’, tra due concezioni fondamentalmente diverse di interpretare il ruolo della politica.
Caro Gilberto, Ti ringrazio, si vede che mi vuoi bene, ma sta di fatto che sei stato tu a suggerirmi di rileggere L’Orologio, altrimenti non ci avrai pensato. Quanto alle polemiche a cui accenni, qua e la mi sono riferito qualche volta nel blog. Bisognerebbe forse scrivere qualcosa di più mirato e organico, e non sarà facile, perché il tema è vasto e sarà quindi difficile riassumerlo. Ho ricordi confusi sul ruolo di Amendola e debbo snebbiarmi la mente. Vedi quanti suggerimenti mi dai?
Poi c’è una questione di tempi. Mi sono impegnato nella pubblicazione “ordinata” dell’edizione leviana di E’ fatto giorno, pubblicando una poesia al giorno. Bisognerà che l’argomento suggerito sia trattato in una pausa.
Leggo solo ora, così come leggo solo ora l’ Orologio di Levi. Prima di tutto grazie a Martino e Marselli per i preziosi commenti ed arricchimenti del testo leviamo. Grazie ad entrambi anche per il raro (oggigiorno) e spontaneo lavoro di squadra, ancora più utile esempio in un mondo urlato al fine di apparire e giammai di offrire contributi, anche di riflessione.
Il testo leviamo in questione dovrebbe essere proposto e studiato nelle scuole, dovrebbe essere insieme punto di partenza e punto d’arrivo di tanti corsi universitari e poi dovrebbe essere “ricordato” a tanti autori ed editori contemporanei di libri che affollano inutilmente le nostre (ormai poche) librerie, quando entrambi si chiedono come mai quelle librerie siano sempre più tristemente vuote.
La ringrazio, in particolare per la sua opinione sul testo leviano. Gilberto Marselli è morto improvvisamente il 21 giugno del 2019. Nel suo commento egli accennava alla commemorazione che sarebbe stata pronunciata da Amendola (segretario regionale del PCI della Basilicata) nel primo anniversario della morte di Rocco Scotellaroio avanzavo dei dubbi. Ho poi accertato che, senza ombra di dubbio, Marselli ricordava male. Rocco Scotellaro fu fatto oggetto di aspre critiche da intellettuali marxisti di scuola comunista per attaccare Rossi Doria, ex comunista. Anche le critiche A Levi avevano lo stesso fine. Salinari, citato da Marselli, era responsabile della sezione Cultura del PCI. La notizia che dava Marselli, quindi, sarebbe stata clamorosa.
[…] propria coscienza e dall’amor patrio, volle ribellarsi contro il plurisecolare governo dei “luigini” (come chiamava, distinguendoli dai contadini, Carlo Levi tutti gli sfruttatori del popolo) e […]