Rocco SCOTELLARO, LA MIA BELLA PATRIA
ROCCO SCOTELLARO – E’ FATTO GIORNO – LA CASA
LA MIA BELLA PATRIA
Io sono un filo d’erba
un filo d’erba che trema.
E la mia Patria è dove l’erba trema.
Un alito può trapiantare
il mio seme lontano.
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p. 160 II ed., dicembre 1954 con 10 Tavole di Aldo Turchiaro
Datata 1949 in Tutte le poesie, Oscar Mondadori 2004
Pubblicata in «Comunità» gennaio – febbraio 1950, col titolo Mia patria bella.
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Ricordi e pensieri liberi.
Antonio Albanese prese la copia della rivista «Comunità» a casa di Rocco, che l’aveva appena ricevuta, e la portò al cinema Carolillo, dove avevamo appuntamento per vedere non ricordo quale film, perché la leggessi. Era il 1949 o il 1950?
Paprasciann (soprannome inventato, vedi L’erva di Paprasciann vs La mia bella patria di Rocco Scotellaro postato il 17 maggio 2014), caro amico di Rocco, era emigrato in California. Era già stato in America, prigioniero di guerra, durante la seconda guerra mondiale e conservò un buon ricordo e nostalgia di quel soggiorno americano. Ci incontrammo a Tricarico in occasione di uno dei miei soggiorni estivi e del suo unico ritorno al nostro paese. Ci abbracciammo e mi raccontò la pena della sua nostalgia. «Quando arrivai in America piansi quindici giorni di seguito; le mie lacrime lavarono tutte le parole d’inglese che avevo imparato quando ero stato prigioniero. Sono passati tanti anni e non ho più imparato manco una parola. Mi rifiuto di impararle». Cercai di consolarlo, gli dissi: «Una poesia di Rocco dice: E la mia Patria è dove l’erba trema». Pensai che un verso del suo amico l’avrebbe consolato un po’, ma mi sbagliavo. «U fess ca er Rocc, pace all’anama soia – mi rispose -, in California l’erba pare plastica, tutta uguale, bella verde, lucida e dritta, un prato sembra un tappeto artificiale. Nu schif. Ie vogghie sta bella erva nosta, tutta malpesciata [calpestata, mezza secca]».
Leonardo Sinisgalli così ricorda la sua partenza per Caserta, nel 1917, finite le elementari, per andare in collegio «Partimmo, attraversammo il fiume, ci allontanammo dal confine della provincia. (Io dico qualche volta per celia che sono morto a nove anni, dico a voi amici che il ponte sull’Agri crollò un’ora dopo il nostro transito; mi convinco sempre più che tutto quanto mi è accaduto dopo di allora non mi appartiene, io sento di non aderire che con indifferenza al mio destino, alla spinta del vento, al verde, al rosso. Io so che la morte arriva all’ora prescritta; non è un’ingiuria, non è un sopruso; io so di essere stato tradito per tutta la vita uscendo fuori dalle mie dolci mura, io che non ero innamorato di carte e di stampe, ch’ero nato senza appetiti, senza fiamme nella testa, e volevo semplicemente perire dentro la mia aria. Forse siamo pochi a lamentarci di non saper più trovare una patria fuori dalle nostre colline). Poi non ricordo più.», Fiori pari fiori dispari in Belliboschi, Mondadori, 1979, pp. 161-162. E’ destino di noi lucani essere trapiantati lontano con un alito. Paprasciann esagerava e la sua esagerazione era un errore che aveva reso infelice o venata di intima tristezza la sua vita. Ma non riuscivo a dargli torto per la reazione che aveva manifestata. Della poesia di Rocco anch’io non ero riuscito a capire il motivo ispiratore. Il concetto di Patria, che Scotellaro scrive con la P maiuscola, indica una entità politica e morale e perciò non mi pareva che si conciliasse con il concetto di cittadino del mondo, né col principio universalistico socialista, che esprime l’unità della classe operaia e non un generico amore universale. Ma in una nota di Franco Vitelli, alla quale non avevo prestato attenzione, ho poi letto che Rocco così scrive a Vittoria Botteri, sua amica di Parma in una lettera del 27 luglio 1948 (un anno prima della pubblicazione della poesia): «Scrivo anche che io sono un filo d’erba, un filo d’erba che trema, e la mia patria è dove l’erba trema, dovunque. Sono spinto da questa ossessione di cercare altrove di qua il mio nido. Sarà che chiedo troppo, sarà che sono meridionale di quelli che scappano». Una delusione! I meridionali non scappano, sono condannati a cercare altre terre e altri cieli. Forse queste parole facevano parte del corteggiamento di Rocco alla sua amica parmense, che ho conosciuto tanti anni dopo. La poesia è stata inserita, per scelta dello stesso Scotellaro, che contraddice le parole scritte alla Botteri, nella sezione La Casa con poesie come La ginestra, Il grano del sepolcro, Viaggio di ritorno, Il vicinato, Passaggio alla città, Al padre, Il Morto, dove si afferma la centralità del paese. Il proprio paese si abbandona per la crudeltà del destino o per esigenze di vita o per libera scelta o per vocazione, e vuol dire, come scrive Cesare Pavese ne La luna e i falò, non essere soli, vuol dire sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
Il mio paese è una Città delle Tre Grazie con un campo oltre la linea d’ombra, che domina la valle del Basento, lungo le cui mura esterne torneranno a maturare le more dolcissime che raccoglievo e mangiavo quando ero bambino. Lì c’è il mio nido e ci sono amici che mi aspettano.
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