ROCCO SCOTELLARO – E’ FATTO GIORNO – IL CARCERE

IL SOLE VIENE DOPO

Sono nate le viole nei tuoi occhi

e una luce viva che prima non era,

se non tornavo quale primavera

accendeva le gemme solitarie?

Vestiti all’alba, a more, l’aria ti accoglie,

il sole viene dopo, tu sei pronta.

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p. 139 II ed. dicembre 1954 con 10 Tavole di Aldo Turchiaro
Datata 1950 in Tutte le poesie Oscar Mondadori 2004
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« E’ fatto giorno » è divisa in due Parti, che comprendono poesie di due periodi della vita di Rocco: I (1940 – 1949) e II (1949 – 1953). «Il sole viene dopo» qui pubblicata, che apre la Sezione «Il carcere», è la prima poesia della II Parte, nella quale sono inserite cinquantaquattro poesie dell’ultimo periodo di vita di vita Scotellaro (1949 – 1953), divise in cinque sezioni: Il Carcere, con tre poesie; La Casa, con tredici poesie; Amore e disamore, con 10 poesie; Il quaderno a cancelli, con ventisei poesie; Ultime, con due poesie.

Le tre poesie della sezione «Il Carcere» sono pubblicate nella rivista letteraria «Botteghe Oscure»,  Quaderno V, I semestre 1950. pp. 92-93, e dedicate a Linuccia Saba, sotto il titolo « Dalle carceri di Matera ».

« Nelle poesie citate – si legge nella breve introduzione che si legge sulla rivista – Scotellaro unisce due tematiche a lui molto care: l’amore e l’esperienza del carcere. Così ne « Il sole viene dopo » il ritorno del poeta ha fatto brillare di luce gli occhi dell’amata che viene invitata ad alzarsi presto, prima del sole.

 «Una casa dietro i cipressi del carcere» nella rivista è titolata «Carcere mio …».

Una nota dell’edizione di Franco Vitelli (pp. 163-164) riferisce, a proposito di «Io sono un uccello di bosco», la presenza tra le carte di Scotellaro di una poesia del 1942 dal titolo identico. Eccola:

Mi ricordo il bambino nato morto

e non gli dettero un nome

e subito lo sotterrarono

e gli occhi non li ebbe avvampati.

A me d’intorno giocano

pallide aurore e tramonti arancione.

Io fui quello chimerica ragazza

da cui morso non avesti.

Io sono un uccello di bosco

che canta nell’aria persa.

Vorrei ricordare la Parte terza de «L’Uva puttanella». Essa si presenta come autonomo racconto lungo della sofferenza, delle lunghe attese, della noia di quarantacinque giorni di ingiusta detenzione, nonché di salde amicizie stabilite con compagni di sventura

Il carcere è la gabbia dei desideri e dei sogni di Rocco e dei suoi compagni, specialmente di Chiellino che «si leva per correre al lavoro, in bicicletta, nelle aziende del Metapontino». E’ del 4 marzo il sogno di Rocco di essere libero. Chiellino lo disillude, spiegandogli il significato del sogno: «Visita e spoglio di processo; la campagna si fa lunga; male». Aveva ragione, perché la libertà vissuta nel sogno non era quella che Rocco aveva realmente vissuta. Bella la descrizione delle due libertà, quella vissuta della libertà del paese e quella sognata, con la quale si apre il capitolo VI della parte terza.

Disteso sul pagliericcio del carcere, Rocco si sentiva a casa sua, e lo dice a Chiellino che nel sogno stava bene. Ma lui lo svegliò con le parole «La campagna si fa lunga». Il carcere era per Chiellino una campagna come quella della Libia e del fronte italiano, un’altra campagna

Dal sogno alla quotidianità del carcere, a lavare, ginocchioni, il pavimento della camerata, che doveva venire un specchio. Nascono peraltro pensieri di ribellione. Ma perché i carcerati dovevano pulirsi il pavimento? E’ qui l’origine della schiavitù. Giappone, perciò, non si abbassa mai, è li che fischietta e sorveglia, da padrone.

Così i padroni, i mariti, i padre-padroni mantengono la loro ragione sugli operai, sui contadini, sui pezzenti e comandano alla moglie, ai figli, al fratello più piccolo, al più debole di sé.

Questo racconto delle Mie prigioni, quest’altra giornata di carcere non è “riassumibile”: bisogna leggerla lentamente, fermandosi su ogni parola, meditarla e rimeditarla. Chi vuole, può leggerla postata il 5 settembre 2013.

 

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