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Giorgio NAPOLITANO_Personaggi nuovi nelle campagne del Sud
Una severa critica al meridionalismo Levi-Rossi Doria – Scotellaro

 

Molt’acqua è passata sotto i ponti. («Il prestigio di Napolitano in Europa, come ben sappiamo, è oggi insuperato, e da tutti riconosciuto» EMILIO COLOMBO, «Per l’Italia Per l’Europa», Bologna, Il Mulino, 2013, p. 163).

 

La premessa al saggio del giovane dirigente comunista napoletano Giorgio Napolitano sui «Contadini del Sud» di Rocco Scotellaro, che pubblico più avanti, offre lo spunto a molte divagazioni. Richiederà, pertanto, molto spazio e ho pensato di riassumerla in un sommario sufficiente a presentare il saggio con completezza e di far seguire ad esso l’intera premesssa.

SOMMARIO Giorgio Napolitano, sul numero di settembre 1954 della rivista mensile «Incontri oggi», a poche settimane dalla pubblicazione dei due libri postumi di Rocco Scotellaro, pubblica un saggio di severa critica, che, dall’inchiesta di Scotellaro sui contadini, estende alla visione meridionalistica di Levi-Rossi-Doria-Scotellaro e della rivista «Terza generazione» sorta ad iniziativa di giovani cattolici per dar voce ad istanze di rinnovamento all’indomani delle elezioni del 7 giugno 1953. La tesi di Napolitano è che alcuni accenni di Scotellaro e della prefazione di Rossi-Doria a «Contadini del Sud»avviano un discorso su formule derivate dal «Cristo si è fermato a Eboli», falsando profondamente i termini della questione meridionale.

Il numero di luglio-agosto 1954 (10-11) della rivista «Terza Generazione», definito da Franco Vitelli (in «Scotellaro e i cattolici», Bollettino storico della Basilicata, n. 3 1987) quasi uno speciale dedicato a Scotellaro e il successivo numero 12 di settembre, con l’articolo del direttore Bartolo Ciccardini «L’Unione Goliardica Italiana e Rocco Scotellaro», mostrano l’interesse per l’opera di Scotellaro da parte del movimento, di cui la rivista era espressione, formato di giovani che avevano avviato una serie di indagini conoscitive specie nel Mezzogiorno, alla scoperta dei valori della civiltà contadina, stabilendo pertanto un rapporto col Gruppo di Portici e in specie con Gilberto Marselli e Rocco Scotellaro (“il grande Gilberto Antonio Marselli”, “il mio amico Rocco Scotellaro” scriverà il democratico cristiano Bartolo Ciccardini, direttore della rivista). Alcuni componenti il Gruppo di «Terza generazione» avevano vissuto l’esperienza della Sinistra Cristiana e del Movimento dei cattolici comunisti, che si concluse con lo scioglimento del movimento e la confluenza di alcuni elementi nel partito comunista, dal quale poi uscirono. Cinque di loro pubblicarono una dichiarazione sul quotidiano della Santa Sede «L’Osservatore Romano». Tutt’e cinque appartenevano a nobili famiglie e l’Unità titolò la notizia con sarcasmo: «I Conti tornano».

Troppe colpe (chi usciva dal partito comunista era considerato un traditore) che un giovane comunista dirigente dell’amendoliano «Movimento per la rinascita del Mezzogiorno» e del gruppo di «Cronache Meridionali» non avrebbe potuto perdonare e non perdonò.

PREMESSA. Giorgio Napolitano, giovane dirigente comunista dell’amendoliano «Movimento per la Rinascita del Mezzogiorno» e del gruppo di «Cronache Meridionali», che si pubblica a Napoli dal gennaio 1954, interviene subito dopo Carlo Salinari sull’opera di Scotellaro, portando il discorso sui «Contadini del Sud». Egli, innanzi tutto, richiama i precedenti dei quali occorre sbarazzarsi. I tempi, osserva, sono cambiati, le prospettive anche, e quindi sarebbe anche cambiata la “funzione” del «Cristo si è fermato a Eboli», che, riferendosi a una realtà del Mezzogiorno interno del ’35-’36, assolse «essenzialmente a una funzione, altamente positiva, di denuncia dell’arretratezza e della miseria del Mezzogiorno … di denuncia della totale estraneità delle masse contadine al fascismo e alla guerra fascista». Ma quelle interpretazioni del mondo contadino … furono piuttosto “mitiche”. Proposte politiche – ripeto un concetto già espresso nella presentazione dell’articolo di Carlo Salinari – il Cristo non ne avrebbe fatte, e siccome in tutto questo tempo sono accaduti tanti fatti nuovi, ecco il motivo più che fondato per liberarsene del tutto. Cosa che non ha saputo fare Scotellaro e tanto meno Rossi-Doria.

La recensione su un’opera incompleta e postuma, alla quale Scotellaro intendeva dare una impostazione interessante, potrebbe chiudersi con il rammarico per il mancato rispetto della sua impostazione. Sennonché, alcuni accenni di Scotellaro, e soprattutto la prefazione di Rossi-Doria, hanno avviato un più ampio discorso su concetti come «storia autonoma dei contadini, civiltà contadina, società contadina», tutte formule derivate dal Cristo, che «finiscono per falsare profondamente i termini della questione meridionale». Ora, secondo Napolitano, nella visione che da Levi è passata a Scotellaro e a Rossi-Doria, il problema meridionale mancherebbe dei connotati derivanti da rapporti economici e sociali arretrati, e inevitabilmente «si svuota di ogni prospettiva di soluzione rivoluzionaria». Invece, il «compito dello studioso», ora, sarebbe di partire proprio dai fatti nuovi che si sono verificati, e se si vuole fondare un’indagine su alcuni “campioni” individuali, ebbene, si scelga fra i contadini più attivi e combattivi, «sperimentati nelle grandi lotte popolari, sotto la guida del partito della classe operaia» (v. L. SACCO, «L’orologio della Repubblica », Lecce, 1996, pp. 185 ss.) e non su quattro contadini non rappresentativi di Tricarico, che si trova nel cuore della «zona grigia del risveglio contadino».

Giorgio Napolitano, dopo di che, con particolare virulenza ed uso di stereotipi laicisti, rivolge la sua severa critica alla «variante oscurantista e medievaleggiante che sul tema della «civiltà contadina» hanno svolto – nonostante le vaghe ansie di rinnovamento da cui pare siano animati – i giovani di «Terza generazione» (N. 10-11) ».

In quel periodo i giovani democratici cristiani esercitavano una sorta di primazia culturale su tutta la generazione, imponendosi anche al rispetto ed all’attenzione della più forte organizzazione concorrente, la Federazione Giovanile Comunista ed erano presenti in tutte le iniziative e gli incontri significativi di quel periodo. Per l’Azione, Rivista di studio dei Gruppi Giovanili della Democrazia Cristiana, che fu in campo per circa un trentennio, era una testimonianza della tradizionale autonomia dei Gruppi Giovanili D.C. che è sempre stata molto di più che un semplice fatto organizzativo. Essa fu l’espressione di una linea politica generalmente spostata a sinistra rispetto a quella ufficiale democratica cristiana “ma qualificata nei tempi di maggiore incidenza da uno sforzo di comprensione critica del ruolo della D.C. nello Stato italiano, in rapporto ai precorsi del movimento cattolico e alle precedenti esperienze, sia del cattolicesimo liberale sia dell’intransigentismo sociale, che costituivano altrettante posizioni da approfondire storicamente, per superarle nell’aderenza al contesto della democrazia post-fascista.” (dalla prefazione di Francesco Mattioli in “Antolologia di Per l’Azione. 1948 – 1953”, Terni, tip. Arti Grafiche Nobili, 1961).

A Tricarico giungeva appena l’eco di quel fervore, turbata, nel mio caso, da letture su cui mi accanivo senza un programma o un obiettivo. Avevo letto tutto Gramsci (la prima edizione dell’Einaudi con la copertina grigia), L’occasione storica di Guido Dorso, e altro. La realtà della DC materana e locale non corrispondeva all’idea che ci venivamo formando sul partito dei cattolici.

Il primo incontro di Rossena nel 1951, sulle colline reggiane, dove Dossetti aveva convocato i suoi amici per annunciare l’intenzione di abbandonare la politica, fu una delusione molto dolorosa e sconcertante. Non potevamo, quindi, che sentirci cattolici, quali eravamo, ma «antigovernativi e antidegasperiani». Come conciliare i nostri sentimenti con le sconcertanti scelte della DC materana? Per

l’elezione del primo consiglio provinciale del postfascismo essa aveva stipulato una alleanza elettorale col partito nazionale monarchico, che avrebbe assicurato l’elezione del candidato monarchico del collegio di San Mauro Forte; in tutti gli altri collegi i candidati democristiani, pur contrassegnati col solo simbolo dello scudo crociato, avrebbero rappresentato anche il partito monarchico. Nel collegio di Tricarico-Calciano si annunciava una candidatura di una personalità che aveva contribuito alla stipula della suddetta sciagurata alleanza elettorale, che faceva della DC un partito marcatamente di destra. Ci impegnammo quindi con tutte le forze, l’incoscienza e la passione giovanile per incidere sulla situazione e cambiarla, non formalmente, cosa impossibile, ma rendendo chiaro il senso politico dell’operazione. Realizzammo un forte, generale consenso, riuscimmo a far sostituire il previsto candidato col ventisettenne Ciccio Menonna, che, assolto il servizio militare post-laurea in Marina, stava preparando l’esame orale del concorso di cui aveva superato gli scritti. Affermammo il concetto degasperiano che la DC fosse un partito di centro che guardava a sinistra. Nel collegio di Tricarico si candidò un esponente del partito monarchico, rendendo evidente che a Tricarico la decisione presa a Matera non aveva alcun significato. Per lo sconquasso che determinammo, il consiglio direttivo della sezione DC di Tricarico si dimise o fu sciolto, e io fui nominato commissario della sezione, pur non essendo iscritto al partito. La vecchia dirigenza contava sulla sconfitta elettorale di Ciccio Menonna, che avrebbe sancita la nostra definitiva sconfitta politica, e la “restaurazione”. Ma vincemmo, e bene. Purtroppo a spese di Rocco Scotellaro. Fu il prezzo amaro di quella vittoria.

Quando aprii il tesseramento del 1953, trovandomi nella paradossale situazione di essere commissario senza tessera, fui il primo a prendere la tessera. E così divenni democratico cristiano pur non essendo ancora pronto ad essere coinvolto nell’impegno militante. Ad agosto uscì il primo numero di «Terza Generazione», che scelsi come guida principale della mia preparazione politica. Di essa uscirono undici numeri, di cui lessi ogni parola. Venni a conoscenza di Per l’Azione. Mi informai sulla vicenda della Sinistra Cristiana e del Movimento dei Cattolici comunisti. Mi informai sugli incontri di Rossena e compresi che un sogno era svanito e che Dossetti aveva consigliato, a chi intendeva rimanere nell’arena, di scegliere la leadership di De Gasperi, perché chiudere a De Gasperi non avrebbe avuto altro significato se non quello di aprire alle destre. Avevo grande rispetto per l’esperienza della Sinistra Cristiana, ma oramai si trattava di mera conoscenza storica, giacché quell’esperienza si era esaurita e risolta senza residui nella scelta comunista, verso la quale, invece, non ho mai avuto interesse, nonostante la fraterna amicizia con Antonio Albanese e la sua profonda fede comunista.

«Terza generazione», per dirne un po’ meglio, fu una rivista mensile di ricerca e d’iniziativa per dare voce ad istanze di rinnovamento all’indomani delle elezioni del 7 giugno 1953, espressione di giovani cattolici che avevano avviato una serie di indagini conoscitive specie nel Mezzogiorno, alla scoperta dei valori della civiltà contadina, stabilendo pertanto anche un rapporto col Gruppo di Portici e in specie tra Bartolo Ciccardini e Baldo Scassellati con Gilberto Marselli e Rocco Scotellaro. (“il grande Gilberto Antonio Marselli”, “il mio amico Rocco Scotellaro” scriverà il democratico cristiano e direttore della rivista Bartolo Ciccardini nel suo Viaggio nel Mezzogiorno d’Italia pubblicato da Guanda e purtroppo introvabile). Alla rivista collaborarono Felice Balbo, Bartolo Ciccardini, Gianni Baget (che in seguito aggiunse il cognome Bozzo avuto dall’adozione degli zii della madre), Achille Ardigò, Ubaldo (detto Baldo) Scassellati. Si diceva che la rivista fosse finanziata da Alcide De Gasperi e il fatto che l’ultimo numero sia uscito a settembre 1954, un mese dopo la morte dello statista trentino, apparve come una conferma della voce. Ho detto nel «Sommario» l’interesse della rivista per l’opera di Rocco Scotellaro.

Superai il mio infantile sinistrismo rivoluzionario e ad agosto del 1954 andai a Roma per partecipare al funerale di De Gasperi. Come aveva avuto ragione Dossetti, e infatti c’era un governo Pella, che si reggeva col voto dei monarchici. E come aveva avuto ragione De Gasperi a volere la legge che ci si ostina a chiamare legge truffa, per scongiurare il pericolo di uno scivolamento a destra della DC secondo il volere del Vaticano.

Andando a Roma, alla stazione di Napoli comperai alcuni giornali della sera (quotidiani che erano pubblicati nel tardo pomeriggio), che lessi all’incerta luce del corridoio del treno, spostando leggermente la tendina che riparava lo scompartimento dalla luce. I giornali parlavano del premio Viareggio da due milioni di lire che quel giorno era stato conferito a Rocco Scotellaro. Stranamente ricordo solo un articolo di Mario La Cava, scrittore calabrese di Bovalino, che non si è mai mosso dal suo paese. Il secondo premio, da un milione di lire, fu conferito a un tale Ezio Raimondi, per Notizie dall’Emilia. Raimondi era un nome ignoto, ma lo conoscerò bene personalmente nell’età matura. Aveva trent’anni, di un anno più giovane di Rocco e, come Rocco, figlio di un calzolaio: calzolaio senza bottega, come Raimondi precisava il mestiere del padre. Luigi Pedrazzi, intellettuale cattolico bolognese del Gruppo del Mulino, di cui Raimondi fu uno dei fondatori, diceva di lui: «era il più povero e il più colto di noi».

Ezio Raimondi è stato filologo, saggista e critico letterario, iniziò la sua carriera di docente come maestro supplente di scuola elementare e in pochi anni giunse ad occupare la cattedra che fu di Giosué Carducci. Uomo di straordinaria cultura, votato all’ascolto della “voce dei libri”, Raimondi è stato un’autorità morale di Bologna, circondato da generale devozione. Le sue studentesse, tutte un po’ innamorate di lui (Raimondi aveva una figura elegante, con tratti di atavica nobiltà, alto, magro, biondo e con gli occhi azzurri, sembrava un principe normanno e la sua cultura e la sua eloquenza affascinavano) lo chiamavano il libromane. Io seppi del mestiere del padre leggendo La Repubblica, che gli dedicava il paginone di quel giorno, in cui, naturalmente, si diceva anche delle sue umili origini. Ero in vacanza e gli spedii la seguente cartolina: «Mio padre misurava il piede destro / vendeva le scarpe fatte da maestro / nelle fiere di polvere. Cordiali saluti». Quando ci rivedemmo a Bologna, nella riunione del gruppo di cui mi aveva chiamato a far provvisoriamente parte per assolvere a un compito particolare, mi ringraziò e parlò con profonda e impareggiabile conoscenza della poesia di Scotellaro.

Torno agli scritti di «Terza Generazione» sull’opera di Scotellaro. Sono quattro articoli, tre sul numero 10 di agosto 1954 e uno sul n. 11: 1) Gianni Baget (che Vitelli chiama Gianni Baget Bozzo, nome adottato successivamente) «Il rinnovamento italiano comincia dai contadini del Sud», 2) U.P.(Piero Ugolini) «Scotellaro e i suoi contadini di fronte alla cultura meridionalista», 3) Rocco Scotellaro, «Racconti, dichiarazioni e scritti di Michele Mulieri». Vitelli riassume i primi due interventi, sussurrando una leggera critica, in merito alla quale vi sarebbe qualcosa da osservare o puntualizzare. A tali sintesi rinvio chiunque voglia farsi una prima idea; io, dal mio canto, ritengo che quegli scritti dovranno più avanti trovare posto in questa antologia.

Concludo la presentazione dello scritto di Napolitano raccontando la vicenda di alcuni collaboratori della rivista. I principali furono Felice Balbo, scrittore e filosofo, una delle voci più significative della cultura italiana della prima metà del Novecento, il direttore Bartolo Ciccardini, democratico cristiano, giornalista, più volte parlamentare e sottosegretario, Gianni Baget (poi Baget Bozzo), presbitero a 42 anni, rappresenta uno dei percorsi più significativi e sconcertanti del Novecento, , ha parcheggiato in ogni settore dello schieramento politico italiano, è stato dossettiano e antidossettiano, radicale alle cui assemblee portava in abito talare le sue tesi anticlericali, parlamentare europeo socialista, ideologo berlusconiano, di molti cattolici fu amico, ex amico e poi più niente; Achille Ardigò sociologo dell’Università di Bologna e Ubaldo (detto) Baldo Scassellati, collaboratore co-editore della rivista, che nella vita ha svolto importanti compiti nella pubblica amministrazione, in enti di ricerca ed è stato segretario generale della fondazione Agnelli.

Alcuni dei collaboratori che ho nominato, ma anche altri che alla rivista contribuirono con propri scritti, avevano vissuto l’esperienza della Sinistra Cristiana e del Movimento dei Cattolici comunisti. Nei confronti di chi visse tale esperienza è usato, in modo polemico e anche spregiativo il termine cattocomunista. Il problema è collegato alla nota vicenda del Partito della Sinistra cristiana, sorto nel dicembre del 1937 e scioltosi nel dicembre del 1945. Dall’ottobre del 1943, per dieci mesi circa, questo partito assunse il nome di Movimento dei cattolici comunisti. In verità in esso si erano incontrate due esperienze: quella rappresentata Adriano Ossicini (che il 21 aprile 1996 fu eletto senatore nel collegio di Matera, che comprende anche Tricarico) e da altri suoi compagni, con i quali la Sinistra cristiana era sorta e un gruppo, successivamente collegatosi, capeggiato da Franco Rodano, che si orientava verso il comunismo.

Per breve tempo ebbe particolare rilievo l’orientamento di Rodano e di coloro che si orientavano verso il Partito comunista e che prevalsero al momento del congresso di scioglimento del partito dei cattolici comunisti, entrando nel partito comunista. Ma proprio Rodano e tutti coloro che lo seguirono chiarirono che si trattava di cattolici sul piano religioso, ma che entravano come militanti del partito comunista, che non chiedeva dopo il 5° Congresso un’adesione all’ideologia. Erano militanti comunisti a tutti gli effetti. Rodano a lungo teorizzò sulla inesistenza di una teoria cattocomunista e sulla inesistenza di una politica cattocomunista o di una ipotetica frazione cattocomunista a qualsiasi titolo e a qualsiasi livello. Ossicini ed altri che non avevano ritenuto di entrare nel Partito comunista, rimasero indipendenti di sinistra, e non pochi di loro parteciparono all’esperienza della Sinistra indipendente di Ferruccio Parri.

Franco Rodano era assiduo frequentatore di don Giuseppe De Luca, lucano, originario di Sasso Castaldo e sacerdote di straordinaria erudizione, cultore di larghe amicizie da Giuseppe Bottai a Palmiro Togliatti al cardinale Ottaviani (il diavolo e l’acqua santa si incontravano a casa sua), ai giovani Franco Rodano e Emilio Colombo, che prima di entrare nella politica vera e propria, fu attratto dal movimento dei cattolici comunisti, come testimonia egli stesso nel libro-conversazione con Arrigo Levi «Per l’Italia per l’Europa», Bologna, Il Mulino, 2013, p. 78, subito aggiungendo: «ma presto mi convinsi che era difficile innestare san Tommaso d’Aquino su Carlo Marx, come affermò, in un famoso discorso al Senato, Claudio Napoleoni» (altro cattolico comunista, quindi comunista a tutti gli effetti essendo confluito con Rodano nel partito, dal quale poi uscì. Partecipò quindi all’esperienza della Sinistra indipendente di Ferruccio Parri e fu eletto, come indipendente nelle liste del PCI, alla Camera e in tre legislature al Senato).

Non posso non ricordare, chiudendo davvero, l’imbarazzo di Antonio Albanese, grande amico di Rocco e compagno e amico di Giorgio Napolitano nella federazione del partito comunista di Napoli.

Giorgio NAPOLITANO.
Personaggi nuovi nelle campagne del Sud, in « Incontri oggi », sett. 1954
Una severa critica al meridionalismo di Levi-Rossi Doria-Scotellaro

Con l’impetuoso processo di risveglio politico e sociale delle masse popolari meridionali si è fatta a mano a mano strada l’esigenza di approfondire non solo le strutture economiche e sociali e la situazione politica del Mezzogiorno, ma insieme la condizione umana, il costume, il modo di vita delle popolazioni meridionali.

Il libro postumo di Rocco Scotellaro «Contadini del Sud », o meglio l’opera che egli aveva appena iniziato e che ha lasciato incompiuta, voleva appunto rappresentare un tentativo in questo senso: ed è così che innanzi tutto si spiegano la larga eco e il vivace dibattito che il libro ha suscitato.

Quel che Rocco Scotellaro si proponeva era di condurre una ricerca sulla «cultura dei contadini meridionali », sul loro « più intimo comportamento cul- turale e religioso », sul loro « comportamento … in seno alla società e di fronte ai suoi problemi ». Il metodo che egli aveva adottato era quello della scelta di una serie di ambienti e zone rappresentativi della realtà meridionale, e, per ciascun ambiente o zona, di una singola figura, di un singolo contadino, da intervistare o a cui far svolgere un racconto autobiografico. Successivamente, come è detto nella prefazione di Rossi-Doria, Scotellaro si persuase però che «la varietà del mondo contadino era tale che una ricerca estensiva a poco serviva e che era meglio studiare più intensamente alcuni ambienti rappresentandoli attraverso non una, ma diverse vite e interviste individuali ».

Il giovane studioso e poeta lucano aspirava, come ebbe a scrivere in una lettera a Ruggiero Grieco, a « ricostruire … la storia delle lotte, delle speranze e delle aspirazioni dei contadini, visti… al centro e sulla strada dei loro problemi ». Ed egli perciò si andava particolarmente orientando negli ultimi tempi, come attesta la prefazione di Rossi-Doria, verso i comuni nei quali più intensa è stata in questo dopoguerra la lotta sociale e politica, ed era principalmente preoccupato di entrare in contatto con i contadini che risultassero maggiormente attivi dal punto di vista sociale e politico.

Dallo schema programmatico riportato nella prefazione, risulta infine che Rocco Scotellaro si proponeva di far partire il profilo autobiografico o l’intervista dalle condizioni concrete di vita del contadino prescelto (bilancio familiare, calendario di lavoro, ecc.), per poi mettere in luce l’atteggiamento di questi di fronte ai « grandi problemi della vita» e, « più concretamente, ai fatti nuovi che si sono affacciati da un decennio nel mondo contadino ».

Questa dunque l’impostazione che Rocco Scotellaro intendeva dare al suo lavoro e che presentava senza dubbio motivi di grande interesse. Ma in che misura quella impostazione si ritrova negli scritti raccolti in « Contadini del Sud»?

Il libro pubblicato da Laterza, innanzitutto, non comprende che cinque racconti autobiografici soltanto, gli unici ultimati da Scotellaro prima della morte. Di essi, quattro sono di contadini di Tricarico, in provincia di Matera (il paese in cui Rocco Scotellaro nacque e di cui fu Sindaco dopo la Liberazione). Assurdo sarebbe quindi ricercare in «Contadini del Sud» quella rappresentatività della realtà meridionale cui innanzi tutto la scelta dei luoghi doveva mirare: non ci viene presentata nel libro (oltre la Piana di Eboli, in provincia di Salerno, alla quale appartiene il giovane bufalaro del quinto racconto) che una zona soltanto del Mezzogiorno, o addirittura un solo Comune, che per di più non è tra quelli – verso cui si andava negli ultimi tempi rivolgendo l’attenzione di Rocco Scotellaro – caratterizzatisi per una plù intensa lotta sociale e politica.

Manca cioè nel libro la raffigurazione proprio delle sezioni più vive e avanzate della realtà meridionale, di quelle zone, di quei centri in cui più profondamente ha inciso il grande fatto nuovo del risveglio e della lotta – in senso socialista – delle masse contadine e popolari.

Una seconda questione è poi quella che riguarda la scelta dei protagonisti: Michele Mulieri, Andrea di Grazia, Antonio Laurenzana, Francesco Chironna, non solo non possono ovviamente considerarsi come espressioni tipiche, rappresentative del mondo contadino meridionale nel suo insieme, ma neppure, a nostro avviso, esprimono pienamente l’ambiente e gli orientamenti dei contadini di Tricarico.

Il Comune di Tricarico appartiene a quella che Scotellaro ha definito «la zona grigia del risveglio contadino », dandone un’analisi per alcuni aspetti assai discutibile, su cui varrebbe la pena, ove lo spazio ce lo consentisse, di trattenersi più a lungo (« mancavano i termini per una lotta vera e aperta, che veniva soffocata e covata nell’ambito di ognuno. Ognuno era un parente, un compare, un amico … E ognuno era bisognoso … Chi era il nemico da combattere? »). Ma Scotellaro stesso riconosceva poi che anche Tricarico e gli altri paesi della « zona grigia» avevano finito, sia pure più lentamente, per muoversi, per uscire dal vecchio immobilismo. Orbene, di un tale movimento, che ha portato all’« avanzata delle forze politiche democratiche con le loro organizzazioni» e che ha naturalmente espresso anche delle figure nuove, dei tipi nuovi di contadini, non c’è una traccia viva e concreta nei quattro racconti tricaricesi di « Contadini del Sud ».

Michele Mulieri, «figlio del Tricolore », è un personaggio socialmente e politicamente equivoco: il suo verboso e compiaciuto anarchismo, i suoi molto letterari «furori » ne fanno la figura meno esemplare che si possa immaginare, non diciamo del mondo contadino meridionale d’oggi, ma anche dell’ambiente contadino di Tricarico.

L’autobiografia di Andrea di Grazia, un piccolo proprietario di tendenza democristiana, pur contenendo qualche brano efficace (gli accenni alla miseria patita nell’infanzia e alla vita di fatiche e di stenti dei genitori) è anch’essa una storia puramente individuale, in cui i grandi fatti nuovi che hanno scosso in questi dieci anni la società meridionale non entrano affatto; è la storia di un contadino magari «attivo », come lo definisce Scotellaro, ma attivo per suo proprio conto, attivo non nel partecipare a un generale, collettivo moto di riscatto ma nel costituirsi, attraverso la propria capacità tecnica e la propria abilità manovriera, una più sicura condizione personale.

La vita di Antonio Laurenzana, socialista, che partecipò all’occupazione delle terre incolte, fu assessore nell’Amministrazione popolare di Tricarico e si batte oggi contro l’Ente Riforma che gli ha tolto la terra, avrebbe senza dubbio offerto lo spunto per un racconto più ricco di addentellati con la grande, appassionante storia dell’emancipazione umana, morale, sociale e politica dei contadini meridionali; avrebbe senza dubbio offerto la possibilità di abbozzare una personalità contadina di tipo nuovo, quale appunto gli avvenimenti e le trasformazioni di questi anni sono venuti plasmando.

Ma invece le esperienze sociali e politiche, di liberazione e di lotta, di Antonio Laurenzana non sono che schematicamente rievocate e il racconto viene centrato sulle sue vicende personali e famigliari, e più precisamente sui suoi tre matrimoni (« Il contadino che si sposa per la terza volta », si intitola lo scritto).

In conclusione, dalle vite dei quattro tricaricesi, vuoi per una discutibile scelta dei soggetti, vuoi per il mancato approfondimento, nel senso che abbiamo detto, dell’esperienza di uno di essi, e cioè del Laurenzana, non si ricava un quadro fedele, realmente rappresentativo, delle trasformazioni che anche a Tricarico, se pure in misura meno ampia che in altre zone del Mezzogiorno, si sono prodotte nella condizione umana dei contadini, nel loro «comportamento in seno alla società e di fronte ai suoi problemi ».

Le osservazioni che così abbiamo esposto ed altre ancora che possono venir suggerite dalla lettura del libro (ci sarebbe ad esempio da discutere sul metodo stesso del racconto autobiografico, che costringe in poche pagine la storia di un’intera esistenza, con la conseguenza di ridurla spesso a una cronaca scheletrica e superficiale, laddove risultati ben più validi si potrebbero ottenere portando a fondo l’esame di un periodo particolare della vita del soggetto, di un determinato gruppo di reazioni e di esperienze, portando a fondo, più concretamente, l’esame del comportamento del soggetto di fronte ai grandi fatti nuovi di questi dieci anni. E non basta. Ci sarebbe ancora da sottolineare come in ogni caso le interviste o i racconti autobiografici non possano rappresentare che le pezze d’appoggio per un discorso sulla «cultura» dei contadini, (che andrebbe poi organicamente e criticamente costruito dallo studioso) valgono però semplicemente a segnare i limiti di « Contadini del Sud »: fermo restando quanto abbiamo detto all’inizio circa l’indubbio interesse che presentava l’impostazione data da Scotellaro alle proprie ricerche, e circa l’impossibilità di azzardare un giudizio sull’opera a cui con tanta passione attendeva il giovane studioso scomparso, sulla base dei pochissimi scritti ultimati.

Alcuni accenni di Scotellaro, e soprattutto la prefazione di Manlio Rossi-Doria, hanno però dato l’avvio a un più ampio discorso sulla storia autonoma dei con tadini, sulla civiltà contadina, sull’« antica» e «ferma » e «omogenea» società contadina.

Si tratta di un complesso di formule – derivate in gran parte, come vedremo, dal « Cristo si è fermato ad Eboli » di Carlo Levi – che finiscono per falsare profondamente i termini della questione contadina e della questione meridionale.

Che senso ha, tanto per cominciare, il parlare di una storia autonoma dei contadini, quasi che fosse possibile isolare la posizione di un qualsiasi strato sociale dal complesso dei rapporti di classe propri di un determinato tipo di società e dal complesso dello sviluppo storico?

E in che consisterebbe questa mitica, ineffabile civiltà contadina, di cui si esalta la tenace, ferma resistenza?

Manlio Rossi-Doria, nella sua prefazione a « Contadini del Sud », si compiace vivamente che il caso – ma non soltanto il caso, egli aggiunge – abbia voluto che le vite ultimate da Scotellaro e quindi pubblicate siano quelle dei contadini della « zona grigia » cui appartiene Tricarico: se ne compiace, proprio perché in quella zona il « movimento» non sarebbe stato « tanto rapido da rompere l’antica omogeneità della società contadina e da far perdere alle storie individuali il carattere inconfondibile che deriva loro dall’appartenenza ad una società antica e ferma ».

Gli elementi caratteristici di questa mitica civiltà contadina li disegnò in modo quanto mai immaginoso, come abbiamo accennato, Carlo Levi nel suo « Cristo si è fermato ad Eboli »: una civiltà « naturale », « senza Stato », «eterna ed immutabile », un mondo in cui « non c’è posto per la ragione, per la religione e per la storia », ma in cui « tutto è magia ». Sentimento dominante: la rassegnazione – una passiva, secolare pazienza.

Il carattere equivoco e fondamentalmente reazionario – oltre che del tutto ascientifico e acritico – di una tale concezione, risulta assai chiaro.

Nell’impostazione di Levi, da cui senza dubbio Rocco Scotellaro si rivela fortemente influenzato e che Rossi-Doria coerentemente riprende, il problema dei contadini del Sud, che poi fa tutt’uno con il problema del Mezzogiorno, cessa infatti di essere quello della sopravvivenza nelle campagne

meridionali di residui feudali, di rapporti economici e sociali arretrati, cui corrispondono manifestazioni sovrastrutturali, atteggiamenti mentali e costumi di una particolare natura; perde ogni concreto contenuto storico e strutturale; si svuota di ogni prospettiva di soluzione rivoluzionaria.

Ma sempre nel quadro del dibattito suscitato da « Contadini del Sud» va poi citata la variante oscurantista e medievaleggiante che sul tema della «civiltà contadina» hanno svolto – nonostante le vaghe ansie di rinnovamento da cui pare siano animati – i giovani di «Terza generazione» (N. 10-11). Uno dei quali, il Baget, dopo essersi chiesto, in polemica col Levi (il quale scrisse dei contadini meridionali: «non possono avere neppure una vera coscienza individuale … Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l’uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria» ): «Ma è possibile una tale civiltà? È possibile una condizione umana in cui l’autocoscienza umana si ponga come recezione del dato extraumano, come assimilazione semplice ad esso? » – e dopo aver affermato che « i contadini meridionali fanno parte della storia », arriva a delle conclusioni veramente incredibili. La caratteristica della civiltà contadina – anzi, corregge il Baget, della civiltà meridionale – deriverebbe dal fatto che « la tradizione civile greca e cristiana ha operato in modo molto diverso sull’italiano del nord e su quello del sud: laddove nel primo ha generato nuovi abiti pratici, nel secondo ha generato nuovi abiti teoretici ed etici. Nel Nord, come in tutte le zone di tradizione moderna, è nata dunque una nuova organizzazione civile, economica e politica: nel Sud invece la cultura tradizionale ha generato delle qualità immanenti nella vita personale degli uomini» (?!). « Il mondo contadino» – precisa e conclude un altro collaboratore di «Terza generazione », nella sua presentazione al libro di Rocco Scotellaro – è un mondo che « si è fermato al momento in cui la storia», con Machiavelli e con Lutero, « si è spezzata », I contadini meridionali « non solo … sono nella storia, ma sono nella vera e unica storia degna di questo nome … ; sono e vivono come custodi dell’antica tradizione greca e medievale-cristiana, tradizione di uomini interi … E dalla loro permanenza nella storia deriva la loro avversione a tutte le espressioni del mondo moderno, antistoriche perché parziali, e contro l’uomo ».

È difficile immaginare un’interpretazione più cervellotica e fumosa della storia e della realtà del Mezzogiorno contadino; ma la linea reazionaria che ne deriva appare assai chiara. Si prende posizione contro tutte le conquiste del pensiero e della civiltà moderna. Si esalta il fatto (cosi, almeno ci è sembrato di capire da certi ermetici periodi del Baget) che «la tradizione antica e i valori umani e civili che essa ha generato» si sono potuti conservare presso i contadini del Sud sia pure a prezzo della «stasi totale », sia pure a prezzo della « miseria ». Il rinnovamento del Paese non viene posto nei termini di una trasformazione in senso moderno e progressivo innanzi tutto delle strutture economiche e sociali, ma nei termini, più che mai nebulosi ed astratti, di una sintesi dei diversi « abiti », delle diverse « vocazioni » del Nord e del Sud, assegnandosi in pratica una funzione di direzione o quanto meno di iniziativa ai contadini del Sud, e al Mezzogiorno in genere, quali depositari degli « abiti teoretici ed etici della grande tradizione » (e la lezione di Gramsci sull’alleanza della classe operaia del Nord con le masse contadine del Sud? Vi siete dunque rimasti così profondamente estranei, amici di « Terza generazione », che pur vi proclamate di Gramsci lettori attenti ed aperti?).

Legittima e valida è senza dubbio l’esigenza di quanti vogliano indagare nella realtà meridionale, senza fermarsi all’analisi in senso stretto delle strutture economiche e sociali, per studiare e approfondire la cultura dei contadini, le loro tradizioni, i loro costumi, il loro modo di vita, la loro umanità; di quanti vogliano cioè condurre nel Mezzogiorno delle ricerche di folclore, studiandolo, secondo l’indicazione di Gramsci, come « concezione del mondo e della vita, implicita in grande misura, di determinati strati

della società, in contrapposizione con le concezioni del mondo « ufficiali », che si sono successe nello sviluppo storico ».

Delle ricerche di tal genere vanno però condotte, liberandosi completamente dalle suggestioni e dai miti la cui radice abbiamo ritrovato nel « Cristo si è fermato ad Eboli» di Levi. Libro che d’altronde, è bene ricordarlo, porta la data del ’43-’44 e si riferisce al Mezzogiorno del 1936; libro che inoltre assolse essenzialmente a una funzione, altamente positiva, di denuncia del- l’arretratezza e della miseria del Mezzogiorno (e in tal senso ebbe, nell’Italia appena risorta a vita democratica, addirittura un valore di « scoperta»), di denuncia della totale estraneità delle masse contadine meridionali al fascismo e alla guerra fascista, di rappresentazione viva ed acuta della società «paesana» meridionale sotto il fascismo.

Dal ’36 ad oggi è però passata molta acqua sotto i ponti, e soprattutto nel Mezzogiorno; grandi fatti nuovi sono accaduti, che hanno spinto con forza in primo piano i problemi di fondo del Mezzogiorno e ne hanno messo a nudo la concreta realtà storica e strutturale, facendo praticamente crollare le interpretazioni mitiche del mondo contadino meridionale «lanciate» da Carlo Levi. Grandi fatti nuovi sono accaduti, che stanno in effetti profondamente reagendo sulle tradizioni e i costumi, sulle « concezioni del mondo e della vita» dei contadini e delle masse popolari del Mezzogiorno.

Il compito dello studioso deve consistere quindi nel cogliere questo processo di profonda trasformazione in atto nel Mezzogiorno. Non solo si tratta di distinguere, per tornare a Gramsci, nella sfera della morale e della cultura dei contadini e del popolo gli elementi «fossilizzati, che rispecchiano condizioni di vita passata e quindi conservativi e reazionari» e quelli che sono invece «una serie di innovazioni, spesso creative e progressive », senza accettare passivamente e in blocco, e magari come dato immutabile, tutto il bagaglio della tradizione; ma si tratta soprattutto di partire dai fatti nuovi che si sono verificati e si vanno verificando nella vita del Mezzogiorno, per porre in luce i sostanziali mutamenti che ne derivano nella cultura e nell’umanità dei contadini meridionali.

Ed è possibile – per tornare, concludendo, all’opera di Scotellaro – fondare un’indagine del genere su dei « campioni» individuali: è possibile perché da quel mondo contadino meridionale, che nel lontano 1936 appariva a Carlo Levi immobile, anonimo e addirittura privo di fattezze umane, si sono staccati dei personaggi nuovi, nelle persone dei contadini più attivi e cornbattivi, più consapevoli politicamente e socialmente, già sperimentatisi in delle grandi lotte popolari alla testa degli altri contadini, sotto la guida del partito della classe operaia. È tra essi che bisogna scegliere i protagonisti esemplari di una ricerca seria e progressiva sul nuovo mondo contadino meridionale.

 

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