Discorso pronunciato alla costituzione dell’Associazione Manlio Rossi-Doria, pubblicato sulla Rivista Economica del Mezzogiorno, a. XI, 1997, n. 4.

     Ricordo di un interlocutore importante anche nel dissenso

     Il mio sarà davvero un breve e assai parziale ricordo. Ho accettato con piacere l’invito di Michele De Benedictis, soprattutto per dare testimonianza della mia calorosa adesione all’Associazione Manlio Rossi-Doria il cui indirizzo di attività ci è stato adesso rappresentato. Per le persone della mia generazione, affacciatesi all’impegno politico nel segno del meridionalismo dopo la caduta del fascismo, Manlio Rossi-Doria, rappresentante di una generazione e di una cultura impegnatesi politicamente nella opposizione al fascismo, ha costituito un interlocutore importante anche nel dissenso e anche nei periodi in cui avevamo, per molteplici ragioni (non tutte politiche, ma anche pratiche) più rare occasioni di incontro.
     Quando Manlio tornò all’attività politica, con straordinaria umiltà ripartendo dal profondo Sud, dall’alta Irpinia per rappresentarla in Parlamento – egli divenne senatore e fu in Senato dal 1968 al 1976 – io ero alla Camera. Tra quelle due assemblee c’è una distanza molto più grande di quanto non dicano le poche centinaia di metri che separano il Palazzo di Montecitorio da Palazzo Madama. Egli s’incontrò di certo molto di più con un altro grande comune amico, Gerardo Chiaromonte, anche lui senatore.
     Tuttavia è proprio sul tema del dissenso, di cui fui partecipe anche io, che vorrei mescolare frettolosamente qualche ricordo e qualche considerazione.
     Conobbi, ma restandone a debita distanza per rispetto – ero giovanissimo – Manlio Rossi-Doria nell’autunno del 1946, quando si costituì a Napoli il Centro economico italiano per il Mezzogiorno (che poi restò in vita fino alla primavera del 1948). Questa istituzione, largamente rappresentativa di forze politiche, economiche, culturali, nacque per particolare impulso di Emilio Sereni e anche di Giorgio Amendola. In quell’anno e mezzo io lavorai quotidianamente alla segreteria di quel Centro economico, che si 940 articolò in più sezioni. Ne era Presidente Paratore; Presidente della sezione agricoltura Manlio Rossi-Doria. Partecipavo alle sedute di tutte le diverse sezioni (industria, credito, agricoltura, ecc.) e fu così che imparai a conoscere Manlio.
     Voglio fare subito un’osservazione. Nulla sapevo – perché non si aveva allora, l’abitudine di parlarne, tanto meno ai più giovani – delle rotture intervenute negli anni del carcere, del confino, dell’esilio; delle rotture intervenute tra forze antifasciste, tra esponenti dell’antifascismo; rotture intervenute più specificamente e drammaticamente nel Partito Comunista Italiano. Naturalmente seppi più tardi che dentro una di queste vicende di rottura era stato Manlio Rossi-Doria, com’era stato Altiero Spinelli.
     Ma quando parlo del 1946, mi riferisco ad un clima di reale, larga unità di forze antifasciste e di forze di sinistra, in omaggio al quale si considerava chiuso il capitolo delle lacerazioni degli anni ’30. Poi con la svolta del 1947 e le elezioni del 18 aprile del 1948 si riscavarono solchi, emersero contrapposizioni anche sullo specifico terreno del meridionalismo: e Manlio Rossi-Doria fu bersaglio delle polemiche della sinistra di opposizione. Naturalmente non fu solo bersaglio: fu combattivo protagonista di quelle polemiche per la linea che sposò – e contribuì a realizzare, già a cavallo degli anni ’50 – di riforma e di intervento straordinario per l’agricoltura e il Mezzogiorno. Un libro, una raccolta di suoi scritti, con il titolo Riforma agraria e azione meridionalista, se in questo momento la memoria non mi tradisce fu pubblicato nel 1949. Già in quella raccolta erano ben enunciate le posizioni che aveva assunto più di recente e che avevano rappresentato oggetto di quelle polemiche.
     Mi imbarcai in una recensione di quel suo libro, che pubblicai sulla rivista «Società». Fu il mio primo scritto politico. Mi azzardai anche a mandargli l’estratto e ricevetti una letterina di poche righe, di semplice ricevuta, suppongo non particolarmente soddisfatta di quella recensione, che era pretenziosamente e schematicamente polemica. Nella recensione avevo contrapposto – questa era stata la mia giovanile astuzia – la relazione del 1944 di Manlio Rossi-Doria, riprodotta in quel libro (era la relazione al convegno di studi meridionalistici di Bari, promosso da Guido Dorso) e che consideravo una relazione ben più avanzata dal punto di vista degli orientamenti politici, a quegli scritti successivi diventati ben più realistici in chiave di politiche di governo da portare avanti per il Mezzogiorno.
     Naturalmente sappiamo che in quegli anni successivi al 1948 lo scontro fondamentale di carattere politico fu quello che oppose 941 Democrazia Cristiana e sinistre. E poiché non penso che i ricordi non debbano toccare anche momenti più complicati di verità, voglio dire del dissenso serio che ci fu tra il meridionalismo del PCI e anche del PSI (le posizioni in quel periodo erano condivise da entrambi i partiti della sinistra) e il meridionalismo di matrice azionista che, scomparso Guido Dorso, si espresse attraverso personalità come Ugo La Malfa, o come Manlio Rossi-Doria: un dissenso che si articolò a partire dalla metà degli anni ’50 in due riviste concorrenti e anche abbastanza aspramente contrapposte, «Cronache meridionali» e «Nord e Sud».
     Nel 1990, Gerardo Chiaromonte, che ha avuto con Manlio Rossi-Doria un legame fortissimo di amicizia, di rispetto, di affetto, pubblicò un libro autobiografico, probabilmente anche presentendo l’esito della malattia da cui era stato colpito, un libro intitolato Con il senno di poi, in cui volle ricordare come nella seconda metà degli anni ’50 perfino un uomo come Manlio Rossi-Doria sostenne che l’emigrazione dal Mezzogiorno rappresentava l’unica rivoluzione possibile. Volle ricordare la polemica che ingaggiò allora con Manlio Rossi-Doria e aggiunse: non mi sono mai pentito di quella polemica.
     La divergenza tra quei due centri di appassionata elaborazione e iniziativa meridionalista – poco importa per queste considerazioni che sto svolgendo, che l’uno fosse espressione di un grande partito di massa, il PCI, e l’altro fosse espressione invece di gruppi politici ben più ristretti dal punto di vista dell’influenza politico elettorale – via via si ricompose nel periodo successivo. Il ritrovarci in un comune impegno politico e culturale con Manlio Rossi-Doria ne fu la manifestazione più significativa. Vale forse la pena di notare che ci si ritrovò senza che fossero necessari confronti retrospettivi su chi avesse avuto più ragioni e chi più torti, ma attraverso un naturale superamento delle unilateralità degli anni ’50, delle unilateralità degli uni e degli altri, e forse anche attraverso il superamento delle speranze di trasformazione e rinascita del Mezzogiorno, troppo fiduciosamente affidate alle rispettive impostazioni.
     Il ricongiungimento in uno sforzo di revisione e di rilancio della politica per il Mezzogiorno si compì, peraltro, non senza che si fossero bruciate energie ed occasioni in quei cruciali anni ’50.
Credo che tutto ciò meriterebbe una riflessione. Naturalmente siamo proiettati in modo particolare, noi e l’Associazione Manlio Rossi-Doria, sui problemi del presente e sugli indirizzi per il futuro; ma sarebbe opportuno anche qualche riflessione più libera di carattere storico.
     E’ fresca di pochi giorni, la pubblicazione di una raccolta di lettere, di un carteggio tra Renato Giordano, Jean Monnet e altri esponenti europeistici. Renato Giordano proprio a metà degli anni ’50 trasferì il suo impegno in sede europea. La sua fu una maturazione europeistica di cui bisogna dare atto storicamente al gruppo di «Nord e Sud» in cui Renato Giordano era particolarmente legato a Vittorio De Caprariis e Francesco Compagna. Ma quel suo allontanamento, quella sua scelta di impegno al Lussemburgo nacque anche da uno scoramento per le difficoltà in cui erano rimaste a combattere quelle élites e, se si vuole – come ha scritto il prefatore – dalla constatazione che ormai le sole forze reali di opposizione meridionalista erano il Partito Comunista e il Partito Socialista.
     Aggiungo che ci si ritrovò con Manlio Rossi-Doria tra gli anni ’70 e ’80, di fronte alla crisi dell’intervento straordinario, in una comune preoccupazione per l’evolversi, o l’involversi, della situazione nel Mezzogiorno. Ci si ritrovò nella difficoltà di un’analisi soddisfacente dei nuovi caratteri della questione meridionale e ancor più nella difficoltà di una definizione di nuove politiche di sviluppo.
     Però il contributo che in quel periodo diede Manlio Rossi-Doria al superamento, almeno relativo di quelle difficoltà, rimane importante.
     In modo particolare desidero ricordare un punto su cui poi – scusate se mescolo il ricordo dell’uno e dell’altro – concentrò molto la sua attenzione Gerardo Chiaromonte. Già verso la fine degli anni ’70 Manlio Rossi-Doria affrontò il tema che considerava cruciale e che era stato tanto caro a Guido Dorso, il tema delle classi dirigenti meridionali, ed elaborò la tesi che in effetti nel Mezzogiorno, attorno ad un abnorme sviluppo urbano e all’enorme edificio della spesa pubblica si fosse costituito un sistema di potere economico e sociale simile all’antico blocco agrario (che aveva formato l’oggetto della sua analisi nella relazione del 1944) nel frenare o deviare un moderno sviluppo produttivo e civile nel Mezzogiorno.
     Ecco forse è ancora questo il punto da cui oggi si può e si deve ripartire per comprendere cosa sia accaduto nel Mezzogiorno, quale sia la realtà con cui bisogna confrontarsi e quali siano le strade da tentare.

 

 

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