MANLIO ROSSI-DORIA TRA ANTIFASCISMO E MERIDIONALISMO *

di Giorgio Napolitano ∗∗

I due punti di riferimento che sono stati assunti nel tema di questo omaggio alla figura di Manlio Rossi-Doria, appaiono entrambi messi in questione nella particolare fase che la vita pubblica italiana sta attraversando.

Il che, se si vuole, dà ancora più senso alla rievocazione di quel che essi rappresentarono per Manlio: si riassunsero, nell’uno, l’esperienza politica fondamentale della sua vita, e nell’altro il campo privilegiato della sua ispirazione culturale, della sua applicazione alla realtà, della sua azione costruttiva nell’interesse del paese.

Maturò in lui prima l’orientamento antifascista o l’impegno meridionalistico? Quel che interessa è naturalmente il nesso tra il primo e il secondo.

Comunque, nella sua Gioia tranquilla del ricordo si datano al 1926-27 gli anni in cui maturò il suo antifascismo, le cui premesse erano nel riformismo socialista di suo padre, amico e seguace di Leonida Bissolati; ma si parla del suo orientamento, fin dal 1921, verso una netta opposizione al fascismo.

Determinanti furono poi le reazioni alle drammatiche vicende del delitto Matteotti e dell’Aventino; e infine, nel biennio che, come ho detto, Manlio richiama nel suo libro, la vicinanza e l’amicizia di Enrico Sereni e di Giorgio Amendola lo rafforzarono nella determinazione antifascista e nel “proposito di tradurla al più presto in una partecipazione attiva” alla lotta.

In quanto al meridionalismo, in una lettera del 1952 alla futura moglie, Manlio scrisse di aver trovato addirittura a 18 anni la sua “strada verso il Mezzogiorno d’Italia”, che da allora vide come “il problema centrale del suo paese”. Sempre nelle sue memorie egli ci ha poi detto che “la scelta politica e civile di dedicarsi al Mezzogiorno d’Italia” maturò in lui parallelamente, e in singolare corrispondenza ideale, alla scelta sionista di Enzo ed Emilio Sereni e alla loro decisione di trasferirsi in Israele. Di lì a qualche anno, tra il 1926 e il ’28, Emilio (“Mimmo”) si sarebbe poi convertito dal sionismo al comunismo. La scelta meridionalista di Rossi-Doria si tradusse, dopo la licenza liceale nell’iscrizione (insieme a Mimmo) – autunno 1924 – al corso in Scienze agrarie dell’Istituto superiore di agricoltura di Portici. Ma sin dall’inverno 1922-23, è sempre Manlio che ce lo ha raccontato, aveva cominciato a frequentare la Biblioteca Giustino Fortunato presso l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno. La decisione, infine, di dedicare al Mezzogiorno il suo impegno civile, e all’agricoltura il suo impegno professionale, “nacque” – sono sue parole – “sul terreno di una coerente interpretazione politica”. Una interpretazione, si deve intendere, del “divario economico e civile tra le due Italie” come nodo centrale della vita nazionale da affrontare in una prospettiva di opposizione e di alternativa democratica al fascismo.

Inscindibile fu dunque l’intreccio antifascismo-meridionalismo nella formazione e nell’impegno di Manlio Rossi-Doria in quella per lui cruciale seconda metà degli anni ’20. Prima di giungere alla decisione di aderire al Partito comunista ed intraprendere l’attività organizzativa clandestina, egli aveva potuto respirare il clima del più intransigente e conseguente antifascismo nella casa di Giustino Fortunato, grande capo-scuola del meridionalismo.

Lo conobbe e ne frequentò il “salotto” di via Vittoria Colonna a Napoli, introdottovi da Giorgio Amendola.

Il ricchissimo carteggio del Fortunato – di cui Rossi-Doria parlò, poco dopo la pubblicazione, nel discorso del luglio 1982 a Rionero, giudicandolo illuminante – ci dice come quel grande figlio del Mezzogiorno vide giusto e lontano, fin dal momento dell’avvento del fascismo al potere. Già all’indomani della marcia su Roma, Don Giustino scrisse all’amico Antonio Cefaly: «Chi mai, qualche anno fa, ci avrebbe predetto tutto ciò? La “salvezza”, dunque, a presso della violenza e dell’illegalità. Bada: quaggiù tutti delirano dalla gioia, plaudenti a tutto quel che è accaduto. Come le tante volte in mia vita, son solo a pensare, a dolermi in opposizione alla quasi unanimità!».

E poco dopo, l’8 novembre 1922, in una lettera a Gaetano Mosca, così si espresse: «Io, che tante volte, in questi amarissimi giorni, mi son domandato del pensier tuo intorno a tanta unanime aberrazione di menti e di animi, non so resistere a chiederti, in precedenza, anche con sole poche pa11 role su cartolina, se convieni o pur no meco nel giudizio pessimistico di quest’altra ultima follia post-bellica, che ha nome “fascismo”. Or ora ho qui dinanzi il duplice saluto di Michele Bianchi e del Sansanelli, che, se non hai letto, io ti prego di leggere: son tutti e due meridionali, di Salerno il primo, di Basilicata il secondo. Essi, – i rappresentanti le “nuove energie”, da cui l’Italia aspetta salute! Tanto, come semplice notizia: anche Benedetto Croce ha plaudito e plaude al Mussolini. Del Mussolini ammiratore entusiasta anche Francesco Torraca. E a me pare di sognare!».

Né successivamente Giustino Fortunato si fece illusioni. Il 2 giugno del 1923 scriveva all’amatissimo Umberto Zanotti Bianco «oh, non si illuda in un qualsiasi acceleramento del processo di decomposizione del fascismo.

Ha letto la vergognosa, stolida lettera del ministro Gentile? So di vedere, di aver visto sempre chiaro: il disgraziato nostro paese è perduto per sempre! Se sapesse quel che accade quaggiù nelle Province (…)».

Fortunato reagì poi con tutte le sue residue forze, nell’estate 1923, all’imposizione della legge Acerbo: «Mi lusingo di poter avere tanta forza fisica e morale da essere al Senato nel giorno della votazione della pretesa, orrida, riforma elettorale, e dare l’ultimo mio no, ultimo discarico della mia coscienza politica, al vento».

In effetti, il meridionalismo era nato, con Giustino Fortunato, come critica liberale della formazione e dello sviluppo dello Stato unitario. Egli non disdisse mai il suo unitarismo; anche se all’indomani dell’avvento del fascismo, scrisse a Croce: «Nessuno certo ha più di me benedetto l’unità della Nazione. Vero è che dal dopoguerra in qua anche questa fede mi vacilla ». Comunque, la critica alle scelte che avevano duramente penalizzato il Mezzogiorno nulla tolsero mai all’apprezzamento – che volle ripetere a Giovanni Giolitti, in una lettera del giugno 1923 – per la “perseverante avveduta politica, fatta, per tutto un cinquantennio, di legalità e di libertà”: fino, cioè, a quella che egli chiamava “la guerra sovvertitrice” e alla conseguente calamità del fascismo.

Quel che il giovane Rossi-Doria, con Amendola, con Sereni, con Enzo Tagliacozzo, poteva trarre dall’esempio di Fortunato era dunque la naturale vocazione del meridionalismo a farsi antifascismo, nel senso pieno del termine. Un antifascismo che per Manlio doveva ormai farsi azione: fu quella la motivazione essenziale della sua adesione al Partito comunista, nel 1928. «Era ormai ferma in me la convinzione che, nelle condizioni in cui eravamo, il nostro impegno poteva essere seriamente, ossia efficacemente, mantenuto solo militando in un partito che aveva dimostrato coi fatti di sapere e di voler combattere». Affermazione, questa, contenuta nel12 le sue memorie, alla quale va però associata l’altra, che si riferisce alla sua prima ricerca “sul campo”, il giro compiuto, da studente di Portici, azienda per azienda, “armato di uno speciale bastone misuratore”, per preparare una tesi “sul bestiame di razza podolica in Basilicata”: «tuttora mi chiedo se quella prima intensa esperienza dei modi di vita dei contadini meridionali non sia stata determinante nella decisione da me presa nel corso del 1928 di accogliere l’invito di Mimmo e di farmi comunista». Anche in quella decisione si intrecciarono dunque la motivazione antifascista e la motivazione meridionalista.

Come si sa, l’attività organizzativa clandestina per il Partito comunista costò a Manlio l’arresto, il processo, la condanna a 15 anni di carcere, di cui 5 effettivamente scontati. Nella sua peregrinazione da un carcere all’altro, egli trovò la conferma visibile del contributo determinante dei comunisti alla lotta contro il fascismo, condotta a prezzo della libertà anche da tanti semplici giovani lavoratori. Ne La gioia tranquilla del ricordo, si leggono in proposito pagine molto belle, anche sull’“ambiente morale” in cui visse, “tra compagni”, l’esperienza del penitenziario di Civitavecchia.

E se certamente, negli anni della dura scuola del carcere, Manlio si rivolse ai più vasti interessi di studio, mai abbandonò l’impegno ed il gusto della scelta professionale, già culminata nella laurea a Portici: poco dopo l’inizio del suo percorso carcerario, alla preoccupazione del padre per il fatto che egli cercasse libri lontani dalla materia dell’agricoltura, gli aveva risposto: «Visto che per ora e chissà per quanto tempo non mi è dato viverla nei campi, la cerco quale era nella storia», e in particolare in quella medievale.

Ma “agricoltore sono e agricoltore resto”. E a Civitavecchia, si diede alla lettura dell’inchiesta agraria dell’Inea, della Relazione finale di Jacini, degli studi sui contratti agrari di Serpieri e finanche dei volumi dei censimenti e del catasto agrario.

Uscito dal carcere nel 1935, Manlio si immerse nel “mestiere” di economista agrario, collaborando intensamente alla rivista Bonifica e Colonizzazione; ma in quegli stessi anni, fino al 1940, sviluppò contatti e rapporti con ambienti antifascisti, quello degli intellettuali che lavoravano all’Enciclopedia Treccani e quello dei giovani – di una generazione immediatamente successiva alla sua – da cui nacque il forte gruppo romano del Pci.

Politica e mestiere, impegno meridionalistico sulla questione agraria e cospirazione antifascista, continuarono a marciare di pari passo. Non più, peraltro, nelle file del Partito comunista, da cui si era decisamente distaccato per il rifiuto del regime repressivo instauratosi nell’Urss, per una più forte adesione a esigenze di libertà, e per le stesse suggestioni del suo lavoro sulle opposte esperienze sovietica e americana. L’invio al confino da parte 13 delle autorità fasciste con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, se lo privò ancora della libertà, “lo restituì” – essendo stato destinato a S. Fele sulla montagna potentina – “all’Italia meridionale e alla campagna”. Al confino, Manlio maturò la sua nuova scelta politica, che lo condusse a una posizione di rilievo nel Partito d’azione costituitosi tra la fine del 1942 e l’inizio del ’43: la maturò nel rapporto con Eugenio Colorni e poi con Franco Venturi, entrambi confinati anch’essi in Basilicata, e attraverso scambi di idee con Ernesto Rossi – che Manlio aveva incontrato in carcere – e con Altiero Spinelli, i due ideatori del Manifesto federalista europeo di Ventotene.

L’impegno politico diretto di Rossi-Doria conobbe un’ultima, arrischiata e fervida stagione con l’arresto, il carcere di Regina Coeli e la fuga nella Roma occupata dai nazisti, e poi col dibattito sulla strategia del Partito d’azione, fino alla battaglia elettorale del 2 giugno 1946 con la sfortunata Alleanza repubblicana meridionale. E si concluse con la fine della vicenda dell’azionismo. Manlio si dedicò allora interamente a quella che non so se con espressione appropriata definì “la politica del mestiere”. Direi piuttosto che egli fece politica meridionalista con i mezzi di un’eccezionale competenza e capacità tecnica sul versante essenziale dell’agricoltura. E il suo rimane a mio avviso un esempio di come la competenza dello studioso e del tecnico possa esprimere un’ispirazione e visione politica, e di come la politica abbia bisogno vitale della competenza dello studioso e tecnico: purtroppo è proprio questa compenetrazione che si è venuta smarrendo nella vita pubblica italiana, e se ne sentono le conseguenze.

Non tocca certo a me ritornare sull’opera di Manlio Rossi-Doria economista agrario, sul contributo altissimo da lui dato alla conoscenza e all’approfondimento dei problemi dell’agricoltura meridionale, attraverso studi e analisi sul campo, né ritornare sulla sua esperienza di Governo di processi importanti di riforma e di trasformazione, o sul suo insegnamento di inventore e costruttore del Centro di specializzazione e ricerche economico- agrarie per il Mezzogiorno, di ineguagliato maestro per intere generazioni di studiosi. Di tutto ciò hanno parlato e scritto altri con ben maggiori titoli di me, essendosi formati alla sua scuola ed essendogli stati vicini per lungi anni.

Io desidero ora richiamare solo un nodo politico attorno al quale si sviluppò una serrata polemica tra Manlio e, in particolare, dirigenti e vecchi amici del Partito comunista. Si è detto che egli considerò suoi maestri di meridionalismo Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini e infine Guido Dorso. Fu di quest’ultimo l’ispirazione del primo Convegno di studi sui problemi del Mezzogiorno che per iniziativa del Partito d’azione si tenne a Bari nel dicembre 1944: ispirazione alla quale corrispose la relazione di 14 Rossi-Doria su «La struttura e i problemi dell’agricoltura meridionale».

Quella relazione pose in termini radicali l’esigenza «di spezzare la mostruosa costruzione dei rapporti di proprietà e dei rapporti sociali che si sono lentamente venuti formando, una complessa struttura sociale» che rappresenta ormai “un cerchio chiuso che riproduce miseria”. E ancora nell’ottobre 1946 a Napoli, in un Convegno – di cui ho personale memoria – per le trasformazioni fondiarie nel Mezzogiorno e nelle Isole, Rossi- Doria svolse la relazione ponendo il problema della riforma agraria nel senso della necessità di integrare (non escludere) la riforma fondiaria, intesa come redistribuzione della proprietà terriera, con un contemporaneo processo di trasformazione e riordinamento fondiario. E infatti Sereni, il Mimmo degli anni giovanili – per quanto i due fossero ormai politicamente lontani – intervenne per dichiararsi d’accordo “con la maggior parte delle affermazioni” di Rossi-Doria, raccomandando solo che i tecnici fossero convinti «della possibilità effettiva – politica, sociale, e non semplicemente tecnica – della necessaria grande opera di rinnovamento dell’agricoltura meridionale».

Ma vi fu più tardi una chiara correzione di rotta da parte di Manlio: nel discorso del settembre ’48 all’Accademia dei Georgofili, egli affermò che essendosi «stabilizzata la situazione italiana su una base di conservazione, e quindi nell’“atmosfera politica” determinatasi dopo le elezioni del 18 aprile, non c’è Parlamento che possa fare una riforma in senso profondo e radicale». Di qui la opportunità di una politica di rinuncia a una “riforma fondiaria”, a favore di “una politica di riforma dei patti agrari, di bonifica e di formazione graduale di proprietà contadina”.

La valutazione che veniva data della situazione e dell’atmosfera politica dopo il 18 aprile ’48 aveva un indubbio fondamento di realtà. Ma già prima Manlio era giunto alla conclusione – come ebbe a scrivere nel 1968 a Leo Valiani – che i sogni succeduti alla caduta del fascismo e ancora tenacemente coltivati da alcuni nel dibattito interno al Partito d’azione non si sarebbero realizzati: «Ormai camminavo tenendo davanti agli occhi la diversa prospettiva che la rivoluzione non ci sarebbe stata, che il vecchio avrebbe preso il sopravvento sul nuovo, che la sinistra sarebbe stata sempre sconfitta sino a quando non avesse imparato a fare i conti con la realtà e ad acquistare le doti dei cavalli dal fiato lungo».

Parole sacrosante, erano in generale quelle rivolte alla sinistra. Ma il giudizio di Manlio sul “dopo 18 aprile” fu forse eccessivamente pessimistico.

In effetti una chiusura conservatrice totale non ci fu; e i movimenti animati dalla sinistra – per quanto potessero risultarne non realistici gli obbiettivi – i movimenti di occupazioni di terre nel Mezzogiorno, esercitaro15 no una forte pressione sulle forze di Governo, su una parte importante della Democrazia cristiana, che si mostrò sensibile a esigenze di riforma. Giulio Leone ha ricordato l’impatto dell’eccidio verificatosi a Melissa nell’ottobre 1949 proprio a seguito di un’occupazione di terre incolte, sulla decisione governativa di promuovere un piano di espropri e assegnazioni di terre ai contadini in Calabria. Insomma, sia pure entro determinati limiti, riforma fondiaria ci fu, in primo luogo con la legge del maggio 1950: e Manlio, come consulente tecnico dell’Opera Sila, fu animatore e nella prima fase realizzatore della riforma in Calabria.

Il dissidio con la sinistra allora all’opposizione nasceva dal fatto che Manlio non si lasciava condurre all’inazione né dalle sue valutazioni pessimistiche della fase politica né dalle pregiudiziali di comunisti e socialisti che si contrapponevano, con giudizi globalmente negativi, ai provvedimenti del Governo. Egli faceva la sua parte, da meridionalista e da tecnico; era convinto di dover dare il suo apporto al processo di rinnovamento possibile.

L’avere partecipato a quel processo di riforma – scelta che egli mai rinnegò – non lo spinse però a tracciarne un bilancio acritico. Tutt’altro. Egli, difendendo l’esperienza compiuta in Calabria, parlerà poi di un periodo molto bello, ma chiusosi con una sconfitta, perché la riforma agraria era “venuta diversa da quella che doveva essere”, in quanto concepita e attuata come “un intervento rigidamente guidato dall’alto”, caratterizzato da una pesante uniformità di direttive e da una totale assenza di democrazia interna.

Ecco dunque lo stile, la cifra dell’impegno meridionalistico di Manlio Rossi-Doria. Non scivolare nel nullismo della pura contestazione, del puro rifiuto – dettato da motivi di collocazione politica – dei tentativi e dei progressi parziali che si potessero realisticamente perseguire; esserci dentro, influenzarli con la propria competenza e con la propria moralità; restare vigilante, pronto a prendere le distanze da una linea d’azione o di gestione che si rivelasse infeconda e fuorviante.

È un discorso che vale anche per il suo atteggiamento di fronte alla politica dell’intervento straordinario, di fronte all’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno. Nell’avvio di quella politica, di quella esperienza egli vide e riconobbe un fatto nuovo, il segno di un mutamento rispetto al tradizionale atteggiamento dello Stato verso il Mezzogiorno. Ancora nel 1971, egli ribadì di aver giudicato «saggia l’impostazione data alla politica dell’intervento straordinario nel 1950» e sostenne che «quel programma era stato portato avanti con energia, con chiarezza amministrativa e con ottimi risultati dalla Cassa nel corso del primo e del secondo decennio della sua attività ». Si dové d’altronde partire dalla terribile eredità del fascismo, che aveva rappresentato – secondo l’analisi di Rossi-Doria, confortata da calcoli 16 ineccepibili come quelli di Dell’Angelo – “il periodo più tragico del Mezzogiorno” (anche questo vale oggi la pena di ricordare) che culminò negli “anni della disperazione nera” tra il 1929 e il 1935, e ridusse l’Italia meridionale “ad uno stato di miseria ancora più grave di quello in cui essa si era venuta a trovare nell’ultimo ventennio” dell’Ottocento.

Ma nonostante i suoi risultati fino a un dato momento positivi, l’intervento straordinario fu inficiato – ha con forza sostenuto Rossi-Doria – dall’errore commesso nei cosiddetti anni del miracolo economico, quando la politica nazionale «avrebbe dovuto e potuto puntare sulla unificazione economica del paese e non lo fece». E a questo riguardo il mio pensiero corre alla nota aggiuntiva presentata da Ugo La Malfa nel 1962 e alla sorte che purtroppo le toccò.

In quel discorso del 1971 che ho già citato, e pronunciato in Senato in occasione di un disegno di legge sugli interventi nel Mezzogiorno per il quinquennio 1971-75, Manlio affermò che la politica seguita dalla Cassa andava non sconfessata, bensì corretta e innovata specie rispetto alla precedente legge, del 1965; e poté affermarlo anche sulla base dell’esperienza di Consigliere d’amministrazione della Cassa compiuta tra il 1965 e il 1968.

Tuttavia, il ritorno all’impegno politico diretto con l’elezione in Senato, se gli consentì di farsi protagonista di quella riforma dei contratti agrari che aveva costituito un obiettivo storico della sua battaglia meridionalistica, gli fece probabilmente toccare più da vicino le difficoltà e le resistenze che si opponevano al rinnovamento della politica per il Mezzogiorno e della politica economica nazionale. Ed egli giunse così a conclusioni assai più critiche e negative, parlando, nella premessa del 1981 ai suoi Scritti sul Mezzogiorno, di un logoramento ed esaurimento della politica della quale era stato “partecipe, anche se critico sostenitore”. Anche perché la realtà meridionale aveva conosciuto un cambiamento di fondo, che Manlio sintetizzò nella relazione del 1977 («Trent’anni alle spalle»), con queste meditate parole: «Ai tempi di Salvemini, di Dorso e di Fiore, le classi dirigenti meridionali apparivano più di ostacolo che di aiuto alla moderna evoluzione economica e civile del Mezzogiorno, perché saldate in un unico sistema di potere sociale e politico in difesa dei privilegi della proprietà terriera, ai quali, in misura maggiore o minore, tutta la borghesia – grande, media o piccola che fosse – era interessata.

Il “blocco agrario” – come fu chiamato quel sistema di potere – dopo la seconda guerra mondiale è entrato indubbiamente in crisi, anche se i vecchi legami resistono tenaci. A giudizio di molti, tuttavia, su nuove basi – e precisamente su quelle intricate e complesse, sulle quali si erige nelle Province meridionali l’enorme edificio della spesa pubblica, dei pubblici ser17 vizi, della previdenza sociale – qualcosa di simile all’antico “blocco agrario” – si è ricostituito ed ha assunto, ancora una volta, la forma di un “unico sistema di potere sociale e politico”, altrettanto forte e dominante quanto l’antico, e altrettanto capace di frenare e stravolgere lo sviluppo delle Regioni meridionali.

È comune oggi l’opinione che le radici di questo sistema non siano più, come un tempo, nelle campagne e nei centri rurali, bensì appunto nelle città abnormemente cresciute e nei molteplici e collegati centri di potere che in esse sono operanti. Qualunque sia il giudizio al riguardo non v’è dubbio che nelle caratteristiche di una larga parte delle classi dirigenti meridionali vada ancora ricercato – a distanza di un secolo da quando per la prima volta se ne parlò – uno dei nodi più gravi e decisivi della “questione meridionale”».

Quello così fortemente scolpito nel brano che ho voluto leggere rimane l’ultimo, profondo ed essenziale contributo creativo di Manlio Rossi-Doria meridionalista. E anche guardando ai nuovi scenari della costruzione europea ed euromediterranea, egli seppe indicare le ragioni per le quali – ecco il messaggio – «tutte le politiche per il Mezzogiorno vanno nel prossimo avvenire nuovamente ripensate con coraggio, con durezza e con fantasia».

Purtroppo c’è chi – invece di sottoporsi a questa prova – sceglie la strada più facile e fatua del dichiarare superato il meridionalismo e di “abolire” la questione meridionale. Dicevo all’inizio che stiamo vivendo una fase, politica e culturale, nella quale si tende a mettere in questione i fondamenti della nostra storia repubblicana tra i quali vi furono senza dubbio i motivi ispiratori e conduttori dell’esperienza umana e dell’incessante operosità di Manlio Rossi-Doria. Ora, non occorre che alcuno ci spieghi come la molla dell’antifascismo in senso stretto si sia venuta esaurendo e come la tradizione del meridionalismo si sia venuta affievolendo. Ma sentiamo ancora – e consideriamo doveroso valorizzare – la fecondità di un approccio ideale e morale come quello che spinse Manlio e tanti altri, contro il fascismo trionfante, all’impegno politico inteso innanzitutto come battaglia per la libertà e la democrazia, a prezzo di qualsiasi rischio e sacrificio; e sentiamo ancora la necessità di nutrire l’azione pubblica di quell’alimento culturale, di quella capacità di analisi dell’Italia reale e di quella sapienza costruttiva, che hanno caratterizzato il meridionalismo nelle sue espressioni più alte, fino al nostro non dimenticato Manlio Rossi-Doria.

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∗Commemorazione promossa dall’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (Animi) e tenuta il 14 giugno 2005 presso la Biblioteca del Senato in Roma.

Pubblicata in QA – La Questione Agraria n. 2, 2005, 10

∗∗Presidente, Fondazione della Camera dei deputati.

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