La pazza di via Gelso

Mario Trufelli

 

 

 

La pazza di via Gelso

 

Stasera per te c’è riguardo

hai la camicetta a fiori

le scarpe tinte col nerofumo.

E ridi alle amiche di via Gelso,

con loro saltavi alla corda

cantando lo stornello della trebbia.

 

Porti l’eredità di tua madre,

pazza felice a voce alta

andò verso l’inferno. Per te

l’inganno di un viaggio di nozze

 

1951

 

 

     La pazza di via Gelso (nel libro d’arte di racconti con bellissimi pastelli di Guerricchio) è la storia di una integrazione mancata, la difficile convivenza persino nell’unità sociologica minima del vicinato.

La tecnica del racconto prevede la narrazione in prima persona di una giovane pazza nella o per la miseria, che anela a inserirsi nella normale cadenza del ritmo sociale attraverso l’appagamento del matrimonio. E’ importante sottolineare che la scrittura qui assolve una funzione liberatoria e instauratrice di un vissuto che non ci è stato e che si vuole stabilire, solo così si spiega la volontà di dire di una persona che è morta. E colpisce per contraddizione quello snodarsi del racconto logico e consequenziale, difficilmente attribuibile alle capacità espressive di una pazza contadina.

Con prosa tagliente e precisa narra fasti e nefasti di un vicinato, la beffa crudele delle donne che assegnano in sposo alla pazza di via Gelso lo scemo del paese, Jojo. […]

( FRANCO VITELLI, da «Trufelli tra reportage e racconto», in L’ERBAVENTO – di Mario Trufelli – Scritti vari – 1952 – 1966 – a cura di Antonio Sanchirico – rceedizioni, Napoli, 2005, p. 20 ).

 

* * *

Sono in ogni angolo di questa strada, forse perché non si scompare mai e qualcosa di noi resta dove siamo nati, dove abbiamo vissuto. Torno ogni notte quando tutti dormono e Via Gelso è un lungo budello, tutto angoli e sporgenze. L’estate ballano le mosche davanti alle porte delle case e il vento d’inverno fa cadere le tegole dai tetti. Rivivo ogni notte la mia storia: da Dio e dai vicini non puoi nasconderti.

Ho vissuto in quella casa buia, in fondo al gomito della strada. Dormivano con me negli ultimi tempi la capra, l’asina e mio padre. Tutti mi chiamavano la pazza, le ragazze del vicinato si divertivano a farmi saltare alla corda quando era il tempo della mietitura e le donne, per burla, mi indicavano ogni giorno un fidanzata nuovo, tra gli uomini più sciocchi del paese. Il mese di maggio io sono morta in un manicomio, come mia madre, giusto un anno dopo di lei.

Mia madre impazzì all’improvviso.

Una sera la portarono dalla campagna nella macchina dei carabinieri, voleva uccidere mio padre con la zappa, l’aveva sempre chiamata pazza mio padre e l’aveva sempre bastonata. Per anni era andata per le campagne a raccogliere la verdura che poi si vendeva in piazza per pochi soldi. C’era sempre fame in casa, mia madre si era stancata, se ne andò al manicomio convinta di andare a una festa, lì la fecero morire.

Quando restai sola con mio padre per prima cosa divisi il suo letto, un pezzo lo presi per me. Fino a quel momento avevo dormito sul saccone di paglia in un angolo della casa.

Molte notti ero stata costretta a sentire i lamenti di mia madre che doveva darsi per forza e anche per questo ho sempre rifiutato mio padre.

Rimasti soli lui non si preoccupò molto di me: mi mandava in piazza a vendere la verdura o mi lasciava in casa tutto il giorno a litigare coi vicini, che molto spesso mi prendevano in giro per certe mie stranezze. Cantavo i capitoli ai santi nelle processioni del paese, camminavo in mezzo al gruppo delle donne, dietro a Jojò che portava la croce.

Jojò ha la casa in Via Gelso, ha la testa grossa come un mellone e i piedi piatti. Io alzavo la mia voce forte, stridula, che piaceva alle donne, Jojò si stonava. E il gozzo mi cresceva in gola come un pugno, rigato di grosse vene. Nel vicinato io e Filomena eravamo le più. segnate per la gola piena.

Filomena aveva due figlie grandi e poiché avevano fatto l’ospedale pensava all’operazione per togliersi l’incomodo.

Abitava la casa di fronte alla mia, porta a porta con la casa di zia Felice, la madre di Marianna, la sarta.

Le sere d’estate ci siedevamo sui gradini davanti alla sua porta e Filomena, quando non c’erano le figlie, parlava delle richieste del marito, per farci ridere. “È vecchio, ma non si stanca mai“, diceva.

Rosa, la più litigiosa delle vicine, la incoraggiava a parlare, zia Felice invece si scandalizzava. “Questa sfacciata” diceva, “che mi fai sentire“: e si metteva le mani sulla faccia. Zia Felice fa le giornate ai santi, è una donna mite, va tutti i giorni in chiesa, alla messa e al vespro. Lei e Rosa hanno due figlie in età da marito, ma non si sposano, zia Felice si raccomanda a San Rocco, Rosa invece manda le proposte ai giovani e promette una ricca dote. Le due ragazze sono amiche, stanno sempre insieme, si confidano i segreti, ma ogni tanto bisticciano, per gelosia, e allora intervengono le madri: zia Felice si batte il petto e chiede giustizia a Dio per le ingiurie, Rosa comincia a gridare dalla loggetta della casa, una loggetta che assomiglia a un palco, si rivolta tutto il vicinato e la gente che passa si diverte.

Marianna, la figlia zitella di zia Felice, fa la sarta, quattro ragazze l’aiutano a confezionare i vestiti. Andavo in quella casa perché zia Felice mi sapeva accogliere, mi dava buoni consigli. La figlia invece si divertiva soltanto con me insieme alle discepole. Una volta mi vestirono da sposa con una lunga camicia bianca e un velo sulla testa. Mi diedero tra le braccia un mazzo di fiori di carta e mi dissero che potevo andare a prendere il sacramento. lo ci credetti, mi guardavo eccitata nello specchio, mi aggiustavo il petto e il velo come per una festa vera. Scesi nella strada. Era un pomeriggio d’estate, tutta la gente del vicinato mi aspettava in allegria, qualcuno mi diceva che ero bella, ma ora so che lo faceva per burla. Rosa mandò la figlia a cercare Jojò. quello non voleva venire, si vergognava; se lo trascinò dietro e quando mi furono vicino si misero a ridere. Le ragazze cominciarono a ballare, a fare cerchio intorno a noi due. Ero caduta in un giuoco dispettoso. Rosa mi gridò che dovevo prendere Jojò sottobraccio, ma lui voleva liberarsi, rideva più forte. “Va va” diceva, “non farmi ridere”. Il mio braccio si era avvinghiato al suo, volevo fare la sposa a tutti i costi, rivedevo le feste e canti come quando ero piccola e incosciente. I bambini mi tiravano il velo, li rincorrevo, li facevo scappare; ritornavo vicino a Jojò, me lo riprendevo, lo portavo verso casa. La mia casa si era riempita di ragazze e bambini, Rosa aveva provveduto a spalancare la porta, aveva aggiustato il letto. La ricordo con la sua faccia piena, terrosa, con gli occhi vivi, di gatto, coi denti fuori. Batteva le mani e incoraggiava i ragazzi a gridare. La cacciai fuori con prepotenza e chiusi la porta in faccia a tutti. Restai sola con lojò che ancora non capiva: scrollava di continuo le spalle come fanno i cavalli con la mosca e rideva con la bocca aperta, con le gengive scoperte, piene di sangue. Mi stava davanti come un sacco pieno di stracci, abbandonato sulle gambe sottili, con la sua testa a pallone.

Mi strappai il velo e mi stesi sul letto. “Vieni , Jojo, vieni“, e gli facevo segno con la mano. Lui si era accovacciato vicino alla porta, rideva sempre senza capire. Lo feci avvicinare, si sedette per terra accanto al letto; gli vedevo appena la testa, con la mano gli sfioravo i capelli rossicci e arruffati. “Vieni a dormire con me” gli bisbigliai e cercai di tirarlo su con i capelli. Si faceva male e gridò un poco. Poi mi raccontò che lui era abituato, dormiva con la madre da quando era bambino. “È come una vacca” disse, “quando lei dorme riesco appena a stare nel letto“. E cominciò a ridere quasi singhiozzando. “Sei scemo, Jojò, sei scemo“, gli dissi.

Ad un tratto gli misi le mani al collo, Jojò ebbe paura, si alzò di scatto e scappò via. Fuori i ragazzi gridavano a squarciagola, dal fondo della casa li vidi raccolti davanti alla mia porta, c’erano tutte le donne del vicinato, Rosa e la figlia cominciarono a tirarmi i ceci sul letto, a pugni come confetti. Il gesto m’indispettì, mi precipitai dal letto, imprecai contro le donne e chiusi la porta.

Rimasi sola, al buio. Un respiro grosso mi allargava il petto. Mi stesi per terra col vestito da sposa e cominciai a rivoltarmi sul pavimento sudicio: così faceva la capra dopo la mungitura. Provavo un piacere strano quando sbattevo coi fianchi contro i muri della casa. Poi mi misi a cantare.

Arrivò mio padre, mi chiamò con voce forte dalla strada, andai ad aprirgli e non mi curai di togliermi il vestito da sposa.

Lui appena mi vide in quello stato mi chiamò pazza, gridò che si era stancato di me. “Sei pazza tale e quale come tua madre, devi andare in manicomio pure tu“. lo mi ero accucciolata sul letto, mi tolsi la scarpa, gliela tirai addosso, gli ruppi la testa. E lui il giorno dopo andò a denunziarmi.

Anche il prete si interessò di me, andò dal sindaco, gli disse che ero diventata pericolosa, che bisognava provvedere. Non mi facevano vendere la verdura in piazza dal giorno in cui avevo tirato un peso da mezzo chilo sulle spalle di una donna che mi aveva insultata. “Fatemi un atto notorio con quattro, cinque firme“, disse il sindaco.

Mio padre, Rosa, la figlia di Rosa, Filomena e altre due donne firmarono la dichiarazione per farmi andare al manicomio. Andarono pure da zia Felice, ma quella non volle firmare. “Non mi va la coscienza, a me non ha fatto niente“, disse.

Firmarono invece la figlia Marianna e le sue discepole.

La sera stessa il sindaco passò davanti alla casa, mi trovò seduta sulla porta, mi disse che aveva incontrato un giovane a Napoli che voleva sposarmi. lo non gli credetti ma lui continuò a scherzare alla presenza di mio padre e allora gli sputai sulla faccia. Se ne andò scontento e dieci giorni dopo riuscì a farmi partire per il manicomio.

L’ultima sera che stetti in casa ricevetti la visita di tutto il vicinato. Mi avevano detto che sarei andata a Pompei per sposarmi. “Lo sposo“, mi dissero le guardie “è là che ti aspetta, è un bel giovane, vedrai che ti piacerà“. Quella volta credetti, mi feci cucire una camicetta a fiori rossi, mio padre mi tinse le scarpe col nero fumo. Partimmo alle nove della sera, era il mese di ottobre, le strade odoravano di mosto.

Nel manicomio aspettai per molti mesi il mio sposo, stetti al mio posto, ma quando capii di essere stata tradita cominciò la mia agonia. Mi ribellai e fui legata al letto con violenza. Compresi allora che dovevo morire, e maledissi quelli di Via Gelso, le loro case e i loro figli; maledissi mio padre e gridai di dolore al pensiero di mia madre morta. Ora sapevo che anche mia madre era morta così, legata sul letto, bastonata come una bestia. Diventai furiosa e tutti allora mi vennero addosso, per vincermi. Quando mi trovarono morta il giorno dopo fui cancellata dalla lista e al municipio del mio paese scrissero che ero deceduta “per causa di malattia“.

 

Ora vengo qui come ad un appuntamento fisso, per completare la mia vita con gli altri, per rifare la strada della memoria. Conosco tutto di tutti, anche i fatti più intimi.

Rosa litiga sempre con la gente e sua figlia non si sposa, l’ultimo fidanzato se n’è andato in Venezuela una settimana prima delle nozze. Anche Filomena, che finalmente è riuscita a togliersi il gozzo senza pagare un soldo all’ospedale, si arrabbia col marito che è un uomo robusto, a settant’anni si sente ancora sicuro e vuole la moglie. L’ultimo litigio l’hanno fatto stamattina, lei non si è data, ha detto che sono vecchi e che le figlie, che dormono nella stessa stanza, sono grandi e non devono sentire. Lui si è messo a bestemmiare, poi ha giurato che ne troverà un’altra.

Zia Felice invece litiga col gatto che le ruba tutto nella dispensa, ma non lo vuole morto. Va tutti gli anni scalza alla festa di San Rocco nel paese vicino e quando torna porta sempre un pupazzo di gesso colorato alla figlia Marianna, per la devozione delle nubili.

Tutti gli altri rifanno i giorni e le notti come tanti anni fa, la strada li consuma sulle porte delle case. Ognuno che muore per una parola o un gesto lascia un’immagine di sé che dura a lungo: anche Jojò, dopo morto, lascerà l’immagine dello sciocco.

 

Tricarico, 1953

 

* * *

Postilla di Rabatana in ricordo di Jojo

Antonio U pesce, detto Jojo, macrocefalo, portava la croce alle processioni, serviva a messa. Non gli piaceva lavorare. “Antò, a fatià”, gli gridavano alle spalle e lui rispondeva con una pernacchia, a una o a due mani. Le pernacchie di Jojo scivolavano leggere come il vento, avevano la varietà delle potenziali del trombone. Piaceva provocarle al chirurgo prof. Barbieri in particolari circostanze; Jojo si sentiva onorato e si compiaceva di accontentarlo. Antò, il professore non aveva bisogno di aggiungere a fatià. Bastava anche che gli facesse un cenno. Come quando i suoi genitori vennero a fargli visita e a conoscere il paese dove aveva deciso di fare il chirurgo; passeggiavano nel corso e incrociarono Jojo. Un segno impercettibile e Jojò capì che avrebbe dovuto fare la più bella pernacchia del suo repertorio. Una volta Jojo riempì un cucumo d’acqua al fontanino della cattedrale. Giunto nella piazzetta, il professore, che era sulla porta dell’ospedale, a cui era adibita un’ala del palazzo vescovile, gli gridò: Antò, a due mani! E Jojo ubbidì: la pernacchia coprì il rumore del cucumo in frantumi.

 

 

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