ROCCO SCOTELLARO – E’ FATTO GIORNO – CAPOSTORNO

NOVENA PER GIUGNO

Questa è la solita strofe che ogni mattino

-dopo le morti abbondanti in ogni casa di quest’anno –

intonano gli uomini stanchi innanzi al nuovo cammino.

Già non accenna l’alba e noi siamo risospinti

per dura forza del tempo da colmare

a mettere dei gesti nell’aria ad occhi chiusi.

Ad occhi chiusi i miei paesani

partono nei campi e le corriere

turbano il silenzio che li accompagna:

i vecchi discendono sui gradini in faccia al sole,

e i merciai sulle piazze

le mani si fregano con gli oggetti svenduti,

e i fabbri pestano lo scatolame

e i reduci borbottano nelle Camere del Lavoro.

Nessuno più prega

ma braccia infinite assiepano i campi di grano.

Solo ridà sangue ai corpi un giro rabbioso di falce

e sulle messi rivendicate all’ira della grandine

si gettano le bocche degli affamati.

                                                                                           (1945)

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II ed. dicembre 1954 di E’ fatto giorno con
10 Tavole di Aldo Turchiaro, p. 81
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      La nota del canto di lotta dei poveri e dei contadini in «Novena per giugno» è l’incerta sopravvivenza (e sulle messi rivendicate all’ira della grandine / si gettano le bocche degli affamati). La composizione poetica ha una data anteriore di due o tre anni rispetto alle altre liriche in cui, nella categoria «Capostorno», si svolge il canto. Il prof. Thomas Stauder (Università di Erlangen-Norimberga), nell’intervento tenuto al Convegno di studio su «Scotellaro scrittore. Storicità e attualità di un’esperienza» (Tricarico, 7-9 maggio 2004), organizzato dal Comune di Tricarico per il Cinquantenario della morte di Rocco Scotellaro, pose in rilievo, nei passi che riporto appresso, che nella poesia «Novena per giugno» si trova la svolta decisiva verso l’impegno sociale.

     «Nel febbraio 1944, con i versi «Paese d’inverno», Scotellaro tentò per la prima volta di rappresentare la vita piena di stenti dei contadini del Mezzogiorno, congedandosi in questo modo dagli idilli della sua gioventù. In essi si cercherà però ancora invano un’accusa esplicita contro la società; Scotellaro si limita a descrivere il duro lavoro sul campo arato durante la stagione fredda.
     Nella poesia intitolata «Ai poeti» [ … ] si annuncia il cambio scotellariano di paradigma artistico verso una poesia con degli obiettivi politici. La necessità di questo rinnovamento viene espressa nella seconda persona plurale, cioè non diretta dal poeta a se stesso ma agli altri poeti. E, infatti, il movimento del neorealismo italiano, che giunse al suo culmine subito dopo la seconda guerra mondiale, sembrava in quel momento già dare una risposta a delle rivendicazioni di questo tipo. Attraverso la voce lirica, che esige la fine del “gioco di parole”, Scotellaro si distanzia implicitamente dall’estetica della sua poesia giovanile. Il poeta lucano invita i suoi colleghi scrittori a rivolgersi agli umili, come per esempio al “carcerato” e ai “vagabondi”. I “ciechi” e i “sordi” menzionati in questo poema non sono degli handicappati nel senso materiale, ma delle persone che chiudono gli occhi e gli orecchi ai problemi sociali.
     Ma la svolta decisiva verso l’impegno sociale si trova nei versi «Novena per giugno» redatti anch’essi nel 1945 e dove Scotellaro parla per la prima volta esplicitamente delle esigenze degli strati più umili. In questo testo il poeta allude alla fine della seconda guerra mondiale e alle sue conseguenze per la società italiana due volte: nel verso 2, dove parla delle «morti abbondanti in ogni casa di quest’anno», e anche nel verso 14, dove racconta che «i reduci borbottano nelle Camere del Lavoro». La scontentezza era molto diffusa in quel momento, perché la speranza nella possibilità di rapide e profonde riforme sociali dopo la fine della dittatura fascista si era mostrata vana. Negli ultimi versi di questa composizione poetica viene menzionata per la prima volta in tutta l’opera scotellariana l’ira dei contadini; importante è la presenza di un «giro rabbioso di falce» come espressione di un’aggressività latente.
     Secondo l’indicazione di Bronzini, il modello per questa immagine con significato politico sarebbe da cercare in un poema di Mario Rapisardi, composto durante la rivolta dei contadini siciliani fra 1892 e 1894; in questa canzone rivoluzionaria di fine Ottocento, si trova già la minaccia: «poi falcerem le teste a lor signori».
     Dopo aver stabilito il momento e descritto la maniera del cambio di paradigma nella poesia di Rocco Scotellaro, il prof. Stauder chiarisce le ragioni di questo nuovo orientamento. Chi intendesse approfondire può leggere la rielaborazione dell’intervento postata su questo blog il 18. 11. 2001. Con l’occasione torno a segnalare che non risulta che gli Atti del citato Convegno in occasione del Cinquantenario della morte di Rocco Scotellaro siano stati pubblicati, tranne la rielaborazione dell’intervento in parola, unica lodevole eccezione alla rilevata grave incuria. Essa, grazie all’iniziativa e all’interessamento della prof. Carmela Biscaglia, è stata pubblicata sul «Bollettino storico della Basilicata», 25, 2009, pp. 217-231.

 

 

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