ROCCO SCOTELLARO – E’ FATTO GIORNO – CAPOSTORNO

NOI CHE FACCIAMO ?

Ci hanno gridato la croce addosso i padroni

per tutto che accade e anche per le frane

che vanno scivolando sulle argille.

Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti

nelle piazze per essere comprati

la sera è il ritorno nelle file

scortati dagli uomini a cavallo,

e sono i nostri compagni la notte

coricati all’addiaccio con le pecore.

Neppure dovremmo ammassarci a cantare,

neppure leggerci i fogli stampati

dove sta scritto bene di noi!

Noi siamo i deboli degli anni lontani

quando i borghi si dettero in fiamme

del Castello intristito.

Noi siamo i figli dei padri ridotti in catene.

Noi che facciamo?

Ancora ci chiamano

fratelli nelle Chiese

ma voi avete la vostra cappella

gentilizia da dove ci guardate.

E smettete quell’occhio

smettete la minaccia

anche le mandrie fuggono l’addiaccio

per qualche stelo fondo nella neve.

Sentireste la nostra dura parte

in quel giorno che fossimo agguerriti

in quello stesso Castello intristito.

Anche le mandrie rompono gli stabbi

per voi che armate della vostra rabbia.

Noi che facciamo?

Noi pur cantiamo la canzone

della vostra redenzione.

Per dove ci portate

lì c’è l’abisso, lì c’è il ciglione.

Noi siamo le povere

pecore savie dei nostri padroni.

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II ed. dicembre 1954 di E’ fatto giorno con
10 Tavole di Aldo Turchiaro, p. 70-1
Pubblicata in « The New York Times Magazine », 13 marzo 1949 e in « Avanti », 7 aprile 1949.
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     Carlo Muscetta sembra quasi contrappore la poesia Noi che facciamo? a Sempre nuova è l’alba. In Noi che facciamo? egli sente esprimersi la forza impetuosa dei momenti epici che affiorano alla coscienza più evoluta delle masse, legge un canto bellissimo, pieno di popolare energia. Ma non gli sembra che Rocco andasse oltre, che egli avesse l’animo per innalzarsi a una “ Marsigliese contadina ”. «Una «Marsigliese» non può che esprimere una rivoluzione nella sua fase esplosiva ed espansiva, e come inno politico non può non avere estremamente chiari i motivi ideologici e di classe che guidano un popolo alla lotta in un determinato momento. Sempre nuova è l’alba [ … ] finisce là dove dovrebbe cominciare, dove il giovane poeta, piuttosto che abbandonare il capo a un idilliaco struggimento «lungo il perire dei tempi» avrebbe dovuto svolgere il concetto, rimasto generico e vago, che «nei sentieri non si torna indietro».
     Giuliano Ladolfi, nella rivista trimestrale di poesia, arte e letteratura Atelier, legge l’intera produzione poetica scotellariano sotto l’aspetto stilistico e tematico. Sotto questo secondo aspetto ritiene che le tematiche affrontate da Scotellaro sono estremamente varie, al punto che suona fortemente riduttivo definire Scotellaro cantore dei poveri e dei diseredati meridionali (con buona pace di Gaetano Cappelli e Marina Valensise). Noi che facciamo?, nell’analisi di Ladolfi, apre la tematica della denuncia sociale, che, secondo il suo giudizio, assume una funzione importante ma non predominate e si propone come una denuncia corale di uno sfruttamento che abbruttisce l’essere umano più sotto il profilo della dignità che dal lato economico, come ribellione a una situazione insostenibile.
     Può essere interessante, come contributo alla comprensione d’insieme di un motivo della poetica scotellariana, riportare il paragrafo del saggio di Ladolfi che si occupa della tematica in questione. La domanda «noi che facciamo?» non prospetta risposte, mira ad una presa di coscienza prima ancora che ad un programma politico. Anche il riferimento all’uguaglianza evangelica si traduce in un atto di accusa contro chi stravolge il messaggio di Gesù Cristo, interpretato come parola che trasforma i rapporti umani e non come ritualità: «Sappiamo tutti la tua vera gloria / Signore della Croce / che non hai più bisogno di incensi» (È fatto giorno, in Tutte le poesie di Rocco Scotellaro, Oscar Mondadori 2004, p. 279). Profondamente religiosa con intonazioni liturgiche è la Messa a «lo Spirito Santo» (op. cit. p. 180):
«No, Signore, io non son degno!»
tre volte
ed il silenzio lungo.
«Dilanio, Signore, le tue carni,
il tuo sangue mi bevo.
Per ogni secolo nei secoli
su questo crudo altare noi ti abbiamo
nuovamente ucciso, Signore.»
     Pure profondamente evangelica è la chiusura di Pasqua ’47 (op. cit. p. 217): «E sento il dolore della miseria / dei servi ammessi ai tavoli / nelle case dei padroni, oggi» per una concessione che appaga la coscienza, ma non muta la situazione.
     Rare, ma operanti, sono anche le immagini bibliche: «Gallo cantò. Mi lacerava il sonno. / Cantarono più galli il tradimento / il mio spergiuro innocuo d’ogni sera» (Bugiarda l’anima, op. cit. p. 189).
     La poesia di Scotellaro raggiunge anche il tono della protesta:
Gridano al Comune di volere
il tozzo di pane e una giornata
e scarpe e strade e tutto.
E ci mettiamo a maledire insieme,
il sindaco e le rondini e le donne,
e il nostro urlo si fa più forte. (E ci mettiamo a maledire insieme, op. cit. p. 65)

     E proprio sulla fondamentale onestà dell’uomo Scotellaro si innesta la delusione per la sconfitta del Fronte Popolare alle elezioni del 1948, vissuta come fallimento di un programma di rinnovamento delle condizioni della povera gente:

I padroni hanno dato da mangiare
quel giorno si era tutti fratelli,
come nelle feste dei santi
abbiamo avuto il fuoco e la banda.
Ma è finita, è finita, è finita
quest’altra torrida festa
siamo qui soli a gridarci la vita
siamo noi soli nella tempesta.
[…]
Noi siamo rimasti la turba
la turba dei pezzenti,
quelli che strappano ai padroni
le maschere coi denti. (Pozzanghera nera il diciotto aprile, op. cit. pp. 53-54)
     Di fronte al disorientamento delle giovani generazioni che «non sanno che sperdersi / davanti alle lucide vetrine / alle dicende dei bar / ai tram in rapida corsa / alla pubblicità / padrona delle piazze», che «tanto perché il tempo si ammazzi / cantano una qualsiasi canzone» oppure «son sprofondati talvolta in salotti / a far orgia di fumo e di esistenzialismo / giovani malati […] di niente», per i quali la «giovinezza è / il più crudo dei tormenti», il poeta apre una prospettiva: «È tempo di crucciarsi / di dir di sì all’Uomo che saremo / e che ci aspetta / alla Cantonata / con falce e libro in mano» (Giovani come te, op. cit. pp. 203-205).
     Qui troviamo la medesima aspirazione presente nelle ultime composizioni di Margherite e Rosolacci, in cui viene ripreso il tema politico. Nella prima il poeta si rivolge Ai giovani comunisti (op. cit. pp. 282-284) con l’entusiasmo di chi condivide la loro passione, ma sa anche abbracciare idealmente gli avversari Americani:
Io sono con voi, con i giovani comunisti
che mi promettono, come io prometto, che mai
ci sarà una trincea e un mirino
puntato sul petto di mio cugino americano.
Io sono con voi per convincere il guardiano
che tutta la pianura afosa del mondo
aspetta l’irrigazione dalla notte scura e silenziosa.
Venga il mattino per i giovani del 1953
e sulle bocche arse rispunti il sorriso,
o quest’anno o saremo invecchiati,
e voi mostrerete i giardini sovietici
ricresciuti dai fossi delle bombe naziste,
e i miei amici americani dovranno riconoscerli,
e ognuno buttando alla deriva i fucili puntati,
noi impareremo la via sottomessa dove bisogna andare
e molti, forse anch’io, non moriremo affogati.
     Sotto il segno dello stesso ideale di fraternità, di pace e di giustizia viene elevato un inno a Stalin in occasione della sua morte:
L’uomo che vide suo padre calzare
gli uomini e farli camminare
imparò da quell’arte umile e felice
la meraviglia di servire l’uomo.
[…]
Quell’uomo muore. Attorno attorno
alla ceppaia gigantesca che è
agili frullano i vivai che piantò nel mondo.
Ogni uomo che dà agli uomini amore profondo
e il pane e le scarpe e la casa e le macchine
può dire chi era Stalin e la ragione del mondo. (L’uomo, op. cit. p. 285)

     A nessuno che si prefigga la comprensione della poesia di Scotellaro è delegato il compito di valutarne gli orientamenti politici, perché sullo statista russo, in quei tempi mitizzato dalla propaganda politica, egli proietta il proprio ritratto di attivista pochi giorni prima della morte. A lui lo legava anche la professione paterna.

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