ROCCO SCOTELLARO – E’ FATTO GIORNO – CAPOSTORNO

TU NON CI FAI DORMIRE CUCULO DISPERATO

Tutt’intorno le montagne brune

è ricresciuto il tuo colore

Settembre amico delle mie contrade.

Ti sei cacciato in mezzo a noi

t’hanno sentito accanto le nostre donne

quando naufraghi grilli

dalle ristoppie arse del paese

si sollevano alle porte con un grido.

E c’è verghe di fichi seccati

e i pomidoro verdi sulle volte

e il sacco di grano duro,

il mucchio della mandorle abbattute.

 

Tu non ci fai dormire

cuculo disperato,

col tuo richiamo.

Sì, ridaremo i passi alle trazzere,

ci metteremo alle fatiche domani

che i fiumi ritorneranno gialli

sotto i calanchi

e il vento ci turbinerà

i mantelli negli armadi.

                                               (1947)

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II ed. dicembre 1954 di E’ fatto giorno con
10 Tavole di Aldo Turchiaro, p. 69
Pubblicata nel Quaderno II della rivista «Botteghe Oscure»
e in «La Città”, gennaio 1954 con varianti
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 «Tu non ci fai dormire cuculo disperato» apre la quinta Sezione di E’ fatto giorno, Essa era stata pubblicata sulla più nota ed esclusiva rivista di letteratura internazionale, unica al mondo, quando Rocco aveva 25 anni (e ne aveva 24 quando la poesia fu scritta): è sempre bene avere ben presenti le cronologie quando si parla di Scotellaro!

     Arriva settembre, settembre amico lo chiama Scotellaro, col colore più imbrunito delle montagne e il colore bruciato delle ristoppie, con i canti dei grilli, con i prodotti della campagna conservati per l’inverno, che giungerà con la sua durezza (e il vento ci turbinerà / i mantelli negli armadi). Il cuculo, col suo richiamo, non ci fa dormire.

     Il prof. Bronzini, nel volumeL’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Edizioni Dedalo, Bari 1987, p. 106., richiama una antica maledizione che incombe sul cuculo, che forse Scotellaro doveva conoscere. Questa maledizione fa parte dell’antica mitologia ornitologica contadina d’ispirazione evangelica ed è stata registrata in Lucania, propriamente nel circondario di Atella. Alla sua sorte di andare ramingo tra gli alberi e di cantare funestamente al vento viene identificata la pena che Gesù inflisse al vaccaro che gli aveva negato il latte  secondo il criterio di compensazione del reato («occhio per occhio, dente per dente»), proprio della legge ebraica: «Andrai facendo cucu sugli alberi, cantando per quante stille di latte mi hai negato». Di qui, per via antropologica, si spiega il destino del pastore errante e il suo tormento, che Leopardi poeticamente ritrasse» nel Canto notturno di un pastore errante nell’Asia. [4]
E non manca di unire il verso disperato del cuculo col vento, anch’esso disperato nella poesia di Scotellaro. Come dimenticare il «vento disperato» della Marsigliese contadina? (Non gridatemi più dentro / … /s’acquieti il nostro vento disperato. / Spuntano ai pali ancora / le teste dei briganti.

     Il cuculo ha interessanti richiami letterari. Si pensa subito al celebre film Qualcuno volò sul nido del cuculo, (One Flew Over the Cuckoo’s Nest), che effettivamente è ritenuto tra i cento migliori film. Ma va ricordato che esso è tratto dall’omonimo romanzo di Ken Kesey. Il titolo è altamente simbolico, ma la traduzione italiana limita la comprensione effettiva del suo significato. Letteralmente esso riprende il verso di una filastrocca: Three geese in a flock, one flew East, one flew West, one flew over the cuckoo’s nest («Uno stormo di tre oche, una volò ad est, una volò ad ovest, una volò sul nido del cuculo»). Il termine inglese «cuckoo» indica propriamente il cuculo, ma in senso traslato significa anche «pazzo». Si narra, infatti di un pregiudicato che, trasferito in una clinica psichiatrica, smaschera il carattere repressivo e carcerario dell’istituzione psichiatrica.

     Si può infine ricordare l’accenno triste nell’atmosfera gioiosa della celebre poesia Romagna di Giovanni Pascoli (Romagna solatia, dolce paese, / cui regnarono Guidi e Malatesta; /cui tenne pure il Passator cortese,/re della strada, re della foresta), che si trova verso la fine, quando il poeta accenna a quel giorno nero della loro partenza (sua e del fraterno amico Severino Ferrari, pure lui romagnolo e poeta, evocato nella poesia), alla ricerca di una nuova casa, lontano da San Mauro, spiegandone i motivi, per l’appunto, nella bella metafora del verso “ch’io non ritrovi nella mia verzura del cuculo ozioso i piccolini” dove, alludendo all’abitudine del cuculo, uccello parassita, di non covare le uova ma deporle nel nido di altri uccelli e nel buttar fuori dal nido gli altri piccoli quando il proprio pulcino è nato, altro non è che quello che è accaduto alla sua famiglia, dove il nido rappresenta la loro casa di San Mauro e il cuculo colui che ha ucciso il padre e ha preso il posto come amministratore.

 

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