8) Antologia della civiltà contadina – Terza Generazione – Il rinnovamento del Sud comincia dai contadini (Gianni Baget)
Questa antologia della civiltà contadina non poteva mancare di documentare la presenza nel dibattito dei giovani di ‘Terza Generazione’ – Ubaldo (detto Baldo) Scassellati, Bartolo Ciccardini e Piero Ugolini- che, come ha ricordato Gilberto Marselli, furono presentati al ‘Gruppo di Portici’ da due autorevoli rappresentanti della SVIMEZ di Pasquale Saraceno: Giorgio Ceriani-Sebregondi e Claudio Napoleoni. Quest’ultimo, che era un autorevole economista, successivamente, negli anni ’60, avrebbe fatto parte del corpo docente del ‘Centro di specializzazione e ricerche economico -agrarie per il Mezzogiorno’, voluto da Rossi-Doria e finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno e dalla Ford Foundation. Al rapporto dei giovani di ‘Terza Generazione” col ‘Gruppo di Portici” e al contributo dato dalla rivista con tre articoli ho accennato io stesso nella presentazione del saggio di Giorgio Napolitano sui “Contadini del Sud”. Di questi tre articoli pubblicherò i due pubblicati sul numero di luglio-agosto 1954 della rivista – i più tempestivi interventi sulla ricerca sociologica di Rocco Scotellaro appena pubblicata, dovuti a Gianni Baget (Bozzo) e, col successivo post, a U.P. (Piero Ugolini). Il terzo articolo, a firma di Bartolo Ciccardini e intitolato ‘L’Unione Goliardica Italiana e Rocco Scotellaro’, pubblicato sul successivo numero di settembre 1954, non attiene all’argomento della Civiltà contadina. Il trasferimento degli articoli dalle vecchie pagine della rivista al blog mi è costato molto paziente lavoro e limito solo a questo – ossia alla messa a disposizione dei testi sui quali si è esercitata la critica di Giorgio Napolitano e, con l’usuale violenza propria del suo stile, di Mario Alicata -.
Bartolo Ciccardini, che di ‘Terza Generazione’ è stato direttore, è morto alcuni mesi fa e mi piace ricordarlo con le parole iniziali di un servizio giornalistico sulla sua commemorazione al Palazzo Sturzo:
«Se mi avessero detto che, alla Commemorazione dell’onorevole democristiano Bartolo Ciccardini, sarebbe stata letta una commossa lettera dell’onorevole comunista Luciana Castellina, che manifestava grande stima per Bartolo, conosciuto nei lontani Anni Cinquanta, e che al coro degli elogi si sarebbe unito l’onorevole radicale Marco Pannella che, non pago del suo bellissimo e interminabile intervento, come solo lui sa fare, avrebbe sollecitato l’onorevole democristiano Arnaldo Forlani a prendere la parola, avrei risposto, senza mezzi termini, che non poteva essere vero».
Il rinnovamento dell’Italia comincia dai contadini del Sud
Dopo alcuni anni dalla sua comparsa, appare più chiaro il significato ed il valore che ha, nel processo di comprensione del nostro Paese e della sua storia, il «Cristo si è fermato ad Eboli» di Carlo Levi.
Non era certo il Levi il primo a scrivere delle tristi condizioni di vita dei contadini meridionali, (anche se, a causa della verniciatura ottimistica della propaganda fascista, per molti italiani il libro abbia avuto un non trascurabile valore di informazione sulla ” miseria ” del Sud); quel che di significativo e di nuovo si trovava nel libro del Levi era il giudizio storico sulle ragioni di tali condizioni, che era profondamente diverso da quello assunto a fondamento di tutte le posizioni culturali c di tutte le correnti politiche che contavano qualcosa in Italia.
Tale giudizio che stava alla base di quella corrente che impostò in termini liberali il problema dello sviluppo del Mezzogiorno nello Stato unitario (il “meridionalismo”) era appunto questo: che si dovesse cercare nei limiti dell’opera politica del Cavour e dei suoi epigoni, nel modo del processo di unificazione nazionale, la ragione ultima del permanere, ed anzi dell’aggravarsi, dello squilibrio civile tra le due grandi parti d’Italia. L’unificazione aveva fatto delle provincie meridionali un mercato privilegiato dell’industria settentrionale e una riserva politica del governo centrale, impedendo ogni vera opera di auto-organizzazione politica ed economica del mezzogiorno.
Di qui l’istanza dei meridionalisti per una ” politica di libertà ” che, sul piano economico, abolisse il protezionismo a favore dell’industria del Nord e aprisse ai prodotti italiani industriali stranieri le vie del mercato italiano, ottenendo in cambio la possibilità di esportazione della produzione agricola nei mercati stranieri: e, sul piano politico, eliminasse l’intervento arbitrario dei prefetti nella vila civile e politica e assicurasse l’autogoverno amministrativo dei cittadini mediante forme di organizzazione decentrata, garantendo così il pieno sviluppo dell’attività civile e politica. Qualunque siano le critiche di astrattismo e di ingenuità che si vogliono rivolgere a questa posizione, che non teneva sufficientemente conto della volontà del capitalismo e delle forze politiche tradizionali di conservare le proprie posizioni di forza, sta il fatto che essa fu l’unica posizione che sostenne seriamente una coerente impostazione liberale dell’ordinamento economico e politico del nostro Paese: e che essa diede vita all’unico tentativo di costituire un partito italiano non legato ad interessi economici determinati, ma autenticamente politico, legato ad una visione sintetica del bene comune, cercando contemporaneamente di risolvere il contrasto tra Chiesa e Stato e di fare dei cattolici organizzati una forza di progresso civile e politico nazionale. Questo fu il partito popolare animato dal grande progetto di Don Luigi Sturzo.
Il progetto e il partito naufragarono ed ebbero solo un valore di maturazione di uomini e di tempi: ed il meridionalismo non risorse con la fine del fascismo, che l’ aveva colpito e disperso.
Lo stesso partito democristiano non raccolse quella tradizione, almeno in quei termini: il richiamo programmatico del decentramento rimase astratto ed irreale e venne praticamente vanificato nell’azione: ed il problema meridionale rinacque poi all’interno dell’esperienza di governo, in termini profondamente diversi.
Proprio sulla base del fallimento del meridionalismo sorgeva intanto un’altra impostazione, che ne accettava, pur attraverso una critica serrata, l’eredità: quella del Gramsci.
Il Gramsci ebbe buon gioco nel mostrare l’incapacità del sistema economico e settentrionale ad accettare una politica di sviluppo del mezzogiorno così come l’incapacità delle classi dirigenti meridionali di assumere l’iniziativa dello sviluppo economico e politico del mezzogiorno. L’unica speranza di liberazione del mezzogiorno era che il Nord compiesse la sua rivoluzione moderna cioè la rivoluzione proletaria: la possibilità per la “classe subalterna” del Sud, i contadini poveri, era di collegarsi politicamente, attraverso il partito, con la classe operaia del Nord; dandole l’appoggio delle proprie azioni e dei propri voti nelle lotte politiche e nelle competizioni elettorali da quelle intraprese. Su questa base, Gramsci adattava con elaborazione originale alla situazione italiana le tesi leninista dell’alleanza degli operai coi contadini e fondava le basi della tesi della rivoluzione comunista come rivoluzione democratica, che ha costituito poi il fondamento della politica del PCI c dell’On. Togliatti dopo il ripristino delle istituzioni democratiche.
Ora alla base della tesi del Gramsci sta in sostanza la stessa tesi della sviluppo storico del mezzogiorno italiano e dei contadini meridionali che è stata alla base e della politica dell’unificazione nazionale e della critica meridionalistica (ogni posizione marxista si pone sempre come critica interna delle posizioni della cultura moderna accettandone quindi tutti i fondamenti teorici che vi sono impliciti): tale tesi è così formulabile: la via del progresso civile del mezzogiorno consiste nella recezionc delle idee, dei costumi e delle opere dell’Italia moderna, in possesso di un livello di organizzazione civile superiore. Lo sviluppo civile dell’area socialmente arretrata avviene per assimilazione a quella più evoluta. Gli intellettuali e i quadri dirigenti meridionali debbono assimilare i moduli di azione degli intellettuali c degli imprenditori settentrionali: i contadini poveri meridionali i moduli d’azione e le forme di organizzazione del proletariato industriale.
Questa tesi dell’assimilazione ha come fondamento una determinata tesi storica, che è stato, come tale, esplicitamcntc formulata dall’illuminismo e che lo Storicismo ha semplicemente incluso nella propria visione dello sviluppo storico: cioè che la civiltà moderna sia la civiltà umana universale, che i suoi istituti siano espressione di una superiore razionalità e che quindi l’umanità non moderna sia necessariamente ordinata a riceverli e ad imitarli.
E’ questa tesi vera o falsa? Il rispondere a questa domanda è di importanza decisiva per il nostro futuro: perché se tale tesi è vera, le azioni che su di esse sono impostate hanno una effettiva capacità di dirigere la società e la storia umana ed hanno per sè il futuro: altrimenti, esse sono destinate all’insuccesso o all’inserimento in una prospettiva diversa c più vera.
In concreto, per riferimento al problema del mezzogiorno italiano, si deve dire nella prima ipotesi che la linea di azione dello Stato unitario (a cui la democrazia ha dato una larghezza di criteri ed una positività di intervento maggiore) è fallita perché non era il punto più alto della civiltà moderna: ed in questo caso acquista maggior plausibilità la tesi comunista secondo cui il proletariato, portatore di valori umani superiori alla borghesia e quindi dei massimi valori moderni, potrebbe riuscire in quell’opera di settentrionalizzazione del Sud, in cui la borghesia ha fatto fallimento: questo vorrebbe dire, posta l’attuale situazione elettorale italiana, il pieno successo della linea comunista di conquista democratica del potere.
Se invece la tesi illuministica è errata, allora si deve dire che il movimento comunista nel mezzogiorno si urterà di fronte ad ostacoli che la ideologia marxista non gli consentiva di prevedere.
La decisività di questa alternativa non fa che sottolineare l’importanza della comprensione della reale natura della società meridionale.
2. – Si può così comprendere la ragione del significato e del valore che il libro del Levi acquista in una tale situazione storica.
II “Cristo si è fermato ad Eboli” si sottrae decisamente all’affermazione di un sostanziale ordinamento dell’umanità contadina meridionale alla civiltà moderna, ma afferma anzi l’idea di una radicale separazione ed incomunicabilità tra le due civiltà: quella ”cristiana” che finisce ad Eboli: nelle zone in cui la civiltà settentrionale ha costituito le sue roccaforti; quella “terrigena” e “pagana” che vive nella grande marea dei contadini poveri al di fuori delle cittadelle dell’ “altra Italia”.
“Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salento e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l‘anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause c gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, nè i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiù il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa.
Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell‘inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli”.
“Pensavo che la loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgeva uguale nei tempi più remoti, e che tutta la storia era passata su di loro senza toccarli. Delle due Italie che vivono insieme sulla stessa terra, questa dei contadini è certamente quella più antica, che non si sa donde sia venuta, che forse c’è stata sempre. Humilemque vidimus Italiam: questa era l’umile Italia, come appariva ai conquistatori asiatici, quando sulle navi di Enea doppiavano il capo di Calabria. E pensavo che si dovrebbe scrivere una storia di questa Italia, se è possibile scrivere una storia di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia. Questa Italia si è svolta nel suo nero silenzio, come la terra, in un susseguirsi di stagioni uguali e di uguali sventure, e quello che di eterno è passato su di lei, non ha lasciato traccia, e non conta”.
Questi due brani ci sembrano riassumere efficacemente la tesi del Levi di una radicale differenza tra la civiltà e la cultura italiana moderna e la “civiltà contadina” che le porta in una condizione di coesistenza senza comunicazione. Non importa l’unità statale, la presenza amministrativa, la scuola ed i lavori pubblici: ci troviamo di fronte ad una separazione sostanziale ed originaria che, nonché resistere ai modesti mezzi dell’amministrazione statale italiana, ha sopravissuto impavido anche al contatto della stessa civiltà nordamericana.
Non era certo possibile una più radicale contestazione della tesi illuminista, del naturale ordinamento di tutte le civiltà antiche alla civiltà moderna. Ma è sostenibile la tesi del Levi? Tale tesi afferma che ci si trova di fronte ad una civiltà fondata sulla sola esperienza del dato cosmico (la terra, le stagioni, il cielo ecc.) e sull’assimilazione sernplice della natura e della vita umana a quell’esperienza: sicché l’uomo si concepisce solo come parte della natura, come incluso in essa, nel suo ritmo, nelle sue leggi senza alcuna riserva.
“Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dei dello Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico. Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l’uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità, vagheggiata dai letterati paganeggianti, nè la speranza, che sono pur sempre dei sentimenti individuali, ma la cupa passività di una natura dolorosa”.
Ma è possibile una tale civiltà? E’ possibile una condizione umana in cui l’autocoscienza umana si ponga come mera recezione del dato extra umano, come assimilazione semplice ad esso? E’ possibile che alla base di un processo di autocoscienza umana e quindi alla base di una organizzazione sociale ci sia altra cosa che un’esperienza di se, un’esperienza interiore dell’umano, di ciò che fa l’uomo inconfondibile con il dato cosmico? Non esiste alla base di ogni civiltà primitiva, anche profondamente presa dalla realtà cosmica, il senso di un ordine e di una bellezza del cosmo, in cui gli uomini sentono non il puro dato della necessità materiale anti-umana, ma un superiore intelletto e una superiore volontà, simile a loro, eppur supremo e onnipotente? E da dove, se non da loro stessi, può nascere questa comprensione, che trascende la mera recezione del dato? Per questi motivi. i termini in cui il Levi ha posto la differenza tra la civiltà settentrionale e quella dei contadini meridionali ci pare insostenibile. Una tale “civiltà contadina” sarebbe contraddittoria all’essenza stessa della civiltà umana.
Sicché il problema della comprensione della natura propria della civiltà meridionale che il Levi ha posto ci pare ancora del tutto aperto.
3. – Assunto centrale del libro del Levi, è, come si è detto, l’esistenza non di una civiltà meridionale, ma di una civiltà contadina. Il Levi ha considerato i contadini come separati ed avulsi dall’insieme della società meridionale ed ha visto tutto ciò che nel mezzogiorno non è contadino, come Stato, come amministrazione centrale, come “altra Italia”.
Eppure la società meridionale non è una creazione “settentrionale”, essa ha avuto secoli di esistenza autonoma e di significato proprio, secoli in cui la sua forza ed il suo significato non venivano dal potere di Roma e dalla potenza del Nord, ma appunto dalla sua capacità come società a inquadrare i contadini, a svolgere per rispetto ad essi una reale funzione di ordinamento.
Il mezzogiorno costituisce in sé una società profondamente civile: l’insediamento degli uomini, ben lungi dall’essere sparso e legato alle sole esigenze “naturali” della pastorizia e della coltivazione, è invece profondamente accentrato attorno alle sedi della vita religiosa e civile; la società meridionale, per conquista propria e non per beneficio altrui, non conosce insediamenti che non siano insediamenti totali, con tutti i servizi culturali e civili, ritenuti elemento stesso del vivere umano.
Il criterio che conduce ad un tale tipo di insediamento è quello appunto del condurre una convivenza il più completa possibile, garantita dalla condizioni necessarie al vivere umano totale, esteriore ed interiore dell’uomo e non un criterio di organizzazione economica. Non a caso l’intervento “riformatore “ settentrionale moderno, disposto a tutto sacrificare alle esigenze della razionalità economica, ha considerato i borghi meridionali come il suo principale nemico, come un puro irrazionale ed ha preteso introdurre l’insediamento sparso all’insediamento accentrato .
Ora, appunto qualunque siano le critiche che si vogliano rivolgere alla forma di insediamento tipica del mezzogiorno, bisogna riconoscere che essa nasce da una profonda valutazione della vita “in civitate”; della vita fondata sulla diuturna comunicazione di giudizi, sul continuo scambio di valori sulla continua esplicitazione ed espressione delle tensioni, dei desideri, delle contraddizioni interiori. La convivenza è, nella civiltà meridionale, sentita come valida di per sé, come avente radice nella stessa natura dell’uomo e non vista in semplice funzione di determinate utilità esteriori.
E da questo viene, a nostro avviso, la caratteristica profonda della civiltà meridionale, che la fa cosi diversa e così potenzialmente integrante della civiltà industriale: quella di essere cioè una civiltà dell’espressione, una civiltà in cui il mondo interiore tende a non gravare sul singolo come un peso ma a fondersi nella vita di tutti, arricchendo la vita esteriore dei patrimoni più veri degli uomini.
Il suo valore sta appunto nell’essere affrancata da questa barriera tra desiderio e parola, tra tensione ed espressione, che costituisce invece il grave peso dell’umanità moderna.
Si comprende come la civiltà figlia della rivoluzione protestante che ha cristallizzato la contraddizione tra mondo interiore e mondo esteriore ed ha visto nell’accettazione attiva e vigile di questa contraddizione il supremo valore umano, sia rimasta tanto affascinata e urtata ad un tempo da questo mondo meridionale oppresso dalla “miseria” eppur profondamente ed umanamente vivo.
Ora tutto ciò ci porta ad escludere quello che invece pare una interpretazione comune (non solo del Levi) della civiltà meridionale: cioè che essa sia un prodotto autoctono dei contadini, senza storia, senza alcun rapporto con la tradizione culturale meridionale: una sorta di mitica filosofia primitiva della vita.
Il senso stesso del valore delle istituzioni, civili, religiose e culturali che ha determinato la struttura dell’insediamento meridionale: il senso del valore primario del rapporto umano e civile su quello economico e naturale, caratteristico della civiltà meridionale, porta ancora una volta a respingere la tesi di una civiltà meridionale “pagana”, “terrigena, naturale” e ci indica invece l’esistenza di un rapporto profondo tra le espressioni, poetiche e razionali, dei contadini e la cultura greca e cristiana che hanno avuto ampia cittadinanza nel mezzogiorno.
Questo porta conseguentemente a dire che i contadini meridionali fanno parte della storia e sono un momento integrante ed ineliminabile della civiltà europea.
Ma se questo è vero, non ci può essere autentica e valida civiltà europea, senza l’apporto integrante ed infungibile dei contadini meridionali italiani (cosi come di quelli spagnoli, greci, romeni, di tutte le formazioni storiche nate dalla civiltà greca e cristiana ed escluse da un contributo originale e sostanziale alla civiltà europea moderna): non può quindi accettarsi la tesi di una attuale completezza cd organicità delle istituzioni civili europee.
Conseguentemente, il rapporto delle zone europee di civiltà tradizionale e di quelle di civiltà moderna va posto in termini diversi, da quelli oggi vigenti, in termini cioè che tengano conto che esse sono parti di un tutto, sostanzialmente, anche se potenzialmente, organico, e che quindi il rapporto proprio tra di loro non può essere di assimilazione della prima alla seconda, ma deve invece essere un rapporto di vitale integrazione tra di esse.
Sicché concretamente il problema che si pone dinanzi al nostro Paese è quello di rifondere le sue parti in una forma superiore di civiltà umana e di convivenza nazionale, in cui siano annullate l’impenetrabilità e l’antitesi che oggi contrappongono le componenti sostanziali della nazione.
4. – Abbiamo con ciò escluso che la via storica del nostro Paese sia quella che oggi le forze politiche dominanti indicano e che passa per l’assimilazione del Sud al Nord: e conseguentemente affermiamo che la realtà del Paese è matura a strade totalmente nuove che l’impegno e l’iniziativa degli italiani dovranno costruire.
La ricerca di queste nuove strade non può fondarsi che sulla comprensione della natura e delle vocazioni delle varie componenti etniche e storiche del Paese che la storia passata e le tensioni presenti ci rivelano. Al centro di questa ricerca sta appunto il problema di comprendere la particolare vocazione e funzione delle regioni meridionali del nostro Paese.
E’ fin troppo noto il pregiudizio che corre attorno a queste regioni, pregiudizio di cui il libro di Levi, per quanto pervaso da un senso di simpatia umana, è esso stesso testimone.
Se la presenza di una grande civiltà si manifesta nel settentrione nella complessità e nell’elevato grado della organizzazione economica e politica, come si manifesta questo nel Sud, dove le insufficienze dell’organizzazione economica e politica sono cosi marcatamente evidenti? Qual è il modo particolare in cui la tradizione della grande cultura greca e cristiana si manifesta nel modo di vita del popolo del mezzogiorno?
Se il giudizio comune contesta all’uomo del mezzogiorno capacità di organizzazione economica e politica, è largo invece nel riconoscere ai singoli meridionali delle “qualità personali” di ingegno, vivace e profondo, di umanità calda e sentita, di capacità di sopportazione e di adattamento non comune.
Il giudizio comune non approfondisce, evidentemente, questa impressione, non ne cerca le ragioni o le cause: semmai si richiama genericamente alla natura.
In sostanza, queste doti meridionali non sono semplicemente un prodigo dono della natura (quale dote umana può essere soltanto questo?) ma il frutto di millenni di tradizione, di cultura, di storia.
Se guardiamo più attentamente le doti che il giudizio comune attribuisce ai meridionali, vediamo che la loro caratteristica è di riconoscere ad essi doti che ineriscono strettamente alla persona, doti immanenti in essa, e che in essa si riconoscono, mentre le doti riconosciute all’uomo di cultura moderna ineriscono essenzialmente all’operazione esteriore ed in quella si riconoscono. Ora appunto le doti che si compiono e si riconoscono nell’attività immanente della persona sono appunto il giudizio teoretico e l’atteggiamento etico, che ordinano la persona alla totalità del vivere e non fondano invece di per se, senza l’intervento degli abiti pratici, alcuna operazione esteriore determinata.
Senza il giusto abito pratico, non discende di per se da un giusto abito teoretico ed etico la capacità di una giusta operazione; pur essendo vero (ed abbia particolare significanza per riferimento al problema che andiamo discutendo) che la perfezione dell’esercizio dell’abito pratico e dell’operazione sia indissolubilmente legata al pieno esercizio di un giusto abito teoretico ed etico.
Per questo di per sé le manifestazioni di un particolare abito teoretico od etico si manifestano come doti immanenti e ”personali” dell’uomo e sono del resto appunto doti di questo tipo che il giudizio comune attribuisce in modo eminente all’uomo del mezzogiorno, unitamente ad una totale separazione di esse dagli abiti pratici conseguenti. La tradizione civile greca e cristiana ha così operato in modo molto diverso sull‘italiano del nord e su quello del sud: laddove nel primo ha generato nuovi abiti pratici, nel secondo ha generato nuovi abiti teoretici ed etici. Nel Nord, come in tutte le zone di tradizione moderna, è nata dunque una nuova organizzazione civile, economica e politica: nel Sud invece la cultura tradizionale ha generato delle qualità umane immanenti nella vita personale degli uomini. Nell’uno e nell’altro caso, l’esperienza storica, culturale e civile, precristiana e cristiana, ha dato una propria conformazione alla natura degli uomini, si che l’effettiva potenzialità degli abiti teoretici, etici e pratici non è misurabile dalle loro attuali manifestazioni, perché inerisce all’ intimo della natura stessa dell’uomo.
Gli attuali limiti nati dalla separazione delle fondamentali attitudini nazionali, sono dunque per principio trascendibili in una nuova sintesi umana.
Ritorna qui in termini diversi il problema dell’integrazione tra l’umanità moderna del settentrione e l’umanità tradizionale del mezzogiorno, che è il centrale problema ed il fondamentale compito umano e nazionale che sta oggi innanzi a noi.
Abbiamo detto prima che la pienezza di esercizio degli abiti pratici è fondata sulla pienezza degli abiti teoretici et etici a questi corrispettivi: infatti l’abito teoretico ed etico orienta l’atteggiamento dell’uomo verso l’essere e la vita in universale, mentre gli abiti pratici orientano l’uomo a un fare determinato dalla particolarità dell’oggetto cui si rivolge: gli uni perfezionano l’uomo in sè, gli altri l’uomo per riferimento a ciò che è oggetto, fuori di sé.
E’ dunque l’insieme degli abiti pratici deve essere posto o ricondotto sotto la legge degli abiti teoretici ed etici perché si abbia l’unità e l’omogeneità dell’uomo, conformemente alla propria essenza.
Solo in tal modo si avrà una concreta unità umana, dotata di pienezza di vita e di sviluppo, in cui i vari abiti possano trovare il loro proprio e totale esercizio.
Se dunque gli abiti che la tradizione greca e cristiana ha generato nell’umanità italiana si trovano presenti nella grandi componenti nazionali secondo l’ordine prima detto, l’ordine di pienezza dell’umanità italiana non può consistere che nel pieno ed integrale riferimento degli abiti pratici settentrionali agli abiti teoretici ed etici dell’umanità meridionale; in tale pieno riferimento gli abiti teoreticì ed etici dell’umanità italiana, frutto autentico e proprio della tradizione greca e cristiana, possono trovare la maggiore esplicitazione della loro antica riposta virtù, e gli abiti pratici farsi capaci di dar vita ad un ordinamento civile in cui sia eliminata la contraddizione tra il mondo interiore ed il mondo esteriore, tra il mondo della verità, della moralità, della religione ed il mondo della prassi, della politica, dell’economia. Questo significa cioè affrontare il nodo storico essenziale del mondo moderno e della sua essenziale contraddizione con la tradizione greca e cristiana; quel nodo che in senso opposto il Rinascimento e la Riforma, Machiavelli e Lutero hanno generato e dinnanzi a cui, non a caso, si è avuta la crisi e la caduta del significato universale della nazione italiana,. indissolubilmente legata alle sorti della tradizione greca e cristiana del suo popolo
In ultima analisi, il senso profondo della vocazione nazionale italiana non può essere che quello di rendere vivi e storicamente operanti i valori della grande tradizione che l’ha generata nel grande sviluppo moderno: qui sta la chiave del suo organico e vitale inserimento nella civiltà europea ed il senso del suo valore universale. Ne resta così accentuata, con delle conseguenze che oggi non possiamo ancora intravedere, lo strettissimo collegamento degli abiti pratici nazionali con gli abiti teoretici ed etici che hanno staticamente conservato presente in mezzo a noi la tradizione della civiltà greca rigenerata e vivificata dalla Chiesa cattolica.
Si domanderà perché si attribuisce agli abiti teoretici ed etici del Sud questa capacità di conservazione della grande tradizione in un modo e con un titolo diverso, rispetto agli abiti pratici del Nord.
La ragione sta nel fatto che appunto la grande tradizione aveva generato verità teoretiche e abiti morali, ma mai era riuscita a fondare una prassi sociale e un’organizzazione politica ed economica: il mondo moderno nasce come tentativo di andare oltre su questo punto, ma a prezzo della negazione delle conquiste e dei valori della tradizione.
Per questo i valori della tradizione con il loro essenziale limite, potevano essere conservati solo in un’umanità particolarmente legata ai problemi teoretici ed etici piuttosto che a quelli economici e politici. Il mezzo di questa fedeltà è la stasi, come il prezzo del tentativo moderno di superamento è stato il disordine e l’anarchia.
Il problema che oggi esiste e che qui si pone è di riprendere l’istanza moderna in termini di sviluppo e non di antitesi della tradizione.
5. – Si è precedentemente affermato che gli abiti teoretici, etici o pratici, ineriscono alla umanità e non costituiscono soltanto un patrimonio di nozioni, di costumi, di tradizioni: sono quindi essenzialmente una realtà viva, capace di sviluppo e di pienezza, in cui solo l’insieme dei resti del passato può ritrovare significato e rivivere.
I depositari degli abiti sono tutti gli uomini figli di quella tradizione e di quella storia e non esclusivamente gli intellettuali ed i politici. Anzi (quando essa sia in situazione non espansiva) i vertici della società, proprio per la necessità di una serie di relazioni e contatti esterni, finiscono facilmente per subire un processo di assimilazione semplice ad altre civiltà in stato di espansione e quindi un sostanziale deterioramento.
Ora la società meridionale è una società in stasi, sottoposta per di più alla presenza ed all’intervento della società moderna, del settentrione: ed in essa appunto si è verificata una certa “settentrionalizzazione” come cultura e come metodo d’azione, dei quadri intellettuali e politici.
Anzi, questo è oggi il prezzo necessario da pagare posti l’incorporamento della società meridionale nell’ordinamento moderno della società più progredita, per diventare “quadri” dirigenti della società.
Ne viene che l’unico punto in cui la tradizione antica ed i valori umani e civili che essa ha generato possono essere autenticamente conservati a prezzo dalla stasi totale, è quello dei contadini. Questo è stato possibile grazie soprattutto al rapporto non mediato e sfruttatorio, ma diretto e totale che essi conservano con il lavoro e con la terra, che li pone per principio in una giusta condizione umana, realmente coincidente con il livello storico che la civiltà umana ha effettivamente raggiunto. E’ questa condizione di assoluta “non evasione” alle reali difficoltà ed ai reali problemi dello sviluppo umano che consente al contadino meridionale la piena autenticità della vita e quindi un atteggiamento morale, inequivoco e completo: il che costituisce appunto il necessario supporto per la propria conservazione degli abiti morali e conoscitivi della grande tradizione.
Ora è appunto sui contadini meridionali che gli abiti pratici della società settentrionale hanno inciso, con il massimo delle loro insufficienze e delle loro arbitrarietà. E per questo, necessariamente. appunto per la loro situazione legata totalmente senza riserve alla realtà, essi non possono che patire realmente e totalmente la parzialità delle azioni di cui sono oggetto e quindi l’irrazionalità dell’ordine vigente. Essi sono stati oggetto di provvidenze statali ed in modo crescente la democrazia ha concentrato una massa imponente di spesa pubblica nel mezzogiorno. Eppure queste provvidenze sono apparse come arbitrarie, senza reale riferimento alla vita del contadino, capaci sì di fare dei passi per venirgli incontro, ma incapaci poi di dare una chiara sistemazione e soluzione ai problemi stessi che si volevano risolvere: e questo per motivi il più delle volte del tutto incomprensibili e arbitrari, legati all’irrazionalità della struttura amministrativa (a parte i casi di corruzione o di malavoglia): quindi generalmente a motivi validissimi per il funzionario o il politico o l’intellettuale che li decideva nell’ambito della sua competenza o della sua professione: ma che diventavano irrazionalità clamorosa vista dall’interno dell’esperienza totale della comunità o del singolo oggetto di tanti scoordinati interventi.
I contadini meridionali, liberati dalla democrazia e dall’intervento statale, dalla rassegnazione o dall’abdicazione, si trovano oggi posti dinnanzi l’assurdo problema per cui, pur chi vuol far loro del bene, in ultima analisi, non lo può per la irrazionalità stessa del sistema di cui dispone.
Una tale situazione storica non ha altra via di sviluppo dinanzi, che quella che i contadini meridionali affrontino il problema del loro ordinarsi per superare lo stato di disgregazione loro e di tutta la società meridionale.
Ma questo in sostanza significa che dalla zona di umanità italiana che ha conservato gli abiti teoretici ed etici della grande tradizione parta una nuova giusta domanda ed una giusta offerta a quella zona che ne ha invece conservato gli abiti pratici ed i cui uomini hanno quindi la vocazione a dar vita ad una giusta ed umana organizzazione economica e politica, conforme agli abiti teoretici ed etici della grande tradizione.
Una tale domanda non può quindi non trovare omogenee a sè le migliori e più proprie energie e capacità pratiche del settentrione, quelle che oggi più soffrono dei limiti e degli errori dell’organizzazione economica e politica moderna perché si sentono potenzialmente capaci di una organizzazione migliore, effettivamente legata all’ordine umano: e non può quindi non riaprire attorno al problema incontrovertibile dell’ordinamento civile organico del mezzogiorno, il giusto processo di selezione umana e civile, delle stesse capacità pratiche del settentrione.
Questo significa aprire alla stessa umanità italiana moderna la capacità di azioni nuove, che valgano a strapparla dalla stasi sostanziale appena velata dal disordinato agitarsi delle operazioni e quindi a liberare le sue energie più vive e desiderose di nuova civiltà dal dilemma reazione-rivoluzione in cui si sentono oggi incluse; significa legare le più vive capacità pratiche del settentrione al problema di un ordinamento civile in cui la giustizia non sia mai sacrificata alla facilità immediata del risultato e la contraddizione tra ideale e possibile continuamente risolta dalla capacità inventiva e creativa dell’uomo; significa fondare come sintesi superante dei termini tradizionali e di quelli moderni, un comportamento pratico totalmente incluso nella legge morale, in cui quindi l’uomo non sia mai sacrificato al dato esteriore ma continuamente fatto capace dall’integrazione degli altri a liberare se stesso e gli altri dalla schiavitù del dato attraverso nuove azioni che includano il dato e lo convertono da anti-umano in umano, e sappiano così continuamente fare del passato una forza positiva per il futuro.
Se l’abito etico della grande tradizione greca e cristiana che i contadini del Sud hanno conservato a prezzo della “miseria”, deve lasciare la sua umiliazione e la sua povertà per tradursi in un ordinamento civile, in una organizzazione economica e politica omogenea alla tradizione, non può essere che dando vita insieme all’umanità italiana moderna ad un comportamento pratico del tutto nuovo, in cui la contraddizione tra spirito ed opere, tra ideale e possibile, tra uomo ed organizzazione sia effettivamente superata e l’errore protestantico che sta alla radice del mondo moderno finalmente trasceso.
E nella realtà nata da questo comportamento la nazione italiana non può non trovare la verità della sua vocazione, il significato di questo nella civiltà europea e nella storia universale e ad un tempo l’unica realizzazione possibile della sua unità nazionale: non quella fondata sulla organizzazione e sulla potenza a qualunque costo, di cui essa è stato manifestamente incapace, ma quella fondata sull’unità della verità e sull’integrità della giustizia.
Questo è a nostro avviso il processo storico positivo che è in corso in Italia, pur nella realtà della crisi e della contraddizione dell’ordinamento civile, dell’organizzazione economica e politica vigente e anzi in conseguenza della reazione che tale radicale ed ormai veramente universale esperienza genera nell’umanità italiana.
Ed in ogni caso il problema che la storia di domani vedrà risolto è in sostanza questo: o la grande tradizione è viva nell’umanità italiana e la fa capace di superare con nuove azioni ad essa autenticamente omogenee i limiti dell’attuale ordinamento civile, la fa capace di generare ancora idee e valori per tutta l’umanità, od il nostro Paese non ha altra via che quella di una decadenza, organizzata da una dittatura sostenuta da tutte quelle forze per cui il vigente ordinamento ha raggiunto il limite della insopportabilità materiale.
Questo significa che i grandi valori della tradizione e della nazione si difendono soprattutto con nuovi impegni, con nuove azioni che, ampie come tutta la nazione, valide in ogni punto d’Italia, hanno come epicentro umano e storico il “risveglio” dei contadini del Sud.
GIANNI BAGET
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