Sullo stesso numero di luglio-agosto 1954 della Rivista «Terza Generazione», su cui comparve il saggio di Giasnni Baget, Piero Ugolini riflette sulla vita di uno dei contadini di Rocco Scotellaro, Michele Mulieri. La prima edizione di «Contadini del Sud» è stata appena pubblicata per Laterza, nel mese di luglio, con Prefazione di Manlio Rossi Doria nella collana «I libri del tempo». L’articolo di Piero Ugolini, di cui sopra è riportato il titolo, è senz’altro la prima, e significativa riflessione che si sviluppa sull’indagine sociologica di Rocco Scotellaro, per essere subito ignorata anche dai primi critici dell’opera di Scotellaro, che, peraltro non mancarono di massacrare con una feroce critica il saggio di Gianni Baget. All’articolo Ugolini fa seguire i «Racconti, dichiarazioni e scritti di Michele Mulieri», pagg. 48-81 della citata prima edizione dei Contadini del Sud e che si possono leggere anche su questo blog nella categoria Contadini del Sud.

 

Figlio del tricolore
Scotellaro e i suoi contadini di fronte alla cultura meridionalista

     È raro che una testimonianza significativa della vita e della civiltà contadina arrivi sulle pagine di un libro e sia messa a disposizione di tutti. E tanto più raro è che la testimonianza sia comprensibile e vera, come quella che esce dalle autobiografie di contadini del Sud che Rocco Scotellaro raccolse prima di morire ed a cui dedicò tutto il lavoro preparatorio che gli era reso possibile dalla profonda consonanza umana con i suoi contadini e dalla comprensione del loro mondo, che gli proveniva dalla testimonianza di fedeltà che aveva dato loro con la sua vita.

    Tra le autobiografie più significative è quella che riportiamo: Michele Mulieri di Innocenzo, nato nel 1904, piccolissimo proprietario, coltivatore diretto, falegname e rivenditore di alimentari, bevande e benzina, contrada Piani Sottani di Grassano, Matera. La sua storia è lunga, ma in essa si possono scorgere alcuni motivi sempre presenti, che la determinano e la rendono estremamente coerente con se stessa. Di fronte alla tabella dell’Ente Riforma sta la sua, “innalzata in questa repubblica:

 

Figlio del tricolore ma

Pieno di dolori burocratici

Avventuriero grande invalido

Mulierî.

 

     Quella di Mulieri è letteratura che proviene dai libri della scuola elementare, dice Scotellaro, e si carica del “bel parlare” che si usa nella città, da Potenza a Roma e che si sente dai signori, dai professionisti, dagli nomini di studio avvicinati e conosciuti ma che nello stesso tempo mantiene un linguaggio “diretto, breve, concitato ed esplosivo”.

     E con un linguaggio di questo genere egli mette in luce e dichiara i motivi e i propositi più profondi della vita contadina.

Egli si dichiara avventuriero: egli si vede come un uomo che lotta contro il disordine e protesta direttamente e con decisione contro la parte di disordine che lo tocca. Egli ha il senso del contributo attivo e personale a una causa di giustizia. Non è stanco né triste di fronte alla situazione: “Dio e il mio coraggio provvede”. Il suo coraggio fa si che lui, contadino, dia il suo tributo al lavoro contro il disordine.

     Il disordine è lo Stato e la società in cui vive: dolori burocratici sono quelli che lo affliggono, è l’irrazionalità del falso ordine, svincolato da ogni motivo umano ma attaccato a “ una parola gigante, la legge”. La legge che gli si rivolta contro, la burocrazia che lo perseguita con le sue lettere numerate, incomprensibili nei motivi che le ispirano, la legge che nasce disordinata e disumana da una struttura sociale che le corrisponde perfettamente: Mulieri disegna secco e breve i caratteri del grande proprietario, “usurpatore di popolo e contravventore di patria, un disordinato di provincia”.

     Il contadino giudica con esattezza e quasi con distacco quelli che stanno sopra di lui e le contraddizioni in cui si dibattono: le contraddizioni di uno Stato che vive contro la gente e non per la gente, di una società che si disintegra quanto più tenta di reggersi in piedi.

     In questo senso essi giudicano il mondo moderno e la Stato che ne è derivato. Essi sono con l’ordine naturale delle cose, che hanno maturato in se attraverso il tempo e che è il vero punto di partenza per ricostruire il mondo fatto a pezzi: sono contro il disordine che fa violenza alle cose, contro lo Stato del disordine. Cosi nasce l’anarchia contadina: come è potuto avvenire che vi sia, in Italia, si chiede Scotellaro, la repubblica di Mulieri? La risposta è nell’ordine in cui Mulieri vive nella sua casa “più ordinatamente di una formica”. Se lo Stato non c’è, se c’è solo disordine, l’avventuriero Mulieri si costruisce il suo Stato, cominciando da casa sua. E’ pazzo? O piuttosto non è pazzia tutto ciò che gli si svolge sotto li occhi, come quella “cosa” se c’è “in queste zone” e “non si può chiamare agricoltura, ma pazzia? “: Allora anche l’anarchia contadina appare in una luce nuova, come la più elementare e insopprimibile espressione della volontà personale di contribuire a costruire uno Stato dove ci sia l’ordine e non il disordine: contributo dell’”avvenire vero” cioè, dell’uomo libero.

     I contadini appaiono così estremamente maturi rispetto alla storia: la prosa di Mulieri è una prova di più del senso della società e dello Stato proprio dei contadini italiani, di quanto sia apparente la loro anarchia e il loro disordine.

Questo dato di fatto emerge continuamente da tutta l’Italia presente e passata: il senso dello Stato e della necessità di costruirlo dove non esiste, emerge dalla prosa di Mulieri come da una qualsiasi ricerca su vicende storiche dove appaiono contadini: non ci pare priva di significato questa rispondenza tra la prosa di un contadino di oggi e le richieste dei contadini trentini più di quattro secoli fa che esaminiamo nell’inchiesta su Pergine. Da un capo all’altro d’Italia e da un secolo all’altro della sua storia, questo è il motivo che serpeggia sotterraneo nell’anima contadina del nostro paese: sia l’avventuriero malato di dolori burocratici del 1953 o i rustici malati di compressioni feudali del 1525.

     ln questo senso si può parlare di incomunicabilità tra due mondi: il mondo dello Stato moderno, della Stato del caos e il mondo contadino. Ma quest’ultimo è un mondo nato dalla storia, anche se si è fermato al momento in cui la storia si è spezzata, e Machiavelli e Lutero, dice Baget, hanno aperto i problemi del mondo fatto per sezioni: l’arresto del mondo contadino proprio a quel punto è tanto significativo se riflettiamo che di là nacque il disordine. I contadini erano tanto razionali da rifiutare il razionalismo e la visione parziale della vita che ne derivava: giunti all’incomunicabilità estrema di oggi c’è solo da rimettere al suo posto la ragione, quella vera, che è ragione perché sente i suoi confini. Ma non esiste l’abisso del “Cristo si è fermato a Eboli”, di un mondo naturale contadino fuori della storia e di un mondo moderno dall’altra parte.

     Carlo Levi ha vissuto e sofferto nella opposizione netta di due mondi, e l’ha mostrata a tutta una generazione: cosi essa ha ricevuto da lui il grande servizio gratuito di vedersi sgombrata la vista dalle illusioni illuministiche che bastassero le bonifiche, le strade o una nuova classe dirigente per risolvere il problema del mezzogiorno; e ha scoperto che c’era un mondo da capire e da amare con cui si dovevano scambiare le parole semplici che si hanno tra fratelli.

     Ma in lui c’è ancora il pessimismo profondo che deriva dalla lontananza che egli vede tra due mondi, c’è il senso nascosto dell’impossibilità di agire con una realtà fuori della storia e una dentro.

Ma se la storia è la vicenda degli uomini nel tempo, allora, non solo i contadini sono nella storia ma sono nella vera e unica storia degna di questo nome, e fermi ad essa non vi sono compromessi nella storia del mondo moderno, nato per sezioni: sono e vivono come custodi dell’antica tradizione greca e medioevole-cristiana, tradizione di uomini interi.

     E solo se essi sono nella unica e vera storia è spiegabile la loro continua tensione per dare un contributo alla costruzione dello Stato dell’ordine contro quello del disordine, il loro contributo personale di ” avventurieri ” di uomini che rischiano per costruire la propria vita.

     E dalla loro permanenza nel storia deriva la loro avversione a tutte le espressioni del mondo moderno, antistoriche perché parziali, e contro l’uomo.

     D’altra parte la loro vita è tutta equilibrio: vivendo in un rapporto naturale con le cose essi sanno che è loro compito dominare il mondo sensibile.

Sanno questo perché lo hanno sentito dire da chi li ha creati. AI dominio di questo mondo e non alla religione che è legame col mondo oltresensibile, è legata la magia: se sono malati devono capire, perché è loro compito capire il male che hanno, il difetto di natura. Per questo i paesi tengono tanto al medico, fanno spesso delle rivolte paesane per trattenere il medico “buono” che parte, per questo vogliono bene a Carlo Levi. Vogliono bene a tutti i medici che si spiegano e spiegandosi li rendono padroni della loro natura. Ma per spiegarsi bisogna possedere un linguaggio ed essere disposti a comunicare: i medici di Stigliano, nati dalla antistoria e dal disordine moderno, sprezzanti dei contadini, anche se fossero bravi medici, non saprebbero spiegarsi. Allora il mago e la strega sono quelli che spiegano, che fanno capire e dominare la realtà. E il medico che intuisce la giustezza di questa esigenza, si spiega magari in termini magici, e si lega alla magia, e lascia l’amuleto sul corpo del malato, mentre usa l’atebrina. Allora i contadini dicono a Carlo Levi: “Dovresti fare lo stregone; ormai sai curare anche alla nostra maniera”. Legato alla loro realtà egli rivaluta presso di loro la medicina: usa l’atebrina e la plasrnochina che è riuscito a legare alle influenze magiche, cioè alla scienza contadina. Non usa più il chinino che “appartiene, per i contadini, a una scienza screditata, incomprensiva e pretenziosa”. Triste fine del “chinino di stato”, “chinino del disordine”. Tutto ciò non è un machiavello per curare un malato, è l’integrazione di due problematiche. E ne pone una terza: quanta magia c’è nella scienza? E quanta scienza c’è nella magia?.

     Infine i contadini partecipano alla religione: ma non è terrigeno quel male “che è dolore terrestre che sta per sempre nelle cose”, di cui si sente un’eco lontana nel castello del prete di Avellino: “ll peccato chi lo fa lo paga prima qua e poi là”. E’ semplicemente un’espressione profonda di coscienza cattolica: il male vive nelle cose ed è il germe del dolore nel mondo. Al male risponde una pena, direttamente, senza mediazioni di tempo o di spazio e della stessa natura: cosi lo vede anche Dante. Il male che sta nelle cose e nell’uomo, che è carne e spirito, le manda in perdizione tutt’e due: ” prima qua a poi là”. Questa è una constatazione di fatto in cui non c’è ombra di apologetica cattolica: su questo piano del resto la Chiesa ha sempre visto le zone dove non è ancora entrata.

     Il maggior danno non andrebbe, dunque, alla Chiesa se si valutasse terrigeno questo modo di considerare il male proprio dei contadini: il danno andrebbe alla società che in questo patrimonio spirituale ha messo radici: essa per un errore di interpretazione, sradicherebbe dalla sua tradizione una civiltà rendendola irriconoscibile.

     C’è solo da chiedersi l’origine di questa valutazione terrigena del senso del male dei contadini: la spiegazione si trova nell’allontanamento operato dal mondo e dalla cultura moderna del rapporto diretto tra pensieri e opere, tra azioni e loro conseguenze, insomma tra le varie espressioni dell’uomo. Allora è il dramma che nasce dalla incomprensione di questo rapporto che ormai è un lontano ricordo per gli uomini moderni.

     Tanto lontano quanto il mondo terrigeno e pagano degli albori della nostra civiltà.

     Ma c’è un fatto molto più semplice che a noi sembra spieghi tutto: per fortuna loro, nostra, e della civiltà umana, i contadini italiani vivono ancora prima di Martin Lutero. Essi non hanno sezionato l’anima e il corpo dell’uomo.

     E non è privo di significato che il loro mondo cominci ad apparire attraverso le pagine di uomini che vivevano più che con loro, come loro. Da qualunque riva provenissero, e a qualunque cosa credessero, sono stati questi uomini che hanno passato degli anni o la vita, nel loro mondo, a farvi emergere, anche frammisto a interpretazioni che non accettiamo, il volto dei contadini. Uomini che hanno ritrovato a contatto con loro il senso del rapporto diretto tra i pensieri e le opere. Questo ci sembra non solo il loro valore più grande, ma una indicazione preziosa della strada da percorrere.

P. U.

 

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