ROCCO SCOTELLARO – E’ FATTO GIORNO – CANTO

 I PADRIDELLA TERRA SE CI SENTONO CANTARE

Cantate, che cantate?

Non molestate i padri della terra.

Le tredici streghe dei paesi

si sono qui riunite nella sera.

E solo un ubriaco canta i piaceri

delle nostre disgrazie.

E solo lui può sentirsi padrone

in quest’angolo morto.

Noi sapremo di vincere la sorte

fin che dura la narcosi

del mezzo litro di vino,

se il coltello dello scongiuro

respinge le nubi sui velari

nei boschi dei cerri,

se la campagne scacceranno

il vento afoso che s’è levato.

 

Ma i ciottoli frattanto

si affogheranno nel vallone,

i fanciulli vogliono cogliere

i bianchi confetti della grandine

sulle lastre dei balconi.

La grandine è il trofeo

dei santi maligni di giugno

e noi siamo i fanciulli

con loro alleati

tanto da sorridere

sulle terre schiaffeggiate.

Ma così non si piegano gli eroi

con la nostra canzone scellerata.

Nei padri il broncio dura così a lungo.

Ci cacceranno domani dalla patria,

essi sanno aspettare il giorno del giudizio.

Ognuno accuserà. Dirà la sua

anche la vecchia sbiancata dai lampi:

lei contro la grandine

spifferava preghiere sul grembo

dalla porta a terreno della casa.

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II ed. dicembre 19564 di E’ fatto giorno con
10 Tavole di Aldo Turchiaro, p. 65-66
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«I padri della terra se ci sentono cantare» è la lirica che compone la quarta sezione della prima parte di «E’ Fatto Giorno».
I padri della terra sono i contadini. «Della condizione reale e psicologica dei contadini lucani degli anni quaranta il poeta coglie sociologicamente le più stridenti contraddizioni, le avverte e rappresenta poeticamente, le determina con la parola e l’azione politica. E le fa esplodere» (Giovanni Battista Bronzini, L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Edizioni Dedalo, Bari, 1987, p. 113).
Santi e padri sono i contadini (si legga nella sezione «Capostorno» la poesia «I santi contadini di Matera». Santi e padri, continuando a citare Bronzini, «in quanto professarono la religione del lavoro e della terra: «il lavoro – come egli stesso annotò tra i pensieri da svolgere nell’Uva puttanella [Uno si distrae al bivio, p. 107 ]«è un richiamo della terra che ci vuole sempre più in profondo» (quasi eco del principio cristiano del nostro ritorno alla terra generatrice, a cui è strettamente collegato il successivo pensiero: «Gli animali e i prodotti della terra sono la misura del nostro essere».
I passi citati sono tratti da un capitolo dell’opera di Bronzini intitolato Religione della terra ed esistenza contadina (pp. 113 – 121), che è fondamentale per la comprensione di gran parte della poetica scotellariana.
Una giovane studiosa di Scotellaro, Francesca Cosentino, scrive «La sua [di Rocco Scotellaro] poesia è allo stesso tempo racconto ed autobiografia. Scrive di altri, ma scrive anche e soprattutto di sé stesso e a sé stesso. Scrive di una condizione definita contadina che è, in realtà, una condizione sociale e culturale di tanti paesi della Lucania, della Campania, della Calabria e di ogni paese dove è debole il tessuto economico a prevalenza agricola. Avendo scelto la politica come momento di grande impegno nella sua vita, certamente trasferisce la politica nella poesia. Ma, la politica entrata nei versi di Scotellaro non è ideologia, né dottrina o teoria, è pragmatismo, è lotta di ogni giorno, è il fare piccole cose, è strumento di cambiamento effettivo ed efficace. A partire dalla sezione Capostorno e a continuare fino alle prime liriche della seconda parte della raccolta, l’«io» si amplia a poco a poco nel pronome «noi» come se il poeta volesse dimostrare di condividere la medesima sorte con i suoi contadini …» (in «Rocco Scotellaro sindaco socialista, poeta, saggista» _ Tesi di laurea magistrale in «Storia della critica letteraria italiana», p. 57 (tesi inedita, conservata nel Centro di documentazione «Rocco Scotellaro e la Basilicata nel secondo dopoguerra» e di cui ho copia, donatami da Francesca, che ringrazio).
 

 

 

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