Rocco SCOTELLARO, MIO PADRE
ROCCO SCOTELLARO –E’ FATTO GIORNO – NEVE
MIO PADRE
Mio padre misurava il piede destro
vendeva le scarpe fatte da maestro
nelle fiere piene di polvere.
Tagliava con la roncella
la suola come il pane,
una volta fece fuori le budella
a un figlio di cane.
Fu in una notte da non ricordare
e quando gli si chiedeva di parlare
faceva gli occhi piccoli a tutti.
A mio fratello tirava i pesi addosso
che non sapeva scrivere
i reclami delle tasse.
Aveva nelle maniche pronto
sempre un trincetto tagliente
era per la pancia dell’agente.
Mise lui la pulce nell’orecchio
al suo compagno che fu arrestato
perché un giorno disperato
mandò all’ufficio il suo banchetto
e sopra c’era un biglietto:
«Occhi di buoi
fatigate voi».
Allora non sperò più
mio padre ciabattino
con riso fragile e senza rossore
rispondeva da un gradino
‘Sia sempre lodato’ a un monsignore.
E si mise già stanco –
dal largo mantello gli uscivano gli occhi –
a posare sulla piazza, di fianco,
a difesa degli uomini che stavano a crocchi.
E morì – come volle – di subito,
senza fare la pace col mondo.
Quando avvertì l’attacco
cercò la mano di mamma nel letto,
gliela stritolava, e lei capì e si ritrasse.
Era steso con la faccia stravolta,
gli era rimasta nella gola
la parola della rivolta.
Poi dissero ch’era un brav’uomo,
anche l’agente, e gli fecero fratuono.
(1948)
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II ed. dicembre 1954 di E’ fatto giorno
con 10 Tavole di Aldo Turchiaro, p. 56-57
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«Mio padre» è la terza poesia della sezione «Neve» dedicata al padre di Rocco, del quale traccia la biografia, dopo averlo ricordato, nella stessa sezione, nella ricorrenza del sesto anno dalla morte con la poesia «La benedizione del padre» ed essersi scusato se non lo saluta quando passa davanti al cimitero per la passeggiata («Per il camposanto»).
«Mio padre» è una bellissima poesia, fra le più conosciute di Scotellaro. Dopo la stupenda apertura ( Mio padre misurava il piede destro /vendeva le scarpe fatte da maestro / nelle fiere piene di polvere ), nella seconda e terza strofa il racconto sembra prendere una piega epica: (Tagliava con la roncella / la suola come il pane / una volta fece fuori le budella / a un figlio di cane. / Fu in una notte da non ricordare / e quando gli si chiedeva di parlare / faceva gli occhi piccoli a tutti). Ne parla, invece, proprio Rocco.
«« Una sera, tu ti eri innamorato della serva del sindaco, che era di un paese della marina, bellissima a meraviglia, ti venne in mente di portarle la serenata.
C’era un pretendente di lei che aveva un suo zio anch’egli al servizio del Sindaco. Quando la serenata finì e il sindaco venne fuori con l’orciuolo pieno di vino per complimentare i suonatori, era presente il domestiico; al giro l’orciuolo fu subito vuoto e mancava il bicchiere per il domestico. – Te lo farò uscire di sangue! – così ti disse. Egli solo sapeva per chi andava la serenata, non per il sindaco.
Tutto finì. Il pretendente andò da suo zio: – Hai visto, lui porta le serenate e tu niente mi fai fare, vedremo chi la vincerà.
– Togliti tu, me la vedo io, con la sua pelle si farà le scarpe.
Questo domestico, scornato, quella stessa sera volle mettere a terra il suo piano di vendetta. Era ammogliato, ma non si esclude che, fingendo di dare la sua giovane bellissima collega al nipote nutrisse per lei una nascosta passione. Si armò dell’accetta e girava per la via centrale dalla piazza alta a quella bassa.
Alla sera a notte, Carmela disse a zio Innocenzo:
– Cugino, va a prendere Pietro con la lanterna al Seminario.
Pietro, suo marito, faceva il cuoco ai seminaristi.
Mentre zio Innocenzo entrava al seminario, si sentì chiamare e il servo del sindaco lo afferrò alle spalle:
– Dov’è tuo fratello?
– Che ne devi fare ?
– Gli devo fare la pelle.
– Tu? – fece zio Innocenzo alzando la lanterna e nascondendosi la mano offesa. Il servo gli ruppe la testa con un’accettata, da terra lo presero alcuni amici e lo ricoverarono in casa loro.
– Lo sapesti, corresti al punto vicino al Seminario e trovasti il servo che ti mise in mezzo alle gambe e ti ferì al collo, ma allora ti sentisti in petto il coltello, che venne fuori da sé dalla tasca della giubba: spingendo la mano per sotto, il coltello aprì il ventre del servo e uscirono gli intestini. [ … ]
Tutti vi vollero bene, i calzolai, i contadini, le autorità, il segretario comunale, il prete, la moglie dell’ucciso, che venne dal presidente a scoprirsi la veste per far vedere i lividi avuti dal marito. Così arrivò l’assoluzione per legittima difesa, la banda calò al ponte del fiume a suonare il saluto ufficiale e il ritorno alla libertà. C’era il clarinetto e c’era il nipote del servo ucciso, che aveva preso il posto del servo ucciso, che aveva preso il posto di zio Innocenzo a suonare il tamburo.»» (Rocco Scotellaro, L’Uva puttanella .Contadini del Sud, Editori Laterza, Bari-Roma, 2000, pp. 8 – 10).
Nella terza strofa Rocco ricorda il padre giovane e il suo temperamento ribelle specie contro l’ingiustizia fiscale e la prepotenza dell’agente delle tasse. Invecchiando subentrano la stanchezza e la delusione, e anche nella poesia si spegne l’aria iniziale in cui si specchiava la figura del maestro calzolaio. Ora è un ciabattino, che non spera più ( Allora non sperò più / mio padre ciabattino). La vita degrada verso la morte e la poesia nel distico finale registra uno scarto stilistico.
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