Rocco SCOTELLARO, LA BENEDIZIONE DEL PADRE
ROCCO SCOTELLARO – E’ FATTO GIORNO – NEVE
LA BENEDIZIONE DEL PADRE
Oggi fanno sei anni
Che tu m’hai lasciato, padre mio.
Attento, dicesti, figlio mio
in questo mondo maledetto.
Mi hanno messo le manette già una volta,
sto bussando alle locande per un letto
ed arrivo così lontano
che tu pare non sia mai esistito.
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II ed. dicembre 1954 con
10 Tavole di Aldo Turchiaro, p. 52
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«La benedizione del padre» è la terza poesia della sezione «Neve», che chiude un triduo di affetti familiari: «Per il Camposanto», «A una madre», «La benedizione del padre».
Rocco avverte la mancanza del padre. La sua morte produce nel poeta un vuoto non solo affettivo, che lo disorienta e gli impedisce di trovare la giusta direzione della vita: pare essere venuta meno la guida, il modello.
Luciano Ladolfi («Rocco Scotellaro: l’enigma del Neorealismo», sito atelier 35.pdf) nota che la sensazione di instabilità «Questi mancamenti, / questa fuga del sangue» («Tra quattro pareti», Tutte le poesie, Oscar Mondadori 2004, p. 92) si manifesta più volte nella poesia di Scotellaro. Per esprimere questa condizione esistenziale del poeta, Ladolfi parla di manque-à-être, intraducibile espressione della letteratura psicanalitica, dovuta a Lacan, e cita diversi passi.
In «Eli Eli» (E’ fatto giorno, 1954, p. 99) Scotellaro rievoca una scena infantile, in cui evidenzia il bisogno di affetto e di protezione:
mi strinsi alle sue maniche come
le colombe si aggrappano agli orli.
E tante volte poi
richiamato a guardare nel vuoto
io fanciullo io solo
dato al giro puntuale della giostra.
[…]
Padre, Padre
perché tu m’hai abbandonato!
La desolazione dell’abbandono in «America scordarola» (Tutte le poesie, 2004, p. 77) viene rappresentata nella figura dell’emigrante che, lasciando il paese, non vede crescere il figlio:
noi vedremo giocare il tuo bambino
alla lippa intorno alle caldaie
che accolgono l’acqua piovana.
Ma tu la mano non gli tenderai,
se gl’infiggono i chiodi i piedi scalzi,
con una busta di pesos.
E, a sua volta, il figlio, crescendo, invano avvertirà il bisogno di un padre capace di «placare le sue ali goffe / come di cetonia catturata / che vola legata al filo».
La desolazione diventa tragedia per gli orfani e la vedova nella composizione «La fiera» (E’ fatto giorno, 1954, p. 74) dedicata a un caduto sul fronte greco (che di Rocco era cognato, marito della sorella Antonietta):
e voi bimbi aspettate
la motocarrozzetta, e tu, Angela,
il ferro piccolo da stiro
dal babbo che vi disse si partiva
alla fiera di Madonna del Monte
nella convalle tra Gròttole e Salandra.
La percezione della mancanza assume la configurazione della malaria che ha colpito il salariato, il quale «non ha visto il fiorire del tramonto / quando i cani lamentano /e la nuvola cala sull’addiaccio» («La mandria turbinava l’acqua morta», E’ fatto giorno, 1954, p. 76) e si traduce anche nel vuoto paradossale provocato dalla mancanza di un luogo, di una famiglia, di un amore stabile, «senza fare la pace col mondo» («Mio padre», ivi, pp. 56-57): l’espressione attribuita al padre può essere assunta come emblema esistenziale del poeta stesso.
In terzo luogo, egli avverte la personale carenza nel definire il senso della vita («L’acqua piovana» (Tutte le poesie, 2004, p. 38):
Dalla festa dei cieli ove ritornerete
dite se è stato uno scherzo le case
fatte e rifatte e ancora da rifare,
i pastori ammolliti nelle giacche,
le vigne scarmigliate e le greggi
menate nel fiume a pascolare?
Altri passi in cui la “mancanza” viene percepita: («Tu non ci sei e non ci sarai mai più, / sono tornato per vedere senza rimedio la casa vuota», «Tu non ci sei» (E’ fatto giorno, 1954, p. 201); «Ora che ti ho perduto come una pietra preziosa / so che non ti ho mai avuta né spina né rosa» («Ora che ti ho perduta» (ivi, p. 202); talvolta viene percepita nel paesaggio: «ed un bimbo guarda ai vetri / l’uccellino che non c’è» («Pioggia settembrina», Tutte le poesie, 2004, p. 156).
Queste considerazioni inducono Ladolfi a rivedere uno dei topoi della critica ufficiale che considera la chiave della poesia di Scotellaro nell’opposizione tra mondo contadino e mondo cittadino, tra attività rurali e attività industriali, tra paese ed emigrazione. Indubbiamente tali tematiche sono presenti, vive ed operanti, ma, a ben considerare, esse si presentano come inveramento di situazioni esistenziali. E il manque-à-être esteso anche all’aspetto morale:
Con la neve si para la tagliola
e si aspettano i gridi dei fringuelli.
La maestra ai bimbi della scuola
legge un verso d’amore per gli uccelli.
Mi piacevano i versi e la tagliola.
Ne «I Versi e la tagliola» (E’ fatto giorno, 1954, p. 182) Scotellaro rivela un’acuta consapevolezza della tragedia di chi si trova nella condizione esistenziale di uccidere gli uccelli mediante la cacciagione per sopravvivere, provando contemporaneamente un moto d’affetto per loro.
E proprio per questa duplicità i suoi versi non proclamano certezze, ma «l’esatta angoscia della sua continua incertezza, della sua inesorabile distrazione»[1], da intendersi come lacerazione interiore provocata dalla mancanza di via d’uscita.
È un pessimismo di fondo che alligna nei versi, non in forma esclusiva, e qui con la cadenza languida della cose ineluttabili: «Vedere morire le cose / proprio nei giorni di sole / buoni ai nostri fidanzamenti» («Portici primo aprile», E’ fatto giorno, 1954, p. 200)[2].
«Vi sono molte strade a chiamarmi: io devo fuggire da questo mondo» scriveva il poeta il 4 ottobre 1948 a Vittoria Botteri. Non a caso Franco Vitelli stesso aggiunge: “Fa bene Raffaele Nigro a lamentare che «ancora negli anni Ottanta la critica […] non coglieva la profonda inquietudine nata da ragioni esistenziali», a patto però di non creare una frattura insanabile rispetto all’uomo impegnato. Voglio dire che l’inquietudine poteva nascere, anche dal modo di rapportarsi con i contadini. Ciò che permea molta parte della poesia di Scotellaro, e fa affiorare il risvolto di una coscienza esitante, è l’intera contraddizione che nasce dalla rinuncia a se stesso per abbracciare intera la causa degli oppressi» (Franco Vitelli)[3].
E Carlo Muscetta si domanda: «Ma perché questi temi diffusi nella letteratura di questi anni, condannata ai «calzoni corti» dagli stessi miti del decadentismo che l’avevano allevata, divenivano per Scotellaro una sorgente viva di poesia?»[4].
E la risposta può essere prospettata non nelle suggestioni letterarie e neppure negli ideali politici quanto piuttosto nel rapporto del poeta con se stesso e con il reale. Il fatto è che in lui, oltre al disagio storico, è viva ed operante una componente «esistenziale » che oggi si può rinvenire senza temere scomuniche ideologiche; Levi per primo si è dichiarato pronto a recepirne il valore riconoscendo che l’opera di Scotellaro rappresenta una «realtà vera che va al di là del suo mondo di allora […] e […] parla sempre più chiaramente, in un modo nuovo, non solo della Lucania e del Mezzogiorno, ma della vita dell’uomo e della sua pericolante giovinezza» (Franco Vitelli)[5].
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[1] DONATO VALLI, Scotellaro al bivio della scelta, in Scotellaro trent’anni dopo, Atti del Convegno di studio,Matera, Basilicata editrice, 1991, p. 299.
[2] FRANCO VITELLI, Postfazione, Rocco Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, op. cit., p. 342.
[3] Ibidem, p. 340. La citazione è tratta da RAFFAELE NIGRO, Rocco Scotellaro. È fatta notte sul poeta non solo contadino, «La Gazzetta del Mezzogiorno, 20 marzo 2003.
[4] CARLO MUSCETTA, Rocco Scotellaro, Novecento. I contemporanei, Milano, Marzorati, 1979, vol. VII, p. 6514.
[5] FRANCO VITELLI, Postfazione, Rocco Scotellaro, Tutte le poesie 1940-1953, op. cit., pp. 338-339; il testo citato si riferisce a CARLO LEVI, Prefazione, Uno che si distende al bivio, Roma-Matera, Basilicata editrice, p. V.
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