Pubblico nella Sezione «Antologia della civiltà contadina» il saggio di Mario Alicata «Il meridionalismo non si puà fermare e Eboli» in Cronache Meridionali, 1954, poi in Scritti letterari, Milano, il Saggiatore, 1968 e in Omaggio a Scotellaro, Lacaita editore, Manduria, 1974, pp. 133 ss. Al saggio premetto una breve presentazione dell’Autore, del quale altre volte ho scritto su questo blog, ponendo in rilievo che Alicata combattè una guerra contro il meridionalismo di Levi – Scotellaro – Rossi Doria.

 

     L’aspetto essenziale della personalità di Mario Alicata (1918 †1966), critico letterario, giornalista e politico – che tratteggio avvalendomi prevalentemente del libro di Leonardo Sacco, L’Orologio della Repubblica, Argo, Lecce, 1996 – fu il suo essere un «rivoluzionario professionale», convinto che l’unica via per essere coerentemente un “filosofo moderno”, anche al livello della moralità individuale, fosse trasformare il mondo e non soltanto conoscerlo.

     Alicata si fa conoscere ben presto come «cazzottatore» dalla vena pedagogica, al punto di dichiarare di non essersi sorpreso del distacco dal PCI, nel 1956 – dopo i fatti d’Ungheria –, di certi vecchi amici e compagni, perché «la ragione vera di questo distacco va a mio avviso cercata nel fatto ch’essi non sono mai vissuti nel Partito comunista con quella pienezza di vita intellettuale e morale che unicamente (a mio avviso almeno) poteva trasformare davvero un intellettuale della nostra generazione, imbevuto di una certa cultura, partecipe cioè d’una certa crisi della cultura occidentale contemporanea, in un militante rivoluzionario» (M. Alicata, La generazione degli anni difficili, Laterza, Bari, 1962, pp. 59-60).

     Egli aveva una mistica visione dell’URSS «patria del socialismo», al punto da asserire ancora nel 1952 che «in questo Paese, oggi, l’uomo è più libero che in tutti i paesi del mondo» e che, meglio «questo è il primo paese della storia del mondo in cui tutti gli uomini siano, finalmente liberi».

     Di lui suoi compagni di lavoro hanno ricordato «la furia polemica», la spietatezza delle condanne, l’attitudine rissosa» e che per lui «la vocazione alla persuasione assumeva i caratteri ricattatori della fedeltà, il ricorso non ultimo all’autorità delle scelte del partito, alla barriera tra amici e nemici. Cioè una buona dose di terrorismo». (T. Chiaretti, Alicata, il comunismo a una dimensione, La Repubblica, 19.10.1977).

     Torna opportuno, a questo punto, ricordare un epigramma di Franco Fortini ne «L’ospite ingrato»: «C’era a quei tempi, / ricordi, /nel Comitato Centrale /Mario Alicata. /Falsa faccia di vera tragedia /odiava molto, /molto ammoniva o con aria severa /minacciava. /La Causa / è stata con lui generosa: /dice di rispettarne la memoria».

     All’attività giornalistica e parlamentare si accompagnò un’intensa attività politica nel Mezzogiorno: membro della commissione meridionale del partito e del direttivo della federazione comunista di Napoli, nel 1948 ebbe dal partito l’incarico di seguire e coordinare le edizioni meridionali dell’Unità e di dirigere, con Giorgio Amendola, il settimanale comunista di lotte meridionali La Voce del Mezzogiorno. Dopo le elezioni del 1948, fu nominato segretario regionale del partito comunista in Calabria.

     Nel corso del 1949 partecipò alla campagna per la convocazione delle Assise della rinascita meridionale culminate nel convegno di Roma del gennaio 1950 dove fu decisa la costituzione del Comitato nazionale per la rinascita del Mezzogiorno (della cui segreteria entrò a far parte).

     Dal 1954 al 1964 fu direttore di Cronache meridionali, dapprima con Giorgio Amendola e Francesco De Martino, quindi solo con Amendola, e dal 1961 con Amendola e altri.

     Nel 1955 Alicata fu chiamato a dirigere, in sostituzione di Carlo Salinari, la commissione culturale del PCI (e mantenne l’incarico fino al 1963).

     Nonostante l’intensa attività politica, non aveva trascurato negli anni precedenti di partecipare al dibattito culturale, con la convinzione che fosse compito degli intellettuali partecipare in modo attivo e conseguente all’opera di ricostruzione del paese. Da questa convinzione e dalla certezza che non potesse esistere un’ arte “umana”, che non abbia come obbiettivo una conquista di verità. e che non vi fosse alcun bisogno di un’arte che non aiuti gli uomini in una lotta conseguente per la giustizia e la libertà, aveva dato inizio a quella polemica che si sarebbe ampliata in un serrato confronto sui problemi del rapporto politica-cultura fra Palmiro Togliatti ed Elio Vittorini.

     La necessità dell’impegno politico degli intellettuali anche attraverso i loro prodotti letterari e artistici, era rimarcata dall’Alicata con ancor più vigore in merito ai problemi del Mezzogiorno e alla cultura meridionale, manifestandosi in particolare nella polemica con quanti esaltavano o consideravano la “civiltà contadina meridionale” in sé: «la lotta per il riscatto del Mezzogiorno – affermava infatti nel 1954, in polemica con Carlo Levi e Rocco Scotellaro – non può risolversi che nello sviluppo organizzato, anche sul terreno delle coscienze, di un grande movimento popolare non solo di contadini, ma di intellettuali e in genere di ceto medio urbano, che può estendersi fino a comprendere la stragrande maggioranza delle popolazioni delle regioni meridionali e delle isole, sempre a condizione però che tale movimento comprenda l’esigenza dell’alleanza con la classe operaia e ne accetti la direzione, in quanto solo con questa alleanza e sotto questa direzione può essere condotta fino in fondo, conseguentemente, la lotta contro i nemici storici del Mezzogiorno: il blocco agrario-industriale, l’imperialismo italiano e straniero »

     Contro il meridionalismo di Levi-Scotellaro-Rossi-Doria Alicata combatté una guerra. Non erano atti di guerra gli argomenti, l’espressione delle proprie convinzioni o di quanto era nelle direttive del partito – cosa pienamente legittima, come ho già sostenuto in altra parte di questo blog -, ma l’ira, l’indignazione, la ferocia con cui gli argomenti erano sviluppati. Fu giustamente notato che tutta quell’ira, indignazione, ferocia era la caratteristica di una lotta politica volta a precludere la discussione e dettare come esclusiva la linea del gruppo dirigente comunista. L’aggressione di Alicata alle posizioni di Levi-Scotellaro – Rossi Doria (nome che il polemista non manca mai di introdurre sempre col titolo accademico di ‘professore’), grazie all’ampiezza del circuito di stampa del partito, costituirà a lungo una sorta di calco polemico per molti propagandisti periferici.

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Mario Alicata «Il meridionalismo non si può fermare e Eboli»

     Intorno alla figura e all’opera di Rocco Scotellaro, il giovane scrittore lucano morto a trent’anni e balzato improvvisamente alla fama dopo la pubblicazione postuma di due volumi – quello (È fatto giorno) in cui Carlo Levi ha raccolto la maggior parte delle sue poesie edite ed inedite, e quello (Contadini del Sud) in cui il professor Manlio Rossi-Doria ha dato alle stampe una parte del materiale vario che lo Scotellaro andava raccogliendo per una inchiesta sulla vita e la cultura dei contadini meridionali – si è determinata una diversità di apprezzamenti e di giudizi anche nel seno degli ambienti politici e culturali più vicini allo Scotellaro, e dove dunque coloro che non consentono completamente con l’opera sua, sono mossi evidentemente da motivi ben diversi da quelli che hanno dettato alla Gazzetta del Mezzogiorno due stroncature rabbiose quanto idiote del volume Contadini del Sud[1].

     È certo un fatto che di Rocco Scotellaro si discute abbastanza, anche al di fuori del dibattito apertosi sulla stampa, specialmente in conseguenza dell’intelligente e vivace campagna pubblicitaria condotta intorno al suo nome dalla Casa Editrice Laterza in molte città del Mezzogiorno e per le inevitabili ripercussioni provocate dall’inaspettata, per i più, assegnazione alla sua memoria del Premio Viareggio 1954. Né la discussione si può considerare puramente «letteraria », ché in questo caso essa sarebbe in un certo senso estranea al programma e all’indole di questa rivista, e noi non saremmo tornati, su queste pagine, ad allargare un discorso già da noi fatto altrove. Ma il problema degli orientamenti attuali degli intellettuali, del Sud e non del Sud, nei confronti della questione meridionale, e in genere contadina, non può essere estraneo al movimento democratico e socialista che agisce per la soluzione, appunto, della questione meridionale nel quadro della lotta per il rinnovamento democratico e socialista della società italiana: e di qui la ragione di questo nostro esame, in cui ci siamo proposti non di compiere un esame isolato dell’opera dello Scotellaro, ma di sviluppare un ragionamento di carattere più generale, che secondo noi può servire a spiegare meglio certi dissensi, e a superarli, una volta precisato «il punto di vista» dal quale si colloca chi, nell’apprezzamento dell’opera letteraria e della personalità dello Scotellaro, ha creduto opportuno di sollevare alcune riserve.

     Non è questa di Scotellaro, infatti, in questi anni recenti, la prima occasione in cui si è potuto notare, di fronte a libri che hanno comunque per oggetto il Mezzogiorno e la questione meridionale, o ad opere poetiche ed artistiche che dall’ambiente meridionale traggono ispirazione, una tendenza ad una valutazione genericamente favorevole, anche da parte di critici di solito ben altrimenti vigili e severi. Questa tendenza nasce evidentemente dal grande interesse che i rapidi mutamenti verificatisi, in questo secondo dopoguerra, nella situazione tradizionale di immobilità e arretratezza politica delle nostre regioni, hanno suscitato in tutti gli ambienti politici e culturali del paese, e al quale, negli ambienti del movimento democratico e socialista, si accompagnano sentimenti di profonda solidarietà, simpatia sincera, schietto entusiasmo per i successi conseguiti dai lavoratori meridionali, insieme col giusto proposito « pratico» di dar rilievo a quanto può servire a ribadire il carattere nazionale, e la drammaticità del problema meridionale.

     C’è tuttavia da dire che questa ben comprensibile tendenza è sembrata qualche volta farsi più accentuata a causa di un’altra tendenza meno legittima, e che è quella di considerare il Mezzogiorno, sia da parte di certi autori, sia da parte di certi lettori, come un enigma ancora da decifrare, come una terra arcana e misteriosa ancora tutta da studiare e tutta da rivelare nella sua «essenza» nascosta e nelle sue «apparenze» molteplici, insomma, per usare una efficacissima immagine di Gramsci, come un lontano « Giappone », del quale basta occuparsi con accenti di umana simpatia, senza il carattere odioso e scandalistico, per esempio, di certi libri di Malaparte o alla Malaparte, per essere subito catalogati fra gli autori « meridionalisti ».

     Senza dubbio in questa tendenza si riflette anche, sul piano della coscienza, la frattura storica determinatasi nel corso dei secoli fra il Nord e il Sud d’Italia, e che i cento anni circa (che tanti oramai sono!) di vita unitaria, hanno per certi aspetti (poiché certi processi « unificatori » hanno avuto luogo, ed è dilettantesco ignorarlo) vieppiù accentuata. Sarebbe anzi interessante analizzare quanto v’è in questa tendenza di «spontaneo» e quanto, invece, essa non sia il frutto dell’opera metodica di direzione culturale dei gruppi dominanti italiani, e specialmente dell’opera metodica di direzione culturale del Croce, che anche per gli sforzi da lui compiuti per deviare la cultura da una esatta considerazione del problema meridionale fu definito da Gramsci «il reazionario più operoso della penisola», «la più grande figura della reazione italiana ». Questa analisi porterebbe infatti, tra l’altro, a meglio comprendere come, se è vero che nel patrimonio tradizionale della cultura media italiana tutto ciò che potrebbe servire a svelare (non solo nel Nord, si badi, ma in primo luogo nello stesso Mezzogiorno) la sostanza del problema meridionale è stato sempre opportunamente diluito, accantonato, nascosto, non è vero altrettanto, però, che gli strumenti «tecnici», il «materiale culturale», di cui disponiamo per la conoscenza della realtà meridionale siano meno scarsi di quelli di cui disponiamo per altre questioni della nostra vita nazionale, anche se gli uni e gli altri soffrono degli stessi limiti tipici propri della cultura italiana tradizionale. Semmai, anzi, ci sarebbe da dire proprio il contrario: che non c’è, per esempio, nella cultura borghese italiana moderna forse un altro filone così ricco di fermenti ideali progressivi come quello «meridionalista» classico (dagli antifeudisti napoletani del secolo XVIII ai liberali illuminati d’ogni parte d’Italia che, nella seconda metà del secolo XIX, «scoprirono» appunto la questione meridionale); e che, nel- l’àmbito più strettamente letterario, non c’è niente di simile al romanzo popolare di tipo sociale o al romanzo d’arte verista-naturalista, fiorito appunto nel Mezzogiorno e ispirato ai temi della vita meridionale, nella seconda metà del secolo XIX (si pensi per un verso al Mastriani, e per l’altro verso al Verga, al De Roberto, al Capuana, alla Sera o e anche al Pirandello di alcuni romanzi e di moltissime novelle). Se poi si passa al campo socialista, se è vero che alla fine del secolo XIX proprio « il Partito socialista fu in gran parte il veicolo … nel proletariato settentrionale» di tesi reazionarie come quelle positiviste, postulanti una inferiorità biologica, razziale, delle popolazioni meridionali (lasciamo da parte il fenomeno sindacalista che – aggiunge Gramsci – fu «l’espressione istintiva, elementare, primitiva, ma sana, della reazione operaia contro il blocco della borghesia e per un blocco coi contadini e in primo luogo con i contadini meridionali») è anche vero che in séguito, e soprattutto con Gramsci e per merito di Gramsci, proprio lo studio della questione meridionale è stato uno dei banchi di prova più alti del vigore scientifico e della originale fecondità del pensiero marxista italiano, uno dei campi dove maggiormente si è dispiegato in Italia, il carattere creativo, vivente, della nostra dottrina[2].

     Eppure ciò non impedisce che quella tendenza, di cui dicevamo, a considerare il problema del Mezzogiorno come qualcosa ancora di oscuro o almeno di confuso, non torni spesso a manifestarsi anche nel campo democratico e socialista, con la conseguenza soprattutto dinnanzi ad opere artistiche e letterarie[3], di metterne in luce soltanto gli elementi positivi, di denuncia, come si dice, della realtà meridionale, senza compiere la necessaria azione di approfondimento critico per svelarne, laddove ci siano, anche gli elementi negativi, e dunque il carattere contraddittorio. Come se da un lato questo non dovesse essere sempre, in ogni occasione, il giusto atteggiamento del marxista dinnanzi ad ogni opera artistica e letteraria, quali che siano gli orientamenti e gli intenti dell’autore, ma specialmente come se lo sviluppo del movimento reale per il riscatto del Mezzogiorno non richiedesse, oggi, che la coscienza di tutti i protagonisti di questa lotta (e nel Sud e nel Nord) sia portata oltre la pura e semplice denuncia, oltre la pura e semplice commozione sentimentale per la miseria e l’arretratezza del Sud, fino al livello di una interpretazione storica della «questione meridionale».

     Tipico fu in questo senso, per esempio, l’atteggiamento assunto dai compagni della terza pagina de l’Unità di Milano e anche, allora, da Carlo Salinari, dinanzi ad un libro su Napoli di Anna Maria Ortese, dove l’informazione spicciola (per non dire il pettegolezzo) su alcuni ambienti ristretti e marginali della vita napoletana, si mescolava ad alcune « scene di miseria napoletana» le quali non si allontanavano dal naturalismo se non per cadere nelle deformazioni di tipo espressionista ed esistenziale. Ebbene, ci volle del bello e del buono per persuadere quei compagni (e credo che alcuni non ne siano ancora persuasi), benché si tratti di critici altrimenti vigorosi e rigorosi, come Il mare non bagna Napoli non fosse un libro realistico in quanto esso si limita ad isolare soltanto gli aspetti negativi, passivi, della vita del popolo napoletano, e li isola, inoltre, nel quadro di uno schema fra i peggiori e più invecchiati del naturalismo, quello razzistico, anche se l’autrice tenta di rinverdirlo aggiungendoci un po’ d’angoscia esistenziale e un po’ d’esaltazione espressionistica, e come, se davvero essi sentissero il bisogno di una rappresentazione, e in termini di pura e semplice denuncia, della miseria napoletana, avrebbero potuto rivolgersi alle pagine sempre efficaci della Serao o del Fucini, o meglio ancora ai classici saggi del Villari e della White Mario, dove almeno di «destino razziale» non c’è traccia, e c’è invece una vigorosa polemica contro i sistemi di amministrazione e di governo dell’epoca.

     Si dirà che si tratta, in fondo, di inezie, di particolari, di cose di scarsa importanza «pratica» comunque. E invece è e non è così. Il fermarsi, nella considerazione della miseria di Napoli e del Mezzogiorno, agli aspetti superficiali, « pittoreschi », a certe manifestazioni patologiche soprattutto, non può per esempio favorire giudizi non esatti sugli sviluppi della situazione politica meridionale, come è accaduto dinnanzi all’improvviso affermarsi, nel 1952, delle destre monarchiche e fasciste anche in strati fra i più miseri del Mezzogiorno? O non può perfino indurre, questo atteggiamento, in taluni casi, ad una certa incertezza dinnanzi ad equivoci provvedimenti legislativi (quali la Cassa del Mezzogiorno o le leggi cosiddette di riforma fondiaria) perché, si dice, essi servono «comunque» a far qualcosa, dànno « comunque» un po’ di terra e di soldi ai miseri del Mezzogiorno – senza approfondire invece in quale direzione tali provvedimenti si muovano e lo sviluppo di quali forze, all’interno della complessa società meridionale, intendano favorire?

     Queste osservazioni, del resto, valgono ancora di più, secondo noi almeno, per un altro filone « meridionalista» (o almeno considerato in genere tale) della cultura di questo secondo dopoguerra, che ha il suo esponente più rappresentativo in Carlo Levi e che qui ci interessa particolarmente in quanto dalle sue posizioni Rocco Scotellaro fu in parte senza dubbio influenzato, e in quanto dentro queste posizioni lo stesso Carlo Levi e il professor Rossi-Doria cercano oggi di riportare interamente il significato ideale della sua eredità letteraria. E che è un filone «meridionalista» curioso davvero, in quanto vorrebbe che non solo «Cristo», ma anche il moderno pensiero critico si fermasse «a Eboli», nel senso che esso ha lavorato – come ha osservato bene una volta Carlo Muscettà[4] – per « allontanare il Mezzogiorno più che l’India e la Cina» dal quadro della nostra conoscenza oggettiva.

     Diciamo subito, naturalmente, ad evitare equivoci o speculazioni non del tutto disinteressate, che le osservazioni che qui di séguito faremo non turbano affatto, però, il giudizio complessivo positivo che anche noi diamo della personalità e dell’opera pittorica e letteraria di Carlo Levi, il quale, fra gli intellettuali non marxisti, è senza dubbio fra quelli che, in questo secondo dopoguerra, dal Cristo si è fermato ad Eboli alla sala della recente Biennale d’arte di Venezia, hanno con più impegno assunto a tema principale della propria attività artistica il mondo contadino meridionale. Ma proprio per l’apprezzamento che diamo dell’opera di Carlo Levi e per la stima che nutriamo per lui, vorremmo dire proprio per il desiderio di vederlo schierato su posizioni, secondo noi, più esatte, e più utili alla causa del Mezzogiorno, noi non gli abbiamo mai risparmiato, quando lo abbiamo ritenuto necessario[5], anche la critica la più aspra: come è giusto, ci sembra fra compagni di lotta.

     Ciò premesso, fermiamoci ora a considerare per pochi istanti il Cristo si è fermato ad Eboli, opera senza dubbio artisticamente molto originale e la quale, cosa che più importa per la natura del nostro discorso, ha svolto un ruolo efficacissimo nella denuncia delle condizioni di miseria e di arretratezza del Mezzogiorno, ha dato un contributo sensibile, negli anni decisivi della caduta del fascismo e della nascita della Repubblica, ad una nuova, prima popolarizzazione del problema meridionale in strati molto ampi dell’opinione pubblica italiana e straniera, ha aiutato, nel momento del primo risveglio ad una nuova vita politica del Mezzogiorno, gruppi di piccola borghesia intellettuale delle nostre regioni a rendersi conto della condizione umana propria e dei propri simili. È chiaro, in questo senso, che Cristo si è fermato ad Eboli appartiene senza dubbio alcuno alla tradizione «meridionalista» ed anzi si riallaccia alle sue correnti più progressive. Ma detto ciò, non dovremmo forse fermarci a notare anche gli altri elementi che si ritrovano nella ideologia che sta alla base del libro del Levi, e che lo rendono, come del resto tutta la personalità e tutta l’opera letteraria e pittorica del suo autore, profondamente contraddittorio? Se infatti, nella rappresentazione dataci dal Levi del mondo meridionale, anzi del mondo contadino meridionale, hanno da un lato gran posto la denuncia della miseria in cui versano le nostre campagne, lo sfruttamento al quale i contadini sono sottoposti, le ingiustizie e le violenze attraverso le quali lo Stato borghese «mantiene» il Mezzogiorno, la critica di un’amministrazione corrotta; e poi l’odio istintivo dei contadini contro lo Stato fascista e contro i suoi rappresentanti locali (i signori, il podestà, il prete, etc.), la loro insofferenza verso un sistema fiscale che li dissangua e verso una pratica burocratica che li avviluppa in una rete inestricabile di carta bollata; dall’altra parte c’è l’enunciazione di una serie di tesi senza consistenza teorica, nelle quali si rivela chiaramente come sia estraneo al Levi ogni proposito di spiegare storicisticamente le ragioni dell’inferiorità sociale del Mezzogiorno e quindi di individuare le forze storiche che, oggi, possono spingere a soluzione la questione meridionale, e le vie per le quali ciò potrà avvenire.

     Tutte queste tesi, in definitiva, scaturiscono dal fatto che il Levi arriva a riconoscere sì il valore fondamentale del contrasto esistente, nella moderna società borghese, fra città e campagna, ma che di questa conseguenza della «prima grande divisione sociale del lavoro » egli non è capace di dare un’interpretazione dialettica e dunque non è capace né di indagarne l’origine, il significato e gli sviluppi reali, né di analizzare le forme storiche concrete in cui tale contrasto si manifesta oggi in Italia e di cui l’esistenza della questione meridionale è forse appunto l’espressione più tipica[6]. Tutto nel Levi si riduce, invece, ad una spiegazione metafisica, mistigheggiante, alla ipostatizzazione della «entità » campagna e della « entità» città: « Siamo anzitutto – egli dice – di fronte al coesistere di due civiltà diverse, nessuna delle quali è in grado di assimilare l’altra. Campagna e città, civiltà precristiana e civiltà non più cristiana stanno di fronte; e finché la seconda continuerà ad imporre alla prima la sua teocrazia statale, il dissidio continuerà ». Arrivati a questo punto, è naturale che le cose si facciano alquanto confuse. Come espressione della «civiltà cittadina», infatti, non solo il liberalismo e il fascismo, ma anche il socialismo risulta affetto di «teocrazia statale», e dunque, come lo Stato liberale e lo Stato fascista, neppure uno Stato socialista potrebbe risolvere il problema della campagna, il problema del Mezzogiorno. D’altro canto, potrebbe forse il problema essere risolto per iniziativa di questa «civiltà contadina» dove addirittura, secondo il Levi, non c’è ancora distinzione fra il regno dell’umano e il regno della natura? Evidentemente no; evidentemente il problema «non si può risolvere con le sole forze del Mezzogiorno: ché in questo caso avremmo una nuova guerra civile, un nuovo atroce brigantaggio che finirebbe, come al solito, con la sconfitta contadina e il disordine generale». E allora? Allora occorre soltanto «ripensare ai fondamenti stessi dell’idea di Stato, al concetto di individuo che ne è la base; e, al tradizionale concetto giuridico e astratto di individuo, sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e Stato».

     Ecco dunque finalmente, dopo sì lungo cammino, anche la soluzione del problema del Mezzogiorno ridotta ad una « sostituzione di concetti »; ed ecco nello sfondo ritornare, sul terreno della pratica, anche di fronte alla questione meridionale, quest’utopia di una classe dirigente costituita di politici « puri », di intellettuali illuminati, e non di « politicanti », di « trasformisti », di «luigini », i quali, armati soltanto della forza delle loro idee, dovrebbero essi riformare e ricostruire l’Italia: che fu l’utopia propria di numerosi esponenti della piccola borghesia intellettuale che allora militavano, come il Levi, nel Partito d’Azione e fu anche, occorre dirlo, il limite utopistico del pensiero di Guido Dorso, il quale, non portato dalla sua indole ai sogni poetici e alle formule mistiche, e già profondamente toccato dall’esperienza del Gobetti e sfiorato dall’insegnamento di Gramsci, da questa incapacità ad individuare con chiarezza le forze reali protagoniste della rivoluzione meridionale e italiana, ne ricavava però soprattutto uno stato d’animo di perenne inquietudine, di sempre raffiorante pessimismo.

     Comunque anche il Levi, per quanto confortato all’ottimismo dalla sua natura egocentrica ed «olimpica», nel Cristo si è fermato ad Eboli, piuttosto che incitare all’azione meridionalista concreta, all’azione rivoluzionaria quotidiana, arrivava in sostanza a predicare l’attesa della dorsiana «occasione storica»; mancata la quale, sia detto fra parentesi, nel senso almeno datole dal Dorso, non stupisce davvero che egli, dopo il 18 aprile 1948, finisse addirittura, ne L’orologio, per tradurre il fallimento delle sue speranze ed illusioni in una sorta di «qualunquismo di sinistra», dal quale poi tuttavia doveva rapidamente riuscire a trarsi – come testimonia fra l’altro la sua opera pittorica più recente.

     Ma per il séguito del nostro discorso non interessa ora tanto seguire il successivo sviluppo delle posizioni personali, artistiche e politiche del Levi, quanto piuttosto il sottolineare che proprio perché alcune delle tesi contenute nel Cristo in merito al problema meridionale e contadino, non erano il risultato di una sua elaborazione individuale, ma riflettevano uno stato d’animo diffuso in certi gruppi di piccola borghesia intellettuale, soprattutto meridionale ma non soltanto meridionale, esse, in forme varie e con diverse accentuazioni, hanno continuato a riaffiorare nelle posizioni culturali e prati- che di singoli, molto spesso appunto provenienti dall’ex Partito d’Azione, o comunque appartenenti alla cosiddetta «sinistra liberale», anche dopo che i migliori esponenti di quel partito erano stati indotti, dagli stessi sviluppi della crisi meridionale e italiana, a non guardare più il mondo camminare sulla testa, ma raddrizzato sui propri piedi, e dunque avevano cercato e trovato il loro posto di lotta nelle file del movimento operaio.

     Desideriamo tornare a sottolineare, però, come questa elaborazione di alcune delle tesi contenute nel Cristo si è fermato ad Eboli sia avvenuta in forme, e con accentuazioni e intenti molto diversi, talvolta anzi sostanzialmente opposti, cosicché sbagliato sarebbe considerare gli autori e i libri in cui esse raffiorano come appartenenti ad una stessa «corrente», ad un’unica «scuola».

     In senso schiettamente reazionario, per esempio, la tesi che la soluzione del problema del Mezzogiorno sarebbe da affidarsi ad un gruppo di «politici puri» che si pongano al di sopra delle classi, è stata rielaborata da Francesco Compagna e da altri pseudo «meridionalisti» di terza forza, i quali, pur non essendo cosi «puri» dal rifiutarsi di ricalcare le orme del più abietto conformismo governativo proprio dei vecchi «ascari » trasformisti, o di sollecitare dalla Cassa per il Mezzogiorno appoggi di natura varia e prebende, ci hanno però aggiunto di proprio la necessità di «sforbiciar » nel Mezzogiorno le due «ali politiche estreme », vale a dire di « sforbiciare » quel movimento popolare organizzato, diretto dalla classe operaia, che rappresenta il primo fatto veramente moderno, dopo secoli, nella storia delle nostre regioni. E in senso schiettamente reazionario – anche a giustificazione «ideale », com’è evidente, del proprio abbandono d’ogni residua posizione non diciamo rivoluzionaria, ma democratica – è stata largamente ripresa la tesi dell’«occasione perduta » dal professor Manlio Rossi-Doria; il quale, partito nel 1944 dal riconoscimento che «gli ordinamenti, i rapporti, la struttura sociale dell’agricoltura meridionale sono oramai in netto contrasto con le più elementari esigenze della civiltà, della produzione e della tecnica» e che dunque nelle campagne meridionali occorreva «prima di tutto (sottolineato da noi) spezzare la mostruosa costruzione dei rapporti di proprietà, dei rapporti sociali che si sono lentamente venuti formando» e che rappresentano oramai «un cerchio chiuso che riproduce miseria», nel 1948 (occhio alla data!) finiva col dichiarare di essersi invece convinto della «opportunità di una diversa politica, che è praticamente una politica di rinuncia ad una vera e propria riforma fondiaria », sia per «la effettiva complessità e la concreta resistenza al mutamento» sia (e diamo atto al professor Rossi-Doria della sua spregiudicata sincerità) per « il generale mutamento della situazione italiana dal 1945 ad oggi»[7].

     Non è nostro còmpito, almeno in questo studio, sottoporre ad un esame analitico tutte le originali enunciazioni « scientifiche» del professor Rossi-Doria[8]. Richiamiamo solo l’attenzione del lettore che non abbia presente il suo libro, come già in questo volume, e successivamente in altri scritti e conferenze dello stesso autore, al concetto della «occasione perduta» si accompagni qui un altro concetto, vale a dire quello della «concreta resistenza al mutamento» che si riscontrerebbe nelle campagne meridionali e che, secondo il professor Rossi-Doria, non verrebbe già soltanto dal cieco egoismo reazionario dei ceti possidenti, ma anche dalla « organica immobilità» del mondo contadino meridionale, da quel complesso di sentimenti, di attitudini fisiopsichiche, di tradizioni, proprie dei componenti una «società antica e ferma», come la società meridionale. Ora non c’è chi non veda, mi sembra, come anche qui il professor Manlio Rossi-Doria utilizzi in senso apertamente reazionario una delle tesi che, seppure con diverso spirito e certo soprattutto con l’intento di rivendicare polemicamente « l’autonomia spirituale» del Mezzogiorno dinnanzi al fascismo (il Cristo s’è fermato ad Eboli, scritto nel 1944, fu però concepito nel 1936), è contenuta nel famoso libro del Levi: vale a dire, che la civiltà moderna s’è fermata alle soglie del mondo contadino meridionale, e che di conseguenza questo appare chiuso in sé stesso, in una propria antica civiltà, refrattario ed ostile ad ogni «penetrazione dall’esterno» che non sia volta a creare una convivenza tra questo mondo, con tutte le sue caratteristiche culturali impossibili a mutarsi, e l’altro mondo, il mondo «cittadino », moderno.

     Del resto, se nel professor Rossi-Doria la paternità leviana di questa tesi è taciuta e se in lui c’è il tentativo di suffragarla con « originali » argomentazioni tecnico-economiche e di riferirla esclusivamente alla difficoltà o impossibilità di effettuare nel Mezzogiorno una avanzata riforma fondiaria di tipo moderno, più aper- to invece è il riferimento al Levi e ancora più reazionarie le prospettive che dalla sua tesi si traggono, in un giovane scrittore cattolico, Gianni Baget[9]. Il quale, se ha da rimproverare qualcosa al Levi, è che dalla sua «scoperta» del mondo contadino meridionale, egli non abbia avuto il coraggio di trarre tutte le logiche conseguenze, che sarebbero poi quelle di affermare che la via per il rinnovamento dell’Italia «non può fondarsi che sulla comprensione della natura e delle vocazioni delle varie componenti etniche e storiche del Paese», e che fra queste «vocazioni» in particolare conto bisogna tenere quella dei contadini del Mezzogiorno in quanto essi, pur «a prezzo della stasi totale », sono gli unici adavere autenticamente conservati «la tradizione antica ed i valori umani e civili», salvandosi dal «disordine» e dalla «anarchia » introdottisi nel mondo moderno dopo «il Rinascimento e la Riforma, Machiavelli e Lutero»!

     Ci si dirà a questo punto che certo non è responsabile il Levi delle conseguenze che per un verso il professor Rossi-Doria, e per l’altro verso il Baget, hanno tratto dalla sua visione poetica di un Mezzogiorno «fuori del tempo e della storia », dove ogni evento «non ha lasciato traccia, e non conta», dove «l’uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria», dove «ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, e non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico», in quanto essa tendeva alla denuncia di una condizione umana intollerabile e alla richiesta clamorosa di un suo mutamento.

     Ma in verità questa osservazione ha un senso fino ad un certo punto. In verità, anche a non considerare le tesi programmatiche, politiche, che sono apertamente enunciate, come s’è visto, nel Cristo s’è fermato ad Eboli, e a considerare la rappresentazione che esso ci dà del mondo contadino meridionale soltanto come «poetica», non si può non osservare che, anche artisticamente, tale rappresentazione è equivoca e si presta agli equivoci, proprio perché essa non è realistica, proprio perché spezza arbitrariamente i legami del Mezzogiorno con il resto del mondo nel tempo e nello spazio, e arbitrariamente cancella le intime contraddizioni, l’intimo processo di sviluppo, che anche nel seno della società meridionale c’è stato e c’è: aprendo cosi la stra- da, appunto, a speculazioni fantasiose e non «poetiche» come quelle del professor Rossi-Doria e del Baget.

     Orbene, non dovrebbe bastar ciò a metterei in guardia, e a mettere in guardia il Levi ed altri suoi e nostri amici e compagni, dal pericolo di non abbandonare mai, e nelle rappresentazioni poetiche del Mezzogiorno, e nel giudizio su queste rappresentazioni, il metro del realismo? Non dovrebbe bastar ciò a metterei in guardia, nello studio del mondo contadino meridionale, della sua storia, della sua cultura, dal pericolo di non tramutare mai la comprensione del mondo contadino meridionale e delle sue particolari tradizioni (comprensione che dev’essere propria di quanti si ribellano alle diverse ideologie reazionarie che hanno sempre voluto negare a queste tradizioni ogni posto nella storia e nel processo creativo della società italiana) in un « idoleggiamento» astratto di questo mondo e di queste tradizioni, finendo cosi, pur perseguendo lo scopo opposto, proprio col porli di nuovo fuori dal processo storico concreto?

     Non dimentichiamoci, del resto, neppure a questo proposito, dell’insegnamento di Gramsci, il quale, proprio nel momento in cui indicava l’esigenza di studiare il folclore non più «come elemento ‘pittoresco’» ma «come concezione del mondo e della vita, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo «ufficiali» (o in senso più largo, delle parti colte della società storicamente determinate), che si sono successe nello sviluppo storico », arricchiva la sua indicazione di una serie di considerazioni metodologiche, dalle quali mi sembra che anche per l’argomento del quale ci occupiamo possano ricavarsi alcuni suggerimenti. E precisamente: 1) che bisogna guardarsi dal postulare l’esistenza di un mondo culturale unitario sotto il nome generico di «mondo culturale» dei contadini o, peggio, della «società contadina» meridionale; 2) che bisogna invece studiare i diversi «mondi culturali» che si possono ricostruire nelle campagne meridionali nel loro sviluppo storico, vale a dire determinati nel tempo e nello spazio, e sempre in rapporto ai legami in cui essi si trovano con i mondi culturali «ufficiali», anch’essi determinati nel tempo e nello spazio; 3) che infine bisogna distinguere, all’interno di questi «mondi culturali », ciò che è vivo da ciò che è morto, in modo da non correre il rischio di considerare positivi anche gli elementi negativi di essi, in modo da non correre il rischio – com’è stato detto bene da Vittorio Santoli[10] – «di estasiarsi dinanzi a ciò che è fossile e di esaltare ciò che è arretrato », in modo, soprattutto, da mettere l’accento sugli elementi positivi allo scopo di aiutarli a svilupparsi, a progredire, nel quadro di una lotta politico-culturale che non può non avere il suo centro propulsore nella classe operaia e nella sua dottrina rivoluzionaria, il marxismo-leninismo.

     A noi sembra invece che non sempre l’influenza esercitata dalla visione «poetica» del Mezzogiorno propria del Levi su quanti, in questi anni recenti, e fra essi lo Scotellaro, sono stati attratti allo studio del mondo contadino meridionale, abbia favorito in loro la tendenza a porsi, dinanzi a questo mondo, in un atteggiamento realistico da un lato, dall’altro in un atteggiamento critico, storicistico, dialettico. Secondo noi, se egli ce lo consente, è accaduto perfino ad Ernesto De Martino, il quale pure tanto contributo ha dato non solo all’approfondimento, alla luce del marxismo e particolarmente alla luce dell’opera di Antonio Gramsci, dei problemi metodologici dell’etnografia e del folclore, ma tante benemerenze si è acquistato, e continua ad acquistarsi, con le sue indagini concrete sul folclore contadino meridionale, e particolarmente lucano, di cadere talvolta, e proprio per influenza del Levi, nella posizione (non marxista) di «scindere il suo interesse teoretico di capire il primitivo» dal « suo interesse pratico di partecipare alla sua liberazione reale». Con la conseguenza, secondo noi, di presentare certi elementi di superstizione propri della «concezione del mondo» dei contadini meridionali non in lotta con gli altri elementi di una «concezione del mondo» più critica e razionale, già presente oggi nella loro coscienza seppure in forme elementari, ma quasi come la manifestazione di un loro congeniale, e pur sempre valido, strumento di rappresentazione e di conoscenza della realtà. Sicché, secondo noi, egli finisce addirittura col sottovalutare la necessità di combattere, nella cultura borghese moderna, accanto alla presenza di tendenze più tradizionali che tendono ad escludere le manifestazioni culturali primitive dal mondo della storia e dell’umano, e a considerarle in modo naturalistico e a fini «strumentali » di dominio di classe[11], anche la presenza di tendenze più recenti, che tendono ad utilizzare il «primitivo » in un senso più ampio, addirittura nella lotta dell’oscurantismo contro la ragione, esaltandone il carattere alogico, «religioso», i valori «esistenziali», ecc. (Del resto, se questo fosse l’oggetto del nostro discorso, interessante sarebbe considerare il posto che l’esaltazione del «primitivo» ha avuto ed ha in tutte le poetiche decadenti, antirealistiche, contemporanee).

     Non c’è dubbio tuttavia che il contrasto fra l’influenza esercitata da alcuni degli elementi ideali, secondo noi negativi, contenuti nell’opera del Levi, e quella esercitata da altri elementi positivi di quest’opera, il contrasto fra la difficoltà di staccarsi compiutamente da alcune tesi «meridionaliste» del Dorso – difficoltà alimentata, negli ultimi anni, dalla quotidiana collaborazione col professor Rossi-Doria nell’Osservatorio di economia agraria di Portici -, e la passione intellettuale per l’opera di Antonio Gramsci – passione alimentata dal ricordo delle esperienze politiche da lui compiute nelle file del Partito Socialista di Tricarico – costituisse addirittura la caratteristica dominante della ricca e complessa personalità di Rocco Scotellaro, forse anche maggiormente di quanto non appaia in quella parte della sua eredità letteraria che è stata fin’oggi pubblicata. In questo senso, anche per le qualità non comuni del suo ingegno, lo Scotellaro può essere considerato una figura rappresentativa di un certo tipo di giovane intellettuale meridionale il quale, portato dallo sviluppo degli avvenimenti, sulla base di un’esperienza reale, a cercare e, nel caso suo, a trovare, il proprio posto di lotta per la redenzione del Mezzogiorno nelle file di un partito operaio, procede tuttavia con difficoltà ad assimilare tutti gli insegnamenti del marxismo, e dalle sue incertezze ideologiche è tratto talvolta a fermarsi, indugiando, sulle soglie di una diretta partecipazione al movimento organizzato delle masse, o è talvolta indotto a perdere la giusta prospettiva politica, e a subire delle alternative di pessimismo, di sfiducia – come è testimoniato, nel caso dello Scotellaro, da non poche poesie della raccolta È fatto giorno, dalla tormentata costruzione di quel libro che oggi è diventato il volume Contadini del Sud, infine dalla sua stessa decisione di abbandonare ad un certo momento Tricarico, le proprie funzioni di sindaco popolare del paese natio, per andare ad esercitare un’attività culturale «pura» a Napoli, «liberazione insieme ed esilio », come onestamente nota il Levi nella sua prefazione a È fatto giorno.

     Tali incertezze ideologiche, politiche, umane dello Scotellaro (che per altro non debbono necessariamente scandalizzare, quando oltre tutto si pensi che egli aveva appena trent’anni) debbono però indurre a valutare con cautela la sua eredità letteraria, soprattutto per difenderne il nucleo sostanzialmente positivo, e gravido di possibili sviluppi, da interpretazioni, che in verità sono deformazioni, dettate o da troppo amore, come è il caso del Levi, o da un calcolo più sottile, come è il caso del professor Manlio Rossi-Doria.

     Secondo noi, infatti, il Levi, il quale attribuisce alla sua personale influenza la «presa di coscienza », da parte di Rocco Scotellaro, « del mondo contadino di cui faceva parte », quasi non s’accorge di star costruendo, per sé e per gli altri, un’immagine, un « mito» del suo giovane amico scomparso che costituisce si può dire un nuovo capitolo del suo Cristo e del quale, del resto, il recente quadro «Lamento per la morte di Rocco Scotellaro» rappresenta già un’alta espressione poetica. In base a questo « mito », il Levi ha ricostruito una storia intima del cammino percorso da Rocco Scotellaro «da un muto mondo nascente a una piena espressione universale », in cui il suo distacco da Tricarico è idealizzato come «l’uscita da un nido tanto più materno quanto più povero e desolato, il contatto con l’altro mondo», quello della «città», e in cui perfino la dolorosa morte a trent’anni di Rocco è poeticamente giustificata, in quanto tale cammino sarebbe stato « troppo rapido per il suo piccolo, fragile cuore contadino ». Ed è per dare coerenza a questo suo «mito», che egli è indotto, secondo noi, non solo a sottolineare giustamente il significato dell’esperienza artistica dello Scotellaro – il quale senza dubbio è fra i pochi giovani poeti contemporanei nella cui ispirazione si riflettano anche le nuove esperienze di lotta delle masse contadine meridionali – ma a giustificarla tutta, e senza riserve.

     Com’è possibile infatti che il Levi, se non per coerenza con questo suo «mito », nel quale Rocco Scotellaro deve necessariamente apparire «come l’esponente vero della nuova cultura contadina meridionale, la cui espressione e il cui valore primo non può essere che poetico», com’è possibile, dicevamo, se non a causa di ciò, che il Levi, uomo di tanta finezza artistica e di tanta cultura estetica, possa non accorgersi che anche i nuovi contenuti della poesia dello Scotellaro, si muovono, sono costretti anzi, nell’àmbito di una lingua, di cadenze, di «tempi poetici» niente affatto «contadini », cioè popolari, ma invece propri di una tradizione letteraria aristocratica, com’è quella della poesia de- cadente contemporanea, e nei quali perciò si ritrova, accanto a un po’ di Saba e un po’ di Montale, addirittura moltissimo Sinisgalli? Com’è possibile che il Levi, se non appunto per coerenza polemica, definisca una «Marsigliese contadina» (se vogliamo prendere l’antico canto del Rouget de Lisle a metro dell’inno rivoluzionario tipico, del canto guerriero nazionale-popolare) una poesia, per altro verso bella, come «Sempre nuova è l’alba »?[12]. E com’è possibile infine che il Levi, se non sempre per il motivo sopra notato, possa seriamente riportare al contrasto fra il mondo contadino dal quale Rocco Scotellaro proveniva, e il mondo cittadino «già tutto fatto, incomprensibile, chiuso nella sua estranea molteplicità», temi e posizioni sentimentali che mostrano invece lo Scotellaro impacciato ancora, piuttosto, dal tradizionale armamentario decadente della solitudine dell’individuo in mezzo agli altri uomini, della difficoltà di stabilire un contatto con essi, dellaconsolazione di abbandonarsi al flusso della memoria per «… guardare dove non c’eri – dove non sei dove non sarai coi tuoi occhi neri»?

     Ci risulta invece che l’amico Carlo Levi non solo non accetta queste osservazioni, ma si è addirittura impazientito perché non tutti, nel campo del movimento democratico e socialista, hanno accettato di far proprio il suo « mito» o almeno di « utilizzarlo » nell’interesse della lotta per il riscatto del Mezzogiorno.

     Ma perché mai dovrebbe essere «nell’interesse della lotta per il riscatto del Mezzogiorno» assumere dinnanzi all’attività intellettuale di coloro che a questa lotta partecipano, anche nei settori più avanzati, un atteggiamento acritico, di passiva celebrazione, e non di attiva comprensione e di sereno giudizio? Perché mai coloro che di questa lotta rappresentano l’avanguardia non solo politica, ma ideologica, e che anzi possono rappresentarne l’avanguardia politica solo nella misura in cui ne rappresentano l’avanguardia ideologica, dovrebbero accettare, senza discuterla, la tesi che, in quanto sia corretto parlare di una «nuova cultura contadina meridionale», cioè in quanto sia possibile, oggi, delineare nel Mezzogiorno lo sviluppo, in strati sempre più larghi di contadini, di una nuova coscienza, cioè di una nuova cultura, questo avvenga secondo gli schemi « mitici » del Levi, i quali rischiano invece di mettere in ombra proprio i veri termini dello sviluppo reale di questo fenomeno? Nessuno infatti potrebbe seriamente negare che questa nuova coscienza, questa nuova cultura, di larghi strati di contadini meridionali, si stia formando proprio attraverso la lotta fra la concezione del mondo razionale, critica, alla quale essi sono educati dalla azione rivoluzionaria quotidiana del movimento democratico e socialista, e le parti fossili, in- vecchiate, del loro abito religioso, morale, politico tradizionale. D’altro canto, non dovrebbe sfuggire al Levi, come ci sembra che gli sia sfuggito; il pericolo che alcune incertezze ideologiche chiaramente presenti nel- l’opera troppo presto interrotta dello Scotellaro, possano essere utilizzati con intenti reazionari, oscurantisti, da gente che non ha niente a che vedere con la lotta per il riscatto del Mezzogiorno.

     Consideriamo per esempio il destino di quel materiale che avrebbe dovuto dar corpo all’inchiesta progettata da Rocco Scotellaro sulla vita e la cultura dei contadini meridionali e che è stata pubblicata dal professor Rossi-Doria, sotto il titolo «Contadini del Sud». Noi abbiamo già avuto occasione di dire altrove[13], e non vogliamo ripeterlo qui, perché questo libro non possa essere considerato «un’opera inedita», e neppure incompiuta, ma sia un’opera per gran parte ancora informe, e non solo a causa della morte improvvisa del suo autore, ma a causa soprattutto del tormento ideologico che ancora travagliava lo Scotellaro nel momento in cui veniva componendola. Ebbene, è forse giusto, per la stessa nostra volontà di custodire il meglio della memoria di Rocco Scotellaro, e di farlo custodire ai contadini meridionali, che noi accettiamo ingenuamente il calcolo sottile con cui il professor Rossi-Doria vorrebbe presentare queste pagine come «rappresentative » dell’intero mondo contadino meridionale? Evidentemente no, anche se non disconosciamo l’abilità con cui il professor Rossi-Doria, utilizzando ai suoi fini politici anche una certa «visione poetica» del Mezzogiorno che, come abbiamo visto, fu creata dal Levi e della quale visibili tracce si ritrovano anche nelle pagine dello Scotellaro, pur ammettendo che esiste certamente oggi nel Mezzogiorno un tipo di contadino diverso da quello presentatoci nelle pagine edite dello Scotellaro, e cioè un tipo di «contadino combattivo, conuna forte coscienza di classe », il quale sente profondamente «la solidarietà con gli altri contadini» e sa entusiasmarsi « se si apre loro una schiarita di speranza », cerca tuttavia di dimostrare come quest’altro tipo di contadino non sarebbe «coerente» non sappiamo bene con quale mitica e arcana «civiltà contadina meridionale». Né è giusto, secondo noi, accettare ingenuamente il tentativo compiuto dal professor Rossi-Doria, utilizzando gli appunti frammentari lasciati dallo Scotellaro, di attribuire un valore metodologico generale a certe ricerche piuttosto artistiche che storiche condotte dal giovane scrittore lucano, per avaIlare la tesi, scientificamente inconsistente, della possibilità di ricostruire una storia «autonoma» di una cosiddetta «società contadina meridionale», allo scopo evidente di avallare la tesi che la redenzione dei contadini possa e debba anch’essa avvenire « autonomamente» – vale a dire, conoscendo il restante pensiero e la restante attività del professor Rossi-Doria, «autonomamente» dalla lotta della classe operaia per la democrazia e il socialismo. E neppure è giusto, secondo noi, per «idoleggiamento» del primitivo, estasiarsi ingenuamente, come vorrebbe il professor Rossi-Doria, dinanzi alle cinque autobiografie pubblicate in Contadini del Sud (e alcune delle quali, come è stato bene osservato, non sono affatto autobiografie di contadini), senza rilevare gli elementi fossili, retrivi, in esse presenti, ma anzi compiacendosi col professor Rossi-Doria che, per fortuna, non in tutto il Mezzogiorno il « movimento » (come egli lo chiama), cioè l’azione politica del movimento democratico guidato dalla classe operaia, sia riuscito ancora ad alterare il carattere di quella «società antica e ferma»[14] e non in tutto il Mezzogiorno si sia ancora riusciti a rompere «l’antica omogeneità della società contadina» _ vale a dire, in parole povere, si sia ancora riusciti a sviluppare conseguentemente la lotta di classe[15] .

     Sostanzialmente, è da questo « punto di vista» che noi desidereremmo fossero considerati i dissensi verificatisi intorno all’opera dello Scotellaro, e che interessano, come s’è cercato di dimostrare, la questione dei rapporti fra certe correnti di gusto e di cultura e la lotta per il riscatto del Mezzogiorno. Naturalmente, noi sappiamo bene che questo «punto di vista» parte del presupposto che la lotta per il riscatto del Mezzogiorno non può risolversi che nello sviluppo organizzato, anche sul terreno delle coscienze, di un grande movimento popolare non solo di contadini, ma di intellettuali e in genere di ceto medio urbano, che può estendersi fino a comprendere la stragrande maggioranza delle popolazioni delle regioni meridionali e delle isole, sempre a condizione però che tale movimento comprenda l’esigenza dell’alleanza con la classe operaia e ne accetti la direzione, in quanto solo con questa alleanza e sotto questa direzione può essere condotta fino in fondo, conseguentemente, la lotta contro i nemici storici del Mezzogiorno: il blocco agrario-i.idu- striale, l’imperialismo italiano e straniero.

     Si ricordi però che questa non è una nostra « ideuzza », ma è la conclusione più avanzata cui è arrivato, per merito di Gramsci specialmente il «meridionalismo»: ed è una conclusione da difendere con fermezza, anche se non in modo dogmatico, ma anzi per farla sviluppare e «fruttificare», senza però annullarne mai le premesse. Perché altrimenti o si ricade in un « meridionalismo » sentimentale, padre del paternalismo, o in un «meridionalismo» in attesa della «occasione storica», padre del nullismo politico, o addirittura si rischia di aiutare un «meridionalismo» contraffatto, di ispirazione oscurantista, a contrabbandare le tesi di un Mezzo- giorno «refrattario» all’ingresso della moderna civiltà nelle campagne, come vorrebbe il professor Rossi-Doria, o perfino di un Mezzogiorno «riserva» di determinate «componenti etniche e storiche», utilizzabili nella lotta contro «il caos e il disordine», contro quel figlio diabolico «di Niccolò Machiavelli e di Martin Lutero, del Rinascimento e della Riforma», che sarebbe il socialismo moderno. Tesi, queste due ultime, che hanno già trovato pratica applicazione entrambe nell’indirizzo di quei cosiddetti Enti di riforma fondiaria, lottando contro i quali, alla luce dell’insegnamento marxista, tanti contadini meridionali si stanno formando una coscienza, una cultura moderna, che non è né « precristiana » né « cristiana », ma socialista.

 [1] Cf. in La Gazzetta del Mezzogiorno, gli articoli di Gustavo D’Arpe in data 5 e 11 agosto 1954.

 [2] «L’originalità di Gramsci incomincia dal momento in cui egli, diventato socialista, continua a essere sardo, e i problemi del socialismo non stacca dai problemi della redenzione della propria Isola; anzi, trova nella dottrina e nel pensiero socialista la guida per scoprire la via che deve portare alla soluzione di questi problemi. La coscienza delle necessità della sua terra, delle necessità dei lavoratori sardi e dei sardi di tutti i gruppi sociali viventi sopra di essa, lo spinge anzi a vedere i problemi del socialismo sotto un angolo nuovo, lo spinge a considerare sotto una nuova visuale le questioni fondamentali dell’organizzazione del movimento emancipatore dei lavoratori e del rinnovamento di tutta la società. Dalla critica della struttura del la società sarda egli arriva, attraverso il socialismo, alla critica della struttura di tutta la società italiana, e quindi alla indagine e alla scoperta di quelle che dovranno essere le forze rinnovatrici e dell’Isola e dell’Italia intiera, e del modo come dovranno muoversi per operare questo rinnovamento» (Togliatti, Gramsci, Milano Sera Editrice, pp. 80-81).

 [3] Ma non esclusivamente dinnanzi ad opere artistiche e letterarie. Si guardi, p. es., all’apprezzamento positivo dato dall’amico e compagno Paolo Alatri, proprio in nome del suo presunto «meridionalismo », al volume del professor Carlo Rodanò, Mezzogiorno e sviluppo economico (cf. Paese-Sera, 4 aprile 1954).

 4] Cf. in Letteratura militante, Firenze, Parenti, 153, pp. 101 – 102

[5] Cf. su Rinascita, 1950, n. 6, la nostra recensione a L’orologio di Carlo Levi.

 [6] Gramsci, Il rapporto città-campagna nel Risorgimento e nella struttura nazionale italiana, in Il Risorgimento. Torino, Einaudi, V ed., 1953, pp. 95-104.

 [7] Si noti, per curiosità, che il volume dal quale abbiamo ricavato tali citazioni si fregia tuttavia del titolo: Riforma agraria e azione meridionalista. E si noti anche come lo stesso Rossi-Doria abbia provveduto a darei, pochi anni or sono, un’antologia degli scritti di Giustino Fortunato, che è tutta diretta a dimostrare «l’attualità» non dell’opera di indagine e di denuncia compiuta dal Fortunato, ma addirittura della linea «paternalistica », d’intervento dall’alto, da lui suggerita per il Mezzogiorno (ma non senza un’intima inquietudine, non senza un intimo sospetto sulle insufficienze «organiche» dello Stato borghese italiano, che introduce anche in questa parte dell’opera del grande meridionalista lucano un elemento progressivo, scarsamente sottolineato, e pour cause, dal Rossi-Doria); e come costui sia divenuto, nel frattempo, uno degli ispiratori ideali, uno degli «inventori» dei cosiddetti Enti per la riforma agraria, oltre che magna pars dell’Osservatorio di economia agraria di Portici.

 [8] Cf. però l’ottima recensione di Giorgio Napolitano in Società, 3, 1949.

 [9] Cf. in Terza generazione, Anno II, n. 10-11, luglio- agosto 1954.

 [10] Tre osservazioni su Gramsci e il folclore, in Società, 1951, n. 3.

 [11] Cf. Intorno ad una storia del mondo popolare subalterno, in Società, 1949, n. 3.

 [12] Giudichi con noi il lettore: Non gridatemi più dentro, Non soffiatemi in cuore I vostri fiati caldi, contadini. Beviamoci insieme una tazza colma di vino! Che all’ilare tempo della sera S’aquieti il nostro vento disperato. Spuntano ai pali ancora Le teste dei briganti, e la caverna, L’oasi verde della triste speranza, Lindo conserva un guanciale di pietra. Ma nei sentieri non si torna indietro. Altre ali fuggiranno Dalle paglie della cova, Perché lungo il perire dei tempi L’alba è nuova, è nuova.

 [13] Cf. Il Contemporaneo, Anno I, n. 23, 4 settembre 1954.

 [14] È bene avvertire, fra l’altro, che dove arriva « il movimento» arriva anche il desiderio, nei contadini, di parlare in lingua italiana e si inizia lo sforzo di adoprarne correttamente la grammatica e la sintassi.

 [15] Val la pena di sottolineare che se accentuassimo l’atteggiamento nostalgico del professor Rossi-Doria per «l’antica omogeneità» della « società contadina meridionale» dovremmo nella pratica, rinunziare a combattere contro la « disgregazione sociale» denunciata da Grarnsci, in quanto «l’omogeneità », la mancanza cioè di una differenziazione di rapporti economici e sociali di tipo moderno ben definiti e definibili, non è che la maschera di questo « vecchiume », di questo «marciume» storico.

 

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