OVVERO
Dell’assoluta normalità
(Scotellaro, Fruttero, Kafka, Voltaire e il mugnaio di Potsdam)

 

Ho pubblicato su questo blog la poesia di Rocco Scotellaro « Al Sopportico delle Api il primo amore », saltando l’ordine con cui pubblico le poesie di « È fatto giorno » secondo l’edizione curata da Carlo Levi. A giudizio di qualcuno ho fatto casino per una targa; mi dispiace, non m’ero accorto, credevo si trattasse di poesia. Sono lieto di informare il mio censore che un po’ di resipiscenza l’avevo già avuta. Rocco Albanese aveva scritto in un commento al mio articolo: « Ricordo benissimo che si aprì una vera e propria “Caccia al tesoro” per individuare il sopportico delle api. » (Ma non poteva chiederlo a suo padre ?). Lo ringraziai e gli lasciai intendere che, dopo aver letto una scheda del recentissimo libro di Carlo Fruttero, che ci ha regalato la figlia Maria Carla, « Da una notte all’altra passeggiando tra i libri in attesa dell’alba », Mondadori aprile 2015. P. 130, che, per l’appunto, mi aveva preso una certa resipiscenza. La scheda è dedicata a Franz Kafka, e Fruttero ha scritto: « Nelle sue opere narrative non c’è nulla di sperimentale, nessuna rottura con la tradizione, ma ai suoi anonimi eroi possono accadere, senza motivo, cose stranissime che però tutti accettano senza minimamente stupirsi. Quando un giovane impiegato si trova un mattino trasformato in uno scarafaggio, la metamorfosi viene accettata senza discussione, la vita può continuare persino con un grosso insetto in casa. Così è anche Il processo: vicende completamente assurde non destano la meraviglia di nessuno. Tutti sono sempre impassibili, lo scarto della vita normale non viene rilevato, non si è visto. Così andò, di peggio in peggio, per tutto il Novecento e continua anche oggi quando ci troviamo in una situazione “kafkiana”: una gabbia di qualsiasi genere da cui non possiamo uscire ».

« Kafkiano », dunque, allude a una assoluta normalità che ci imprigiona come una gabbia dalla quale non possiamo uscire, prigionieri come passeri; una gabbia dalla quale neppure una delle maggiori figure della letteratura mondiale è uscito: la gabbia di un modesto impiegato, diligente, laborioso e disciplinato, che lavorava in ufficio fino alle tre del pomeriggio e, tornando a casa, doveva pensare a prepararsi il pranzo e a concedersi un piccolo riposo. Quindi scriveva della sua vita normale, presentando la normalità, con la zampata del genio, nelle sue opere immortali. Come avevo potuto non capirlo? Ho riletto, e rileggendo « La metamorfosi » e « Il processo » ho trovato la conferma del giudizio di Fruttero.

Come avevo potuto non capire? Eppure anche Rocco Scotellaro ci aveva lasciato un segnale nei « Frammenti e appunti dell’Uva puttanella », n. 12 (l’unico punto intestato a lettere maiuscole allo scrittore praghese), p. 110: «Nella mia Uva puttanella non è questione di puttanesimo politico, fenomeno comune ai capi e ai gregari delle chiese e dei partiti e a tutti gli uomini.
Si tratta, invece, di una rinuncia all’essere, di riluttanza a divenire maturi e grandi. [ … ]. »

Ho quindi cercato che cosa avesse insegnato – e non l’avessi notato o me ne fossi dimenticato – l’acuta razionalità di Voltaire. E ho riletto « Candide, ou l’Optimisme », universalmente conosciuto semplicemente come « Candido ». Le ultime righe, anzi le ultime parole di questo romanzo filosofico, che riporto nella traduzione di Riccardo Bacchelli, sono illuminanti. Eccole: « E Pangloss diceva talvolta a Candido: « Gli eventi forman tutti una catena nel migliore dei mondi possibili, perché, finalmente, quando voi non foste stato cacciato a furia di calci nel deretano da un bel castello per amor di madamigella Cunegonda; quando non foste stato sottomesso all’Inquisizione; quando non aveste fatto a piedi l’America; quando non aveste dato un bel colpo di spada al barone; quando non aveste perso tutti i vostri montoni del bel paese dell’Eldorado; non mangereste qui cedri canditi e pistacchi.» Ben detto» rispose Candido «ma bisogna coltivare il nostro giardino. »

Eh sì. Bisogna che ciascuno pensi a coltivare il proprio giardino. Che altro facciamo? Il consigliere, conversando col bramino ( vedi la voce « Stati. Governi – Qual è il migliore? » del Dizionario filosofico di Voltaire, domanda « sotto quale dominio preferireste vivere? »; il bramino risponde: « quello dove si obbedisce soltanto alle leggi», anche se un simile paese, gli fa aggiungere, «bisogna cercarlo ». Così per Voltaire poco conta che si viva in una democrazia, governata dalla virtù, o sotto il dominio di un principe illuminato, guidato dall’onore. Ciò che conta è che sia uno Stato ordinato secondo leggi, cui anche la maggioranza, e anche lo stesso principe, siano assoggettati. Un simile paese, a dire il vero, Voltaire l’aveva trovato. Alcuni anni prima, vagando per l’Europa, si era per lungo tempo fermato a Berlino, dove Federico II di Prussia, principe illuminato per eccellenza, lo aveva nominato suo ciambellano. Voltaire, anche in quel Polizeistaat, in quello Stato di polizia, aveva avuto diretta esperienza che il suddito può ottenere dal giudice, contro l’arbitrio del pubblico potere, e anche contro il capriccio del sovrano, la tutela dei propri diritti. Ecco il fatto. Secondo una tradizione orale, ampliamente diffusa, presso la reggia di Sans-souci (la corrispondente della Schifanoia ferrarese) a Potsdam, un mugnaio esercitava l’arte della molitura nell’ avito mulino a vento, che si conserva tuttora adiacente all’ala destra del delizioso, elegante palazzo regio. In questa ala alloggiava spesso il geniale Voltaire, buon amico del grande Federico, con il quale non mancava di lamentarsi per l’inquinamento acustico provocato dalle pale rotanti del mulino. Per ovviare al fastidio, il sovrano propose reiteratamente al mugnaio di comprare il mulino, al fine di fame cessare l’attività. Malgrado l’autorevole insistenza e la generosa consistenza del prezzo di vendita offerto, il mugnaio rifiutò. Talché il sovrano, altamente irritato, minacciò l’esproprio per pubblica utilità. Ma il mugnaio, per nulla intimorito, rispose: il y a bien des juges à Berlin (ci sarà un giudice a Berlino), dal momento che Potsdarn rientrava, allora, nella circoscrizione giudiziaria berlinese.

Ma è meglio non farsi illusioni, meglio che non me ne faccia: non basta un giudice, c’è anche e soprattutto bisogno di un grande imperatore-filosofo come Federico II.

 

P.S. Ho riflettuto se eliminare l’articolo citato nello scritto di cui sopra o conservarlo come bozza dell’evento. Ho scelto questa seconda opzione e, a tal fine, l’ho spostato dalla categoria « E’ fatto giorno » alla categoria « Bagatelle » (cosucce da niente), dove pubblico anche il presente scritto.

 

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