Ieri 12 maggio, presso la Biblioteca Ariostea di Ferrara, è stata tenuta una stupenda conferenza nel 90° anniversario della pubblicazione presso l’editore Piero Gobetti di «Ossi di seppia» di Eugenio Montale. Dopo l’introduzione di Fiorenzo Baratelli, presidente dell’istituto Gramsci di Ferrara, ne ha magistralmente parlato Gianni Venturi, docente presso la facoltà di lettere e filosofia dell’università di Firenze. Venturi ha concluso la conferenza dicendo (cito a memoria, ma con assoluta fedeltà al concetto da lui espresso e, molto, anche alla lettera): « Chi scrive queste parole nella nostra tradizione letteraria occupa certamente il primo posto, dopo Dante ».

Eugenio Montale, sul Corriere della Sera del 16 ott. 1954 aveva pubblicato un articolo sull’opera di Rocco Scotellaro, che, prima della conferenza, avevo inviato a Baratelli e a Venturi, e che, ora, ritengo giusto e opportuno far conoscere ai lettori di questo blog.

EUGENIO MONTALE, Corriere della Sera 16 ott. 1954

     Un libro di poesie, È fatto giorno (Mondadori), con prefazione di Carlo Levi, una raccolta di interviste con alcuni tipici rappresentanti della civiltà rurale del nostro Mezzogiorno, Contadini del Sud, con prefazione di Manlio Rossi-Doria (ed. Laterza), alcuni racconti sparsi in riviste, qualche inedito che sarà prima o poi pubblicato, formano l’intera opera letteraria di Rocco Scotellaro, il poeta lucano morto trentenne sullo scorcio del ’53. Si stenta a parlare di opera letteraria perché Scotellaro, figlio di povera gente, anche se poté frequentare l’università sino al quarto anno, non ebbe mai il tempo di coltivare quegli otia che sono pur necessari a una tradizionale formazione umanistica. Ma in Italia, e particolarmente nel Mezzogiorno, è perfettamente possibile che il figlio di un modesto bottegaio porti in sé una forte impronta intellettuale; e tale fu il caso di Rocco, che noi potremo chiamare poeta-contadino così come noi diciamo poeti-operai o poeti-contadini Sergio Jessenin o Attila Joszef, due dei più raffinati artisti della moderna poesia europea. Di Rocco sappiamo, oltre al fatto che compi studi quasi regolari, che rimase «esaltato e anche depresso» visitando a Roma una mostra di Picasso; e che l’ambizione di diventare un letterato con tutte le carte in regola fu sempre viva in lui.

     Detto questo, a scanso di equivoci che portino a un’interpretazione troppo realistica, o neo-realistica, della sua poesia, bisogna affrettarci a riconoscere che in Rocco l’accento non batte sulla letteratura ma sulla vita: e che hanno ragione i suoi ammiratori quando esaltano la sua figura di uomo nuovo, bruciato da una breve ma intensa vita di umana partecipazione ai problemi di una civiltà (la « civiltà contadina») alla quale egli fermamente credeva. Lavorando a Portici, accanto a uno studioso come il Rossi-Doria, dopo essere stato sindaco socialista del suo paese, Tricarico, Scotellaro aveva in animo di diventare un esploratore anche in senso tecnico, dei problemi del Mezzogiorno. Il libro sui contadini del sud, fatto di interviste e direi quasi di fonografie, non è che la parte minima di un’opera di complessa indagine ch’egli si proponeva di svolgere. In lui abbiamo dunque perduto un meridionalista da cui potevamo attendere opere preziose. Perduto non è invece il poeta che in Rocco era nascosto; perché pur nel travaglio di una vita ch’ebbe poche soste contemplative, Scotellaro ha potuto lasciarci un centinaio di liriche che rimarranno certo tra le più significative del nostro tempo. Riconoscere che non si tratta affatto di poesie contadine ma di poesie di un autentico scrittore di origine contadina non è limitarne il valore: è anzi metterle nella loro luce migliore. Scotellaro è popolaresco come lo fu talvolta il migliore Chagall: come lo sono i più degni poeti giovani espressi in questi anni dal nostro Mezzogiorno. Ma in lui l’impasto tra la vena che direi internazionale e la vena popolare ha trovato una insolita felicità di accento. Senso e ragione, istinto e intelletto si armonizzano nelle sue cose migliori, scritte in due stagioni distinte (’47-’48 e ’52-’53); e da tale equilibrio sono nate poesie (non molte, ma non importa) destinate a crescere nel nostro ricordo e anche – per quel che può contare – nell’estimazione della critica giudicante. L’uomo Scotellaro era poi avvincente, generoso, entusiasta, con qualcosa della tempra di un eroe garibaldino; uno di quegli uomini che lasciano una traccia, una scia dietro di sé. E non c’è dubbio che in un simile solco si manterrà vivo il suo ricordo tra gli amici, e anche tra coloro che, come chi scrive questa nota, si rammaricano di averlo incontrato troppo raramente.

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One Response to Un articolo di Eugenio Montale su Rocco Scotellaro

  1. D. Jankovich ha detto:

    Un articolo di Montale del 1954 (!) che unisce tutti noi ammiratori d’un straordinario poeta e intellettuale meridionale di una ormai lontana epoca. Quanti di noi si rammaricano di non averlo potuto incontrare e conoscere! Un uomo di modesta origine, un gigante nella sua genuinità come poeta e interprete di un mondo contadino lucano, sconosciuto a molti interessati ad approfondire le proprie conoscenze del Mezzogiorno. Un sentito grazie a A. M.

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