ROCCO SCOTELLARO – È FATTO GIORNO – È CALDA COSÌ LA MALFA

RICORDI

Ho le mie mani legate

a un ramo secco e le foglie

sono ingoiate nell’asfalto.

Ho atteso di succhiarti,

mandorla vizza

sepolta ai piedi del vecchio tronco.

D’un tratto di queste sere

nelle silenziose campagne

ponente crollerà sui fili rotti,

le nubi scenderanno alle finestre

e noi andremo in cerca di un tizzone

per ritrovarci nelle strade buie.

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II Ed. dicembre 1954 di E’ fatto giorno con
10 Tavole di Aldo Turchiaro, p. 34
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     La data della lirica è il 1947 (Franco Vitelli, in Oscar Mondadori Tutte le poesie del 2004) . La guerra è finita da due anni, ma i ricordi sono un sommesso ermetico riandare al del tempo di guerra. Le foglie ingoiate nell’asfalto paiono ricordare le nere notti senza luna, quando le lucciole si sono ritirate e le giornate si sono fatte corte: allora le case, le campagne e gli uomini, dopo il tramonto, erano ingoiati sotto fosche tenebre. L’oscuramento, con la soppressione dell’illuminazione pubblica (ponente crollerà sui fili rotti) era assoluto, quasi una isterica forma di difesa per non orientare il volo degli aerei nemici, il più piccolo filo di luce che filtrasse dalle finestre (e le nubi scenderanno alle finestre) era punito con pesanti ammende. Chi aveva necessità di uscire si muniva di un tizzone che ardeva nel camino e con quello, agitandolo lentamente, cercava di fare luce ai propri passi. Ricordo, qualche volta che dovetti uscire di sera, si vedevano solo tizzoni mossi poco al di sopra del manto stradale, luci ai piedi. Il tizzone è soprattutto simbolo di un ritrovarsi di anime elettive, un ritrovarsi d’amore.

     Scendo ai ricordi del paese. Non si volle avere nessuna comprensione per un anziano signore, cieco, che abitava nel corso. Una calda sera d’estate, illuminata dalla luna piena, volendo prendere un po’ di fresco, accese la luce credendo di spengerla, ma non fece nemmeno in tempo ad aprire la porta e posare una sedia davanti all’uscio della sua casa che gli venne addosso il terribile brigadiere vice comandante, che non volle sentire ragioni, spense la luce e pretese il pagamento dell’ammenda.

     Il secondo anno di guerra, all’apertura dell’anno scolastico, andai a Napoli per frequentare la prima media. Arrivai di sera e, uscito dalla stazione su piazza Garibaldi, restai a bocca aperta: le luci dei tram che illuminavano gli abitacoli e quelle violazzurre emanate dai trolley a stanga dei tram e dei filobus formavano una luminaria più sfavillante di quella, oramai lontana e dimenticata, l’ultima volta fu nel 1939, che si accendeva nella piazza Garibaldi di Tricarico la sera della festa della Madonna del Carmine. Senza contare che il Vesuvio era ancora attivo e di notte eruttava un lungo pennacchio di fuoco rosso vivo, che per gli aerei nemici era come un semaforo. Qualche ora più tardi –fu la prima volta – fui svegliato nel primo sonno dal suono delle sirene dell’allarme.

     La severità con la quale a Tricarico era fatto rispettare l’oscuramento aveva una generosa dose di stupidità, che sfociò, come una disgrazia naturale, in una tragedia che non è stata mai raccontata e fu presto dimenticata. Alla caduta del fascismo, il giornale radio delle ore 20 del 25 luglio 1943 diffuse il comunicato che il re aveva accettato le dimissioni di Benito Mussolini e aveva nominato capo del governo, primo ministro, segretario di Stato, il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Un paio di ore dopo seguì il discorso del nuovo primo ministro con alla fine la famosa frase: « la guerra continua e l’Italia resta fedele alla parola data… chiunque turbi l’ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito ». E la punizione colpì inesorabile anche a Tricarico.

     Badoglio, il giorno 26, emanò un provvedimento con il quale l’autorità militare era investita di pieni poteri relativamente all’ordine pubblico, veniva istituito il coprifuoco (divieto di uscire di casa nelle ore serali e notturne) e venivano vietate le pubbliche riunioni (era persino vietato camminare assieme in più di due – o forse tre, ma non più di tanti). Una sera, dopo il coprifuoco, nella Saracena, una pattuglia di Carabinieri vide un’ombra e intimò l’alt. Alt o sparo, intimò uno dei militi. L’infelice si impaurì e fuggì, il carabiniere sparò e l’uccise. Come ho detto, l’evento fu vissuto dal paese come una mera disgrazia naturale, come una morte causata da un fulmine.

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