ROCC O SCOTELLARO – È FATTO GIORNO – INVITO

IL PRIMO ADDIO A NAPOLI 

Il concertino girovago ammalia 

qui a ridosso della Duchesca, 

dove giovani diciassettenni e una zoppa 

hanno un cantiere di camere 

su portoni sporchissimi. 

Il burattinaio è un vecchio 

pescatore invalido. 

Ognuno solo si preoccupa 

del proprio oggetto da vendere. 

Ognuno fa sentire la sua voce. 

Io sono meno di niente 

in questa folla di stracci 

presa nel gorgo dei propri affanni. 

Sono un uomo di passaggio, si vede 

dal cuscino che mi porta 

le cose della montagna. 

Il treno al binario numero otto 

ci vogliono ancora molt’ore 

fin che stiri le sue membra con un fischio. 

Non voglio più sentire queste rauche 

carcasse del tram. 

Non voglio più sentire di questa città, 

confine dove piansero i miei padri 

i loro lunghi viaggi all’oltremare. 

Ritorno al bugigattolo del mio paese, 

dove siamo gelosi l’un dell’altro: 

sarà la notte insonne nell’attesa 

delle casine imbianchite dall’alba. 

Eppure è una gabbia sospesa 

nel libero cielo la mia casa. 

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II ed. dicembre 1954 di E’ fatto giorno con
10 Tavole di Aldo Turchiaro, p. 27-8
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La lirica «Il primo addio a Napoli» è un canto di invettiva sociale e politica e di nostalgia, reso in musica, con altre poesie di Scotellaro, alcuni anni dopo la sua morte e cantato da Maria Monti. La Monti è stata una cantautrice che esordì nei cabaret milanesi alla metà degli anni Cinquanta, in un periodo di vivaci fermenti nel mondo dello spettacolo, esibendosi con Giorgio Gaber, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, e con Paolo Poli nelle «Canzoni del diavolo». Il canto di Scotellaro fu inciso su disco in vinile a 45 giri (che, dopo aver rivoltato da cima a fondo casa mia, purtroppo non ho trovato, devo dare per perso, buttato via non so da chi).

La nostalgia porta a fuggire da un luogo sgradevole. Rocco Scotellaro sceglie simbolicamente una zona di Napoli non solo degradata, ma scesa rapidamente a quel miserevole stato di degrado, segnato da miseria e prostituzione, improvvisati mestieri e miseri commerci d’accatto, da un passato di splendore. Qui a ridosso della Duchesca.

 La Duchesca è una zona di Napoli nelle immediate vicinanze di Castel Capuano, che conserva il nome di una villa rinascimentale. L’edificio, realizzato sul finire del XV secolo, fu progettato per Alfonso II d’Aragona, re di Napoli e allora ancora duca di Calabria, e fu celebre soprattutto per lo splendore dei suoi giardini. La villa era in collegamento col Castello Capuano grazie a viali interni ai giardini, in parte preesistenti alla villa stessa e strutturati in varie zone, con forme geometriche, fontane e anche con terrazzamenti.

Il nome Duchesca risulta generalmente riferito alla figura dalla duchessa Ippolita Maria Sforza, moglie di Alfonso, morta però prima della realizzazione del corpo di fabbrica principale. Pare che il giardino contenesse vari edifici, anche più antichi, costituendo un complesso con logge e padiglioni destinato a essere una gradevole residenza per la corte, complementare alla residenza ufficiale di Castel Capuano. La villa fu costruita quasi in concomitanza a quella di Poggioreale anch’essa scomparsa. Entrambe furono importanti elementi di riqualificazione urbana per le aree circostanti, con bonifiche, impianti viari, e opere pubbliche.

Le vicende storico-politiche della dinastia aragonese causarono il sostanziale abbandono della villa pochi anni dopo la sua realizzazione: ciò ebbe come conseguenza la progressiva edificazione privata che rapidamente inghiottì completamente il vasto giardino. Già nella seconda metà del XVI secolo il complesso era in avanzato stato di degrado. Seppur danneggiata, la struttura edilizia sopravvisse fino alla seconda metà del  XVIII secolo, quindi fu progressivamente spogliata dei suoi materiali da costruzione, e scomparve senza lasciare né traccia materiale né testimonianze iconografiche.

Proprio a ridosso delle mura aragonesi, accanto alla Porta Capuana, si trova una delle più belle chiese rinascimentali di Napoli: la chiesa di Santa Caterina a Formiello, dedicata alla Santa martire e vergine d’Alessandria.

Il poeta è uno di passaggio, avviato verso un altro luogo di Napoli, la vecchia stazione ferroviaria di piazza Garibaldi, dove, sul binario numero 8 attendeva il treno, che, mancavano ancora molte ore prima che stirasse le sue membra con un fischio, quaranta minuti dopo la mezzanotte.

Il binario numero 8 e quel treno della speranza in attesa, a sinistra del fronte dei binari, sono uno dei più commoventi ricordi per chiunque, fin quando la vecchia stazione napoletana non fu sostituita, avesse provvisoriamente vissuto a Napoli, per varie ragioni, principalmente di studio, coltivando la nostalgia nel cuore. Maria Monti e l’autore delle pochissime modifiche necessarie per esigenze musicali, non potettero rendersi conto della ferita che aprirono nell’anima di chiunque avesse coltivato tale nostalgia, avendo sostituito al binario numero otto, il binario numero dieci.

Nel poeta la nostalgia diventa anche invettiva personale e politica. (Non voglio più’ sentire queste rauche / carcasse del tram. / Non voglio più sentire di questa città, / confine dove piansero i miei padri / i loro lunghi viaggi all’oltremare ).

Il problema dell’emigrazione è uno dei temi più affrontati da Rocco Scotellaro. C’è il grande tema dell’America, terra promessa per tanti contadini meridionali, ma anche la fine dell’illusione del sogno americano. Seguirono le nuove grandi ondate migratorie verso il nord dell’Italia e dell’Europa che tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta svuotarono il meridione: «C’era l’America, bella, lontana / del padre mio che aveva vent’anni. / Il padre mio poté spezzarsi il cuore. / America qua, America là, / dov’è più l’America / del padre mio? («C’era l’America»).

( Ritorno al bugigattolo del mio paese, / dove siamo gelosi l’un dell’altro: / sarà la notte insonne nell’attesa / delle casine imbianchite dall’alba. / Eppure è una gabbia sospesa / nel libero cielo la mia casa). Il tema ritornerà nella poesia «Invito», l’ultima della prima omonima sezione di «E’ fatto giorno».(Oh! Qui non si può morire /Venite chi vuol venire: / suoneremo la nostra zampogna /[…] )

 

 

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