ROCCO SCOTELLARO – È FATTO GIORNO – INVITO

LE NENIE

Rifanno il giuoco del girotondo

i mulinelli nella via.

Anch’io c’ero in mezzo

nei lunghi giorni di fango e di sole.

Mia madre dorme a un’ora di notte

e sogna le mie guerre nella strada

irta di unghie nere e di spade:

la strada ch’era il campo della lippa

e l’imbuto delle grida rissose

di noi monelli più figli alle pietre.

 

Mamma, scacciali codesti morti

se senti la mia pena nei lamenti

dei cani che non ti danno mai pace.

E non andare a chiudermi la porta

per quanti affanni che ti ho dato

e nemmeno non ti alzare

per coprirmi di cenere la brace.

Sto in viuzze del paese a valle

dove ha sempre battuto il cuore

del mandolino nella notte.

E sto bevendo con gli zappatori,

non m’han messo il tabacco nel bicchiere,

abbiamo insieme cantato

le nenie afflitte del tempo passato

col tamburello e la zampogna.

 

(1947)

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II ed. dicembre 1954 di È fatto giorno con

10 Tavole di Aldo Turchiaro, p. 25.

Pubblicata in «Itinerari», ottobre-dicembre 1953

con data 1945, ripristinata nell’edizione Vitelli

Oscar Mondadori 2004..

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     Questo commento non è mio e sono spiacente di non saper dire chi sia l’autore. « Nella poesia di Scotellaro il popolare è il vero substrato, la profonda trama narrativa delle sue parole, che si attua non attraverso il linguaggio come in Pierro, ma nello scavo perenne dei topoi arcaici del mondo rurale: oggetti, animali, presenze magiche rimandano a un rituale mitico irrazionale e alogico. È come se Scotellaro possedesse le virtù divinatorie del vento, del serpente, delle magiare, in un mondo dove vivi e morti si sovrappongono e si confondono: Mamma, scacciali codesti morti se senti la mia pena nei lamenti dei cani che non ti danno mai pace. E non andare a chiudermi la porta per quanti affanni che ti ho dato e nemmeno non ti alzare per coprirmi di cenere la brace. Ooppure nel trigesimo della morte del padre, nello scorcio del paese: In quei viottoli neri una sera di queste, sedevano le famiglie dopo cena ai gradini delle porte, era un lento pensiero della vita: cantavano i defunti e i nati dell’estate che correva.
     Immagini statiche, sospese nel tempo e nello spazio, trovano in Scotellaro l’aèdo, il cantore di miti perduti, di fiabe tramandate di generazione in generazione, dove la vita dei singoli è vita di tutti, dove appunto trasgredire all’ordine naturale delle cose significa perdere il senno per sempre. Un pessimismo lucido e razionale che coincide perfettamente con la tragica vicenda esistenziale, la morte precoce e prematura, il disagio, l’impossibilità di trovare la casa. Poeta della sua generazione, Scotellaro canta la precarietà della società contemporanea, dipingendo le memorie mitiche di un equilibrio infranto, da ricercare nella prigione del cielo. Ritorno al bugigattolo del mio paese, dove siamo gelosi l’un dell’altro: sarà la notte insonne dell’attesa delle casine imbianchite dall’alba. Eppure è una gabbia sospesa nel libero cielo la mia casa.
     Di notevole interesse gli appunti di Scotellaro pubblicati da Giovanni Battista Bronzini, che dimostrano la piena coscienza del poeta di trovarsi di fronte a un mondo che sta repentinamente cambiando (è la stessa consapevolezza più volte espressa da Pasolini nei confronti del pericolo della massificazione). In questo passo, viene così abilmente colta dalla penna di un grande scrittore la differenza tra il folklore e l’importanza della tradizione, della storia dei padri che si manifesta esteriormente anche solo rivestendosi con gli abiti di una volta ».
     C’è un conflitto tra Levi e Vitelli riguardo alla datazione: 1947 per il primo e 1945 per Vitelli. Manca la prova, o a me è ignota, e sarebbe quanto mai interessante sapere in quale periodo Scotellaro ha scritto questi versi. Una giovane studiosa di Scotellaro, Francesca Cosentino,  nella sua tesi di laurea, conservata presso il Centro di documentazione Rocco Scotellaro e il secondo dopoguerra di Tricarico, leggendo le poesie in ordine cronologico, descrive l’evoluzione nella versificazione della poesia di Scotellaro. Pur conoscendo la diversa data attestata da Vitelli, la Cosentino fa risalire Le nenie al 1947, a partire dal quale periodo, secondo la giovane studiosa da alcun i anni impegnata nelle sue ricerche a Rio de Janeiro, si rivela in alcune poesie una riproduzione quasi meccanica del parlato, tant’è che alcuni critici le hanno definite «cronache cantate» (pp. 66-67). Il riferimento è a Folco Portinari Rocco Scotellaro: un mito nuovo?, in AA.VV., Omaggio a Scotellaro, pp. 253 – 263. . Originariamente pubblicato in «Problemi critici di ieri e di oggi», Milano, Fabbri, 1959, pp. 191-200.
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