L’eruzione del Vesuvio del 1944
L’ERUZIONE DEL VESUVIO (MARZO 1944)
L’eruzione del Vesuvio e la bomba Ercoli
Quando l’eruzione si placò, il vento spinse le ceneri a centinaia di chilometri.
A Tricarico cadeva una fitta nevicata nera di fiocchi impregnati di cenere
La PAROLA DI LIBRAIO de Il Sole 24Ore del 21 giugno 2015, tra le informazioni dei libri più venduti segnala Napoli ’44 di Norman Lewis. Mi ricordai di possedere questo libro e di averlo letto non molti anni fa, nel 1998, data di stampa del libro, che mi affrettai a comperare e a leggere. Meravigliato di non averlo più preso in mano in diciassette anni, l’ho riletto d’un fiato e mi ha impressionato più di quanto avessi potuto immaginare. A parte la non molto remota lettura, in fondo io a Napoli ero vissuto in tempi molto vicini agli eventi raccontati, e variamente narrati da una folla di affabulatori.
L’autore, Norman Lewis, era un giovane ufficiale inglese. Entrato a Napoli nel 1943 con la Quinta Armata – riferisco dal risvolto del libro -, si trovò stupefatto al centro della città delle segnorine e degli sciuscià, scena mobile della prostituzione universale, oltre che di un’arte consumata dell’inventarsi la vita dal nulla. Come non bastasse, fu subito adibito a funzioni di polizia, quindi costretto a constatare ogni giorno le turbolenze, i fantasiosi maneggi e gli imbrogli che si celavano tra vicoli e marina. E capì subito che, di quanto gli accadeva, era il caso di prendere nota. Così, facendo della sua qualità principale, il saper «entrare e uscire da una stanza senza che nessuno se ne accorga», un fatto di stile, Lewis si aggira in una Napoli trasformata dalla guerra in un immenso, miserabile mercato nero – e registra tutto sui suoi taccuini. Mentre i colleghi si dedicano alla maldestra realizzazione di piani fantasiosi, come quello di far passare le linee a un gruppo di prostitute sifilitiche per diffondere l’epidemia nel Nord occupato, lui indaga su figure e avvenimenti che gli paiono, al momento, del tutto normali: signore in cappello piumato che mungono capre fra le macerie, statue di santi preposti da una folla in deliquio a fermare l’eruzione del Vesuvio, professionisti in miseria che sopravvivono impersonando ai funerali un aristocratico e imprescindibile «zio di Roma», ginecologi deformi specializzati nel restauro della verginità, nunzi apostolici che contrabbandano pneumatici rubati, e cosi via.
I taccuini che Lewis riempì in quel periodo finirono poi per costituire il libro di cui si tratta, del quale il minimo che si può dire è che mai un occhio tanto sobrio e preciso si era posato su una realtà così naturalmente folle e sgangherata. E questo ne fa «un’esperienza unica per il lettore così come deve essere stata un’esperienza unica per chi lo ha scritto» (Graham Greene). Un giovane ufficiale che non sapeva di essere un formidabile memorialista e, con gli appunti del suo taccuino, non sapeva di aver scritto un libro che è considerato uno dei dieci libri che è indispensabile conoscere per capire la seconda guerra mondiale.
Non mi è stato facile scegliere alcune pagine di Napoli ’44 da pubblicare su Rabatana e mi sono infine deciso per gli appunti del 19, 20, 22, 24 e 25 marzo 1944 relativi all’eruzione del Vesuvio.
L’eruzione del Vesuvio ebbe inizio il 19 marzo e la sera del 27 Palmiro Togliatti, capo dei comunisti, con un lungo periplo Mosca, Baku. Il Cairo, Algeri – una sera di tregenda con la cenere che cadeva come se nevicasse e si era depositata per alcuni centimetri – si presenta alla Federazione comunista napoletana. A Tricarico cadeva una vera nevicata, nera fitta e infernale per la cascata di fiocchi impregnati di grigia cenere.
Togliatti era partito da Mosca il 18 febbraio e il suo arrivo fu anticipato dalla grande novità della ripresa delle relazioni diplomatiche tra l’Unione Sovietica e il governo Badoglio, residente a Brindisi, che fu annunciata il 14 marzo. Alla sua partenza da Mosca, Palmiro Togliatti alias Mario Correnti, alias Ercole Ercoli, preceduto dalla fama di rivoluzionario inflessibile e uomo dottissimo, rilasciò la seguente confessione, che ne svela l’intellettuale civetteria: «Secondo il compagno Vyšinskij tutti aspettano a Salerno l’arrivo di Togliatti, E se capitasse a me quello che avvenne a Lucia Mondella al suo arrivo a Bergamo? Tutti l’aspettavano e l’immaginavano molto bella, ma quando giunse a destinazione la folla fu alquanto delusa, vi fu persino chi la trovò bruttina». Il ritorno di Togliatti segnò una svolta politica sconvolgente, passata alla storia come «svolta di Salerno». Il Vesuvio eruttò e contemporaneamente scoppiò la bomba Ercoli, sconvolgente e impressionante come l’eruzione. I due eventi sono ancora più uniti, perché Togliatti, oltre a far scoppiare la bomba, ha lasciato un racconto dell’eruzione, di cui fu diretto osservatore.
Lascio ora raccontare l’eruzione a Norman Lewis, rinviando il seguito al prossimo articolo. Nel racconti di Lewis si accenna a un Sant’Aspreno. E’ il caso d’informare che questo santo fu il primo vescovo di Napoli, tra fine del I secolo e l’inizio del II, e, dopo san Gennaro, è il secondo dei 47 protettori di Napoli. Secondo la leggenda fu consacrato vescovo da San Pietro, dal quale fu guarito. Dopo la guarigione Aspreno si convertì e Pietro lo consacrò vescovo.
19 marzo
Oggi eruzione del Vesuvio. È lo spettacolo più maestoso e terribile che abbia mai visto, e credo che una cosa del genere non la vedrò mai più. Uscendo dal cratere il fumo si è condensato lentamente in una grande massa rigonfia, che dava tutta l’idea di essere solida. La nube si dilatava e si espandeva così lentamente che non se ne percepiva il movimento, anche se verso sera era ormai alta nel cielo nove o diecimila metri, e larga parecchi chilometri.
La sagoma dell’eruzione che cancellò Pompei ricordava a Plinio un pino marittimo. Probabilmente lui la guardava da Posillipo, attraverso la baia, dallo stesso punto da cui Nelson e Emma Hamilton ne osservarono un’altra ai loro giorni, e dove anch’io mi trovavo oggi; e davvero la forma era quella di un albero con molti rami. La cosa sorprendente del pino di Plinio era la sua assoluta immobilità, come se fosse dipinto, ma neanche, perché era tridimensionale, modellato nel cielo, una sagoma immota, incredibilmente minacciosa. Dal pino, poi, penzolava una strana, piccola liana tropicale di ceneri pesanti, che qui e là si staccava dai rami e cadeva a terra con un movimento impercettibile.
Durante la notte lingue di lava hanno cominciato a scendere lungo i fianchi della montagna. Di giorno era uno spettacolo quieto, ma adesso l’eruzione mostrava una vivacità terribile. L’acqua della baia era graffita di simboli di fuoco, e a intervalli il cratere scaricava esplosioni di serpenti in un cupissimo cielo sanguigno, dove pulsavano i riflessi dei lampi.
20 marzo
Oggi il cielo era oscurato, piovevano ceneri e tutto – palazzi, strade, campi – era coperto da un manto grigio e liscio spesso un dito. A Sorrento, a Capri e a Ischia la cenere, in alcuni punti, è già alta parecchi centimetri. Si temeva per la sicurezza delle installazioni militari in zone come Portici e Torre del Greco, che in genere subiscono le conseguenze più gravi delle eruzioni, per cui sono stato incaricato di scoprire se si prevedeva – ammesso che fosse possibile farlo – un peggioramento della situazione.
Sotto una lenta, grigia nevicata sono andato a trovare il professor Saraceno, un eminente sismologo visibilmente eccitato alla prospettiva che certe sue teorie potessero dimostrarsi fondate. Saraceno sostiene che la distruzione di Pompei fu dovuta, con ogni probabilità, al distacco di una porzione di parete del cratere, che cadde all’interno del cono sigillando i condotti eruttivi. Dopodiché la pressione crebbe fino a provocare un’esplosione che scaricò nell’atmosfera milioni di tonnellate di roccia polverizzata. Da un’ispezione del cratere condotta pochi mesi prima, Saraceno si era convinto che un disastro di simili proporzioni avrebbe potuto ripetersi, e ho avuto l’impressione che la cosa non gli sarebbe dispiaciuta del tutto. L’ho ringraziato di cuore ripagando la sua consulenza con una scatoletta di carne, che è stata accolta con riconoscenza.
22 marzo
La violenza dell’eruzione cresce, e cresce la paura della gente. Si è sparsa la voce che San Sebastiano starebbe per essere travolta dalla colata di lava, e che anche Cercola è minacciata. Sono stato mandato a raccogliere informazioni sul posto.
Strade sdrucciolevoli per la cenere. Si sbandava di continuo. A San Giorgio un posto di blocco costringeva tutti i mezzi non impegnati nei soccorsi a fare dietrofront. I rapporti pervenuti dalla zona parlavano di una pioggia di lapilli, e della caduta in alcuni punti di pietre più grandi che avevano già provocato un morto. Ora mi trovavo proprio sotto la grande nuvola grigia, tutta rigonfiamenti e protuberanze, simile a un colossale cervello pulsante.
Arrivando a San Sebastiano, sembra incredibile che la gente del posto accetti di continuare a vivere in una posizione come quella. Il paese, costruito all’estremità di una lingua di terra fino a oggi risparmiata dal vulcano ma completamente circondata dalle impressionanti distese di lava lasciate dall’eruzione del 1872, è in effetti adagiato nell’avvallamento che separa le due colate. Solo nell’ultimo secolo ci sono state nove grandi eruzioni; in molti casi la colata ha preso questa direzione, e spesso correnti di lava sono fuoriuscite da bocche laterali ai livelli inferiori del pendio. Vedendolo lì incagliato nella terra di nessuno del vulcano, chiunque venisse da fuori. giurerebbe sulla certezza matematica della sua distruzione, ma a quanto pare nessun abitante di San Sebastiano ammette anche solo la possibilità di un evento del genere. Che il paese sia destinato a durare nel tempo è un articolo di fede. Gli edifici sono solidi, e costruiti per sfidare i secoli. Sono stati piantati alberi a crescita lenta. I negozi del corso reclamizzano orgogliosamente l’anno lontano della propria fondazione. La popolazione è in aumento, e i giovani non emigrano. Tutte le finestre del paese guardano con speranza oltre le verdi vallate, a occidente, in direzione di Napoli, e le case danno le spalle al grigio, immutabile cono del vulcano. San Sebastiano risponde con il colore al deserto di antica lava cinerea che la cinge d’assedio. Nonostante la guerra, ho trovato un paese dipinto di fresco, con gerani a ogni balcone, e una vivacità supplementare fornita dai manifesti e dalle bandiere dei partiti politici.
Al momento del mio arrivo la lava stava avanzando piano piano lungo la strada principale del paese, e a cinquanta metri dalla grande massa di detriti in lento movimento alcune centinaia di persone, perlopiù in nero, stavano inginocchiate in preghiera. Reggevano bene in alto stendardi sacri ed effigi di santi, e i chierichetti facevano ondeggiare i turiboli con l’incenso e spruzzavano acqua benedetta in direzione delle ceneri. Di tanto in tanto un paesano sconvolto afferrava uno stendardo e lo brandiva contro il muro di lava, agitandolo rabbiosamente come per scacciare gli spiriti maligni dell’eruzione. Lo spettacolo che mi si presentava era assolutamente inatteso. Ero preparato a fiumi di fuoco, ma non c’erano né fuoco né incendi, solo il lento, progressivo soffocamento del paese sotto milioni di tonnellate di lava scura che si muoveva a una velocità di pochi metri all’ora, e aveva sepolto metà del paese sotto una coltre alta una decina di metri. L’intera cupola di una chiesa, intatta, staccata dal- l’edificio ormai sepolto, scivolava piano verso di noi sul suo letto di ceneri. Tutto accadeva in una calma irreale. Una serie di lievi sussulti e tremori ha scosso la massa nera, e dalla sua sommità sono rotolati giù grumi di cenere. Sotto i miei occhi, una casa è stata prima lentamente circondata poi travolta, scomparendo ancora intatta; un debole, distante sfrigolio ha segnalato che la lava stava cominciando il suo processo di digestione. Mentre guardavo la scena un alto edificio, che ospitava quello che doveva essere il caffè più frequentato del paese, ha dovuto sostenere la pressione della massa in movimento. Per quindici o venti minuti ha resistito, poi lo spasmo vibrante e tremante della lava è parso trasmettersi alla struttura, che ha cominciato anch’essa a tremare, finché i muri si sono gonfiati ed è crollata.
Su tutto dominava, un po’ per le dimensioni stesse e un po’ per la quantità di persone che ne sorreggevano il basamento fronteggiando l’eruzione, l’effigie di san Sebastiano. Imboccando una stradina laterale, tuttavia, ho scoperto un’altra statua, anch’essa circondata da molti devoti e coperta da un lenzuolo bianco. Uno dei carabinieri che perlustravano i dintorni a caccia di sciacalli mi ha detto che si trattava della statua di san Gennaro, fatta arrivare di nascosto da Napoli come ultima risorsa qualora tutto il resto fosse fallito. L’avevano coperta con un lenzuolo per evitare di offendere la confraternita di san Sebastiano e il santo stesso, che avrebbe potuto risentirsi per quell’intrusione nel suo territorio. Solo come estremo rimedio avrebbero portato allo scoperto san Gennaro, implorandolo di fare il miracolo. Il carabiniere non credeva che sarebbe stato necessario, perché secondo lui era evidente che la colata stava rallentando.
Siamo tornati insieme sul corso, e in effetti, per quanto potevo vedere io, nell’ultima ora la lava non era avanzata. Il caffè era scomparso, ma il cinema accanto c’era ancora, e adesso era protetto da una dozzina di giovani che avevano formato un cordone e brandendo le croci si erano avvicinati fino a pochi metri dalla lava. Mentre stavamo a guardare, non un solo masso era rotolato giù dal nero fronte della colata. Cadevano ancora fiocchi di cenere più soffice della neve, ma ora il giorno pareva essersi rischiarato, e per un attimo abbiamo visto davanti a noi, come attraverso uno strappo in un sipario, il cono del vulcano illuminato dal sole. Da qualche parte alle nostre spalle, un coro di voci infantili ha intonato il Te Deum. Forse mezza città si sarebbe davvero salvata.
24 marzo
Oggi è evidente che l’eruzione ha perduto vigore, e le notizie sono che una metà circa di San Sebastiano è stata effettivamente risparmiata.
Sono andato a trovare Lattarullo, il quale mi ha presentato a un amico, Carlo Del Giudice, l’ennesimo avvocato che non esercita e si guadagna da vivere in modo estremamente precario scrivendo articoli di folclore e di astronomia per i giornali.
Gliene pubblicano uno o due al mese e, calcolando la svalutazione, viene pagato più o meno l’equivalente di una sterlina al pezzo. Come Lattarullo, vive di surrogato di caffè, di semi di zucca e di una pizza quando capita, e fuma sigarette che veri e propri artisti ricavano dai mozziconi raccolti per strada. C’è chi le preferisce alle semplici Chesterfield, Lucky Strike o Camel, sostenendo che hanno più gusto. Del Giudice non ha, a differenza di Lattarullo, un’aria tirata e smunta; la fame gli ha piuttosto provocato una sorta di malsano gonfiore. Sembra un guscio vuoto.
Del Giudice è un esperto di san Gennaro, e quindi del Vesuvio, visto il legame che unisce l’uno all’altro. Ha pubblicato a sue spese un libriccino sulle spiegazioni scientifiche e naturali dei miracoli. Dato che né a lui né ai suoi amici, tutti gran conoscitori di eruzioni, era stato permesso di avvicinarsi al Vesuvio, Del Giudice era felice di poter parlare con qualcuno che aveva assistito all’evento da vicino, e ha voluto conoscere nei dettagli la mia esperienza a San Sebastiano. La cosa che lo ha più interessato è stato il racconto del san Gennaro nascosto dietro l’angolo, pronto a entrare in azione in caso di emergenza estrema.
Secondo la maggior parte dei napoletani, ha detto Del Giudice, se anche il santo fosse stato portato allo scoperto non avrebbe fatto la minima differenza. Da quattordici secoli infatti, a partire dal giorno del suo martirio a Pozzuoli, san Gennaro limita la sua attività miracolosa a Napoli, e si è convinti che non muoverebbe un dito per salvare il resto del mondo dalla distruzione. Il suo compito è tenere a bada il fuoco del Vesuvio, ma a esclusivo beneficio di Napoli. Durante tutto questo tempo Resina e Torre del Greco, rispettivamente a soli otto e undici chilometri sulla costa, sono state distrutte dalla lava, e ricostruite, sette volte.
Personalmente Del Giudice si considera uno scettico e un razionalista, e qui Lattarullo ha annuito, come a dire, lo sono anch’io. Tuttavia, tre persone su quattro – persino fra quelle colte – sono apertamente o segretamente convinte che Napoli può essere al sicuro dal Vesuvio solo con san Gennaro dalla sua parte. Del Giudice ha ricordato l’unico periodo nella storia durante il quale la città abbia tentato di cambiare santo, e le conseguenze che ne sono derivate. Quando nel 1799 l’esercito di Napoleone prese Napoli, il santo fu chiamato a partecipare alla resistenza contro gli occupanti. I preti addetti al suo culto dichiararono che il primo sabato di maggio non si sarebbe verificata, a differenza di quanto accadeva ogni anno, la miracolosa liquefazione del sangue coagulato custodito in un’ampolla all’interno della cattedrale. Poiché da sempre si credeva che la prosperità di Napoli dipendesse da quel miracolo ricorrente, ci furono dei tumulti, durante i quali vennero uccisi alcuni soldati francesi. Alle otto di sera di quel sabato, quando già una turba urlante e inferocita si stava raccogliendo per le strade, un ufficiale dello Stato Maggiore francese si presentò dal prete che avrebbe dovuto officiare la cerimonia accordandogli dieci minuti per far accadere il miracolo, allo scadere dei quali sarebbe stato fucilato. Il sangue si sciolse immediatamente, ma san Gennaro, accusato dai napoletani di collaborazionismo, fu destituito, e la sua effigie gettata in mare. Venne sostituito da sant’Antonio Abate, scelto in quanto protettore celeste contro il fuoco, ma risultò che le sole fiamme che questi potesse prevenire o estinguere – e, secondo Del Giudice, durante il suo mandato assolse magnificamente all’incombenza – erano quelle provocate dall’uomo. Dalle testimonianze storiche, dice Del Giudice, risulta che sotto il controllo di sant’Antonio le abitazioni private in pratica smisero di prendere fuoco, ma alla prima eruzione del vulcano il santo si rivelò impotente, e quando ormai la colata stava avanzando verso la città alcuni pescatori vennero inviati a dragare il fondale marino per recuperare san Gennaro. Ci fu un attimo di crisi, poiché i pescatori avevano un bel cercare, ma la statua era rimasta sott’acqua per molti anni e non si trovava. Tuttavia, all’ultimo momento venne in aiuto una statua del santo eretta sul ponte di Maddaloni, e chissà come dimenticata, che andò incontro alla lava sollevando e spalancando le sue braccia di marmo. Con questo evento miracoloso, che si dice abbia avuto migliaia di testimoni, i giorni di sant’Antonio erano finiti. San Gennaro era tornato.
La gente, dice Del Giudice, crede a qualsiasi cosa.
25 marzo
C’è il timore che quest’anno il sangue di san Gennaro non ne voglia sapere di liquefarsi, e che il mancato evento possa venire sfruttato da fazioni clandestine antialleate e da provocatori per scatenare quei tumulti di massa che si sono spesso verificati in passato nella stessa circostanza. Ovunque si respira un desiderio spasmodico di miracoli e rimedi taumaturgici. La guerra ha ricacciato i napoletani nel Medioevo. Le chiese si sono improvvisamente riempite di statue che parlano, sanguinano, traspirano, muovono la testa e trasudano liquidi benefici, di cui si impregnano fazzoletti, o che addirittura si raccolgono in flaconcini, e folle ansiose ed estatiche si radunano in attesa che questi prodigi si compiano. Ogni giorno i quotidiani riportano un miracolo nuovo. Nella chiesa di Sant’Agnello un crocifisso parlante conversa abitualmente con la statua di Santa Maria dell’Intercessione – fatto confermato dai cronisti presenti. La statua di Santa Maria del Carmine, passata alla storia per aver chinato la testa onde schivare una cannonata durante l’assedio di Napoli da parte di Alfonso d’Aragona, ha trasformato quello stesso gesto in una routine quotidiana. Era nella chiesa di Santa Maria del Carmine che, ogni anno, il re e la sua corte si recavano in visita per guardare il barbiere di Sua Maestà tagliare i capelli miracolosamente cresciuti, nei dodici mesi precedenti, sulla testa di un Cristo d’avorio. E probabile che l’usanza venga ripresa. E se anche il sangue di san Gennaro non dovesse liquefarsi, a San Giovanni a Carbonara c’è un’ampolla con il sangue del santo titolare, che, a quanto dicono i giornali, va in ebollizione ogni volta che si legge il Vangelo al suo cospetto.
Oggi la donna che cucina per noi ci ha fatto sapere che si sarebbe presa un po’ di tempo libero per visitare la cappella di Sant’Aspreno. Soffre di nevralgie, e spera che infilare la testa in un buco nel muro della cappella le procuri sollievo. Il santo è il patrono di tutti i sofferenti di emicran06ia, e ogni giorno davanti alla cappella si formano code di gente in attesa di potersi sottoporre al trattamento. Napoli ha raggiunto uno stato di esaurimento nervoso in cui le allucinazioni di massa sono diventate un fatto ordinario, e qualsiasi credenza può essere più vera del vero.
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Prezioso documento di cose di casa nostra. Lo divulgherò il più possibile.
Grazie.
Giuseppe.
Documento preziosa testimonianza di un’epoca che, purtroppo, non vivremo più: altra gente, altre situazioni, altri stati d’animo- Grazie Antonio.
..
Grazie, Antonio, leggo volentirei ciò che scrivi perché mi ‘ricrea’, come una volta dicevamo. Non conoscevo questo libro e i racconti da te riportati sono realmente l’epopea di un incredibile popolo, parte del quale, tuttavia, ha creato la terra dei fuochi!
Il libro é in inglese? Quello che hai scritto é stato da te tradotto?
Mimmo
Ero bambina ad Albano di Lucania. Grande fu il mio stupore nel vedermi nevicare addosso fiocchi neri. Passarono almeno venti giorni prima che ricevessimo notizie dei nostri parenti di Napoli. Mery
Io ero in via Monte,di ritorno da casa Juvone, quando cominciarono a cadere i primi fiocchi di neri, che presto infittirono. Il ricordo della nevicata nera è emozionante. Sono contento di avertela ricordata,
Sai che ti dico? Siamo testimoni di giorni straordinari!
Ed è piacevole testimoniare quei giorni, mai privati della tua misteriosa presenza.