Le istituzionali deflagrazioni della bomba Ercoli
A Mosca, il compagno Ercole Ercoli progetta una bomba istituzionale programmata con due deflagrazioni a tempo, di enorme potenza. Il 16 febbraio 1944, col suo vero nome di Palmiro Togliatti, intraprende un lungo viaggio per il ritorno in Italia, che si conclude a Napoli la sera del 27 marzo. L’arrivo era stato preceduto dalla prima deflagrazione, scoppiata il 14 marzo, con l’annuncio del formale riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’Unione Sovietica e l’instaurazione di regolari rapporti diplomatici. Il 19 marzo si ha l’eruzione del Vesuvio. Il 22 aprile scoppia la seconda deflagrazione, con effetti più sconvolgenti dell’eruzione vulcanica.
All’eruzione del Vesuvio Rabatana ha accennato in un precedente articolo, dove si tracciava un breve profilo di Abdon Alinovi, ventenne segretario della Sezione del PCI di Tricarico, in riferimento al comizio che lui, Rocco Scotellaro e Carlo Grobert tennero dalla cappella di San Pancrazio nella piazza di Tricarico il 1° maggio del 1944. In quel profilo Rabatana ebbe la preoccupazione di porre in evidenza come il giovanissimo capo dei comunisti tricaricesi, venuto da Eboli, e cancelliere della locale pretura, poco o niente avesse capito della bomba Ercoli. L’eruzione del Vesuvio fu dunque, per Rabatana, la metafora che illustrava la generale confusione. Torno ora ad insistere con un paio di esempi. Il commediante o commediografo di turno, che sapeva trarre grande successo dalle sue fulminanti battute, lanciate senza sapere di che parlava – si chiamava Guglielmo Giannini, fu fondatore di un movimento politico che ebbe grande successo, l’Uomo Qualunque, e visse quel che vivono le rose: lo spazio di un mattino – così interpellava Togliatti: – Ahnè, ma che razza di comunista sei ?. – Si parva licet con quel che segue – tanto per aggiungere un altro esempio di una generale confusione – racconterò che di me, Benito Lauria e Giulio Dente, che ci preparavamo da privatisti per l’esame di terza media, perché le scuole superiori, come venivano chiamate, dopo l’armistizio erano chiuse; eravamo tre ragazzi tredicenni forse un po’ saccentelli, e ci davamo da fare per sapere e capire tutto quello che si poteva. Discutendo animatamente tra di noi, e leggendo quello che si trovava nelle sezioni socialista in piazza e democratico cristiana nel corso, e i titoli dei giornale e delle riviste che Carolillo esponeva sul tavolo della sua edicola, farneticammo che nel partito comunista si fosse consumato un aspro scontro politico tra le sue due più eminenti personalità: Ercole Ercoli e Palmiro Togliatti. Lascio immaginare come restammo quando venimmo a sapere che Ercoli e Togliatti erano la stessa persona. Abdon Alinovi non lo ignorava, ma la sua confusione non era da meno della nostra, se nel suo comizio del 1° maggio giunse a invocare tribunali del popolo e plotoni di esecuzione.
Intanto, a parziale giustificazione, va ricordato che, se l’amministrazione era stata trasferita dagli Alleati al governo Badoglio, esso era ignorato e avversato dai politici e posto sotto la ferrea sorveglianza della Commissione alleata di controllo, e circolavano scellini, sterline, dollari e amlire dall’oscillante e mai chiaro potere d’acquisto.
Dopo il comizio di Alinovi, noi tre ragazzi saccentelli, avemmo un sorriso sornione, perché avevamo capito che non si possono istituire tribunali del popolo e mettere al muro chi sta antipatico, se il capo del proprio partito è vicepresidente del consiglio, che passerà alla storia per aver approvato una famosa e generosa amnistia; e se di quel governo fa parte un Alto commissario per l’epurazione, che era il socialista Mario Berlinguer, padre di Enrico.
Ma ora bisogna cercare di capire che cosa fu la svolta di Salerno.
Abbiamo visto che il ritorno di Togliatti a Napoli fu preceduto di pochi giorni dalla notizia del riconoscimento, da parte dell’Unione Sovietica, del governo Badoglio. Del governo Badoglio, che era a Brindisi e in seguito si traferì a Salerno, facevano parte militari e tecnici. Ai partiti politici italiani, che intanto si erano costituiti, non passava neppure per l’anticamera del cervello l’idea di far parte di un governo se prima non fosse stata risolta la questione istituzionale e il re non avesse abdicato. Il 28-29 gennaio 1944 ebbe luogo a Bari un grande congresso dei partiti antifascisti, che domandò l’immediata abdicazione del re e la convocazione di un’assemblea costituente, da eleggersi appena finita la guerra. C’era addirittura chi pretendeva l’abdicazione di Vittorio Emanuele e del figlio Umberto, e l’affidamento delle prerogative reali al figlio di Umberto Vittorio Emanuele sotto la reggenza di una commissione presieduta da Badoglio.
Ed ecco arrivare le sorprese della bomba Ercoli. La prima – si è già detto – fu l’improvviso e inaspettato riconoscimento formale del governo Badoglio da parte dell’Unione Sovietica. Gli angloamericani furono presi alla sprovvista e si affrettarono a riconoscere a loro volta il governo Badoglio, dando inizio al giuoco del migliore offerente.
La seconda sorpresa fu una bomba più sconvolgente dell’eruzione vulcanica. Togliatti sostenne che fosse necessario rinviare la questione monarchica al dopoguerra e che occorresse costituire immediatamente un governo politico con l’appoggio dei partiti democratici. Detto in altri e più chiari termini, Togliatti accettava di collaborare con la monarchia e il maresciallo Badoglio; sostenendo che per il momento occorresse un governo di unità nazionale, lasciando in sospeso la questione monarchica, col formale mantenimento della titolarità del trono da parte di Vittorio Emanuele III, ma col trasferimento al figlio Umberto, quale Luogotenente Generale del Regno, trasferimento che si sarebbe concretizzato non immediatamente, ma con l’ingresso degli Alleati nella Roma liberata. Un’assemblea costituente avrebbe infine disegnato il nuovo assetto istituzionale dell’Italia nel dopoguerra.
Di fronte a tale cambiamento, anche i partiti più tenacemente repubblicani furono costretti a disarmare e il 21 aprile 1944, sempre sotto la presidenza del maresciallo Badoglio, si costituì il primo governo politico di partiti che l’Italia abbia conosciuto dal 25 luglio 1944, cioè dalla caduta del fascismo. Il governo giurò il 22 aprile. Di questo governo fecero parte sei partiti (DC. PCI, PSIUP (già PSI), PLI, PDL, PdA. Solo il PRI rimase fermo sulla sua pregiudiziale antimonarchica. Togliatti, come detto, fu vicepresidente. Vi parteciparono eminenti personalità (ne cito uno per tuti: Benedetto Croce); due furono i ministri lucani: il socialista Attilio Di Napoli e l’ex nittiano Francesco Cerabona, che nel governo rappresentava il PDL.
Roma fu liberata il 4 giugno 1944. Era una domenica. Lunedì 5 giugno uscita di scena del re Vittorio Emanuele, che si ritira delegando i poteri di Luogotenente Generale del Regno al figlio Umberto. Soluzione costituzionale, che toglieva di mezzo il bisogno dell’abdicazione ed estrometteva totalmente il re dalla trattazione degli affari. Martedì 6 giugno dimissioni del governo Badoglio e il sabato l’annunzio di un nuovo governo di unità nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi e comprensivo di personalità del Cln romano. I ministeri senza portafoglio, politicamente i più significativi, furono assegnati a Giuseppe Saragat, Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Alberto Cianca, Meuccio Ruini, Carlo Sforza e Benedetto Croce.
I ministeri erano rimasti dov’erano, ossia a Salerno, giacché così si convenne per ragioni di sicurezza, almeno sino al ritorno di Roma alla tranquillità.
Ai membri del governo e familiari fu data villa Guariglia, un palazzo barocco in vista del mare, a Raito, frazione di Vietri, che per la circostanza ebbe un’impronta di casa albergo. A ognuno le camere da letto necessarie, il refettorio era in comune.
Dalle verande pendevano robe stese ad asciugare. L’angustia dei tempi ha una sua fisicità anche in questo luogo, che pure è luogo popolato da governanti: il vento muove mutandoni pieni di rattoppi, camicie con rammendi sopra rammendi.
Al refettorio la tavola dei ministri e dei familiari è unica. Se la cucina passa polpette, il cameriere alza le ditta, per indicare quante ne spettano a ognuno, due o tre.
Meglio e più abbondantemente si mangiava alla mensa ufficiali della Guardia di Finanza, la cui caserma era vicino a Villa Guariglia. A questa mensa era ovviamente ammesso con i suoi e ospiti il ministro delle Finanze Stefano Siglenti, zio di Enrico Berlinguer, (lo zio Fanu). Enrico Berlinguer faceva parte della compagnia, in quanto figlio di Mario, Alto commissario per l’epurazione e nipote del ministro. Uno degli ospiti che volentieri accettava l’invito di Siglenti era Benedetto Croce, genio di appetito robusto: curvo su piatti succulenti, si tingeva i baffi di sugo. Cicci, sette anni, figlia del ministro, toccava il braccio del cugino Enrico: «Ma guarda questo come mangia!» Il cugino sorrideva e le sussurrava: «Zitta, non lo sai che è l’uomo più intelligente del mondo!».
L’11 aprile del 1961 Togliatti sentì ancora il bisogno di rendere , al teatro Comunale di Bologna una testimonianza sul governo di Salerno, con un accenno all’eruzione del Vesuvio. Questa testimonianza si può leggere sulla rivista della fondazione ItalianiEuropei del 7 dicembre 2011. Mi limito a riportare alcuni illuminanti passi iniziali.
«Del governo di Salerno, di solito, o non si parla, o si parla con un certo tono di altezzosità e sufficienza, come se si trattasse esclusivamente di un episodio di lotta e concorrenza di partiti che si può anche dimenticare, nel corso del quale i diversi partiti si sarebbero mossi per motivi deteriori, senza vedere quale cosa grande e nuova fu questo governo, momento di decisiva importanza per l’organizzazione della resistenza al fascismo e di quella lotta antifascista che si dovette condurre dal 1943 fino alla insurrezione del 1945 per liberare l’Italia dal regime delle « camicie nere » e dallo straniero.
Naturalmente la situazione era allora politicamente molto confusa. La creazione stessa del governo di Salerno fu un momento di una lotta politica di portata tanto nazionale quanto internazionale, intricata, difficile; però, sarebbe un grave errore se, per motivi secondari, si dimenticasse quello che ha rappresentato la costituzione di quel governo, che fu il primo, formato dopo il crollo del fascismo, nel quale entrarono i rappresentanti delle grandi organizzazioni popolari antifasciste, di tutti i partiti antifascisti che allora esistevano sul territorio nazionale. Una svolta, quindi, dalla ribellione, dalla tardiva ribellione monarchica e amministrativa del 25 luglio, alla vera lotta di liberazione, cioè all’inizio di quel processo che doveva portarci a rinnovare gli ordinamenti democratici e ad aprire la strada di un rinnovamento generale della vita nazionale.
Ho detto che la situazione politica nella quale si costituí il governo di Salerno era molto confusa, difficile. Inoltre la lotta politica si svolgeva su uno sfondo di effettiva catastrofe della vita nazionale. Di questo posso dare ampia testimonianza.
Io arrivai a Napoli il 27 marzo del 1944. All’inizio della guerra mi trovavo in Francia, dove fui arrestato e passai un periodo di tempo in carcere; poi potei recarmi, con mille espedienti, nell’Unione Sovietica, e da Mosca partii alla fine di febbraio del 1944 per giungere in Italia. Il 27 marzo arrivai a Napoli. Era uno spettacolo che chiamare apocalittico forse è poco. Vi era anche un quadro di eventi naturali che impressionava. Era in corso una eruzione del Vesuvio e tutte le vie di Napoli, tutte le strade delle campagne adiacenti erano coperte da uno strato di cenere di cinque-dieci centimetri. Non si poteva camminare, non si poteva andare in macchina, senza essere stretti alla gola da questa polvere che soffocava. Ma, soprattutto, quello che impressionava era la città. Sapevo che a Napoli vi era stata la Resistenza, vi era stata una lotta eroica, vi era stata l’insurrezione del popolo napoletano che aveva contribuito alla cacciata dei tedeschi dalla grande capitale italiana del Mezzogiorno. Eppure, arrivando a Napoli nel marzo del 1944, tre-quattro mesi dopo i fatti di Napoli [Qui Togliatti allude alle gloriose Quattro Giornate di Napoli], lo spettacolo era degradante: dappertutto miseria, dappertutto corruzione, disgregazione, sfacelo. […]
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A casa mia si leggeva molto. Tutti obbligati a farlo ad alta voce e a spiegare quello che si era letto. Non era facile capire tra le righe dei giornali ciò che accadeva. Ce ne saremmo resi conto di lì a poco. Mery