TOGLIATTI

 

Ercoli, l’uomo che veniva da Mosca, Palmiro Togliatti, il capo leggendario che nessuno conosceva, si presentò alla porta della cadente federazione napoletana del Pci la sera del 27 marzo deI 1944. Dopo un viaggio asiatico levantino mediterraneo più adatto al trench di Humphrey Bogart che ai suoi occhialetti da intellettuale anni Trenta. Nessuno lo aveva mai visto tra i dirigenti napoletani, e nessuno lo aspettava così d’improvviso. Nessuno immaginava soprattutto le scelte che i suoi primi cento giorni italiani preparavano, dopo diciotto anni di esilio e di lunga familiarità coi capi superstiti del bolscevismo della vecchia Internazionale (e con Stalin, il mito in terra). Vestiva una giacca di tweed marrone, un maglione di lana, e coi suoi cinquantun anni portati male e la pipa in mano, apparve a Valenzi come uno dei tanti ufficiali inglesi che nella Napoli dei falò per le strade e delle segnorine giravano in cerca di fortuna. Napoli era allora la capitale di un’Italia virtuale divisa dalla guerra, e viveva i suoi grandi momenti di miseria e di orgoglio, poverissima e ferita, ma insieme vivissima di fermenti e di speranze, e di ricordi di antica capitale. L’attesa era dei comunisti – divisi tra eretici e ortodossi; intransigenti e fautori di una via democratica, nessuno sapendo dove sarebbe stata l’eresia e dove la virtù -; ma aspettavano le prime mosse di Togliatti anche gli altri antifascisti, e Croce e il suo gruppo, politici e politicanti, intellettuali, questuanti vari, ex-fascisti timorosi. E sembra, leggendo questa cronaca del giorno per giorno di un protagonista di allora, che, come il sasso caduto nello stagno, Togliatti, sbarcando a Napoli, mettesse in moto tutto, e tutti quanti, uniti e divisi, mettesse in una marcia prefigurante l’Italia di poi. E che lui, Togliatti, fosse mosso, nelle svolte di quei cento giorni, dalla visione di quella Napoli capitale: immagine, sintesi, storia e cronaca, specchio e spaccato di un’Italia sconosciuta e vera. (A cura di Pietro Gargano)

Maurizio Valenzi, pittore, senatore e parlamentare europeo, è stato il sindaco di Napoli forse più popolare del dopoguerra. Nei primi anni Trenta, a Tunisi, ha iniziato l’attività politica antifascista, che lo porterà, tra il Nordafrica e Parigi, prigionia e campi di concentramento, a diventare membro del CLN e dirigente del Pci, e, dal 1944, esponente di primo piano della vita culturale e politica napoletana.

Di seguito incollo le pagine 17.  18, 19, 20 e 21 del volumetto di Valenzi, ricevute da Gilberto Marselli, che ringrazio (a.m.)

 

La sera napolitana del 27 marzo 1944  una delle tante di quel tempo, deserta e cieca. All’imbrunire il coprifuoco svuota le strade. i lampioni restano spenti, fragile scudo di buio contro le incursioni degli Junker 88 della Luftwass. Ma qui a volte anche la natura congiura col nemico: il Vesuvi0 accende i suoi bracieri e indica la rotta nell’oscurità agli aerei tedeschi, il 14 marzo le bombe naziste hanno fatto subito 3oo morti e cumuli di rovine. Il 19 il vulcano, liberatosi dalla lava pressante, ha fatto 5 vittime.

La montagna lancia ancora cenere nell’aria umida e fumosa. Stasera rari lumi filtrano dalle finestre delle case. Nelle stanze finalmente silenziose della federazione comunista di San Potito siamo rimasti in tre, Salvatore Cacciapuoti, Clemente Maglietta e io. Abbiamo fame e sonno, ma restiamo. Soprattutto Cacciapuoti, il segretario, insiste per fare un bilancio della giornata: quanta gente ha consumato le scale dell’ottocentesco palazzetto grigio, quali nodi politici restano implicati, quanto manca al bilancio del partito.

Alle 21 Maglietta rinuncia, “io stacco, non ce la faccio più”. L’obiezione di Cacciapuoti è un sussulto di tosse, il suo modo nervoso di dissentire. Sto per dare ragione a Maglietta, mi fermano due colpi alla porta, decisi.

Un’occhiata all’orologio e ci mettiamo all’erta. È un’ora insolita per le visite, abbiamo qualche avversario, la città è infestata di bande di disertori americani pronti ad usare le armi per pochi spiccioli o per una gratuita violenza. Cacciapuoti va alla porta. Sentiamo il cigolio del battente e un vago mormorio. Decifriamo una frase appena: «è troppo tardi, la federazione è chiusa, tornate domani». Scorrono i secondi. Che cosa sta accadendo? Sono già in piedi, mi blocca un urlo di Cacciapuoti. «è lui, è arrivato. Correte, Ercoli è qui».

Palmiro Togliatti, il compagno Ercoli, è pallido e smagrito, più vecchio e stanco dei suoi 51 anni. Ha gli occhiali, con un’antiquata montatura di metallo, in mano una pipa di radica. Una giacca marrone di tweed sopra un pullover a girocollo grigio da marinaio gli dà un’aria trasandata e un po’ straniera. L’avessi incontrato sul lungomare di Napoli o alla Marina di Tunisi l’avrei ottimisticamente scambiato per un ufficiale britannico in borghese e in attesa di fortuna. Invece è il capo del partito comunista italiano che torna dopo diciotto anni di esilio.

E’ in ritardo, lo aspettavamo da settimane. Il suo ritorno è stato ostacolato. Egli stesso, il 4 novembre del 1943, ha inviato da Mosca un telegramma in francese a Badoglio per sollecitare il ritorno in Italia. Il 19 dicembre Reale, Spano e Marroni hanno premuto sulla Commissione alleata. Poi Reale si è rivolto a Viscinski, chiedendo anche il rimpatrio di Eduardo D’Onofrio, Ruggiero Grieco. Giovanni Germanetto e Luigi Bianco. Soltanto il 16 febbraio la Commissione alleata ha detto sì.

Togliatti è accompagnato dall’avvocato Adriano Reale, fratello del nostro compagno Eugenio. Adriano non ha mai aderito al Pci, milita nel Partito d’Azione. Con una solennità in cui è evidente l’ironia, dice: «Signori, permettete che vi presenti il segretario del vostro partito».

La situazione è buffa. Togliatti oppone una curiosità benevola alla nostra sorpresa. Dopo le strette di mano, finalmente parliamo. L’italiano di Togliatti è corretto ma pieno di pause, come a cercare le parole appropriate. E’ sbarcato dal mercantile britannico Tuscania  dopo un viaggio estenuante che, cominciato a Mosca il 18 febbraio, lo ha portato a Baku, a Teheran, al Cairo e ad Algeri. Ha cercato invano Eugenio Reale, infine è approdato allo studio legale, a Materdei, del fratello Adriano, che lo ha accompagnato qui.

Chiede di visitare la sede, si sofferma in ognuna delle cinque camere frustate dagli spifferi nonostante la primavera. Lancia domande: come va il lavoro? Quando vi riunite? Come vi siete organizzati?

«Quanti sono i compagni napoletani iscritti?» chiede poi.

«Dodicimila».

Non sembrava entusiasta della cifra, ma non replica. All’improvviso domanda ancora: «E Bordiga, che cosa fa Bordiga?».

«Niente» rispondo.

«Non è possibile, cercate di capire».

Prima di partire Togliatti ha confidato a Umberto Cerreti, suo collaboratore alle trasmissioni in italiano di Radio Mosca, di temere una sorte simile a quella di Lucia Mondella al suo arrivo a Bergamo: tutti la immaginavano molto bella e rimasero delusi. Ma se ci sono preoccupazioni e tormenti dietro questa espressione severa – e certamente ci sono – non sono percettibili. Togliatti ha un moto di insofferenza soltanto quando lo informiamo che il Consiglio nazionale del partito si terrà a Napoli fra pochi giorni, è già stato convocato. «E se non fossi arrivato in tempo?»

Gli abbiamo riservato una stanza nell’appartamento di via Broggia, che è lontana non più di cento metri da San Potito. Raggiungiamo la casa con l’automobile di Adriano Reale, sfidando i falò e le segnorine, dopo una tappa nello studio dell’avvocato Reale per ritirare il bagaglio che Togliatti vi aveva lasciato. La stanza destinata a Togliatti, una delle otto, ha un balcone che s’affaccia sulla strada. Spartana: un letto, una sedia, un tavolino. Ma è più ampia e ariosa delle nostre. Mancano tuttavia le lenzuola. In tutta fretta le procura la sorella di Maglietta, Varsavia Cataldi, moglie di un medico azionista che diverrà sottosegretario di Omodeo nel Governo Badoglio. Varsavia prepara anche due uova al tegame.

Togliatti ispeziona tutto l’appartamento. Si ferma più a lungo nella sala da pranzo dal grande tavolo, stipata di altri mobili scuri in stile fiorentino, che eleggerà a suo studio; e nella cucina dalla dispensa languente: qualche barattolo di piselli e un castelletto di cachi, unici frutti disponibili al di fuori del mercato nero.

Attendiamo un cenno di gradimento. Lui ci chiede ancora dell’organizzazione del partito. È contento di sapere che le cellule operaie nelle grandi fabbriche sono la nostra base. Snocciola altre domande: quale influenza hanno gli altri partiti sull’opinione pubblica napoletana? Qual è lo stato dell’economia della città? Come sono i rapporti fra la gente  e i militari americani? Chi sono i dirigenti socialisti locali?

Oramai è notte fonda. È tempo di dormire. Salutando, Togliatti mi dice: «scrivimi una tua biografia». E’ una prassi corrente nella burocrazia comunista. C’è sempre l’ombra del sospetto. Tu racconti la tua vita, specialmente la tua militanza, e tre mesi dopo qualche altro dirigente ti chiede una seconda biografia, e più tardi un’altra ancora. Se la riscrivi uguale, magari pensa che hai paura di contraddirti o hai qualcosa da nascondere. Se cambi, setaccia ogni parola alla ricerca delle contraddizioni con la prima versione. Così si è sviluppata l’inevitabile tendenza a sottolineare gli errori commessi, a fare autocritica.

La mattina dopo tento di scrivere la mia prima biografia in Italia. Comincia a Tunisi e per ora si chiude a Napoli, la città che per me ha scelto il partito.

 

 

2 Responses to Una testimonianza diretta (di Maurizio Valenzi) del ritorno di Togliatti

  1. D. Jankovich ha detto:

    Penso che dobbiamo tutti ringraziare nostro amico Antonio per tutti straordinari e scelti con maestria articoli pubblicati ultimamente, malgrado il caldo africano – 48 Celsius percepiti a Ferrara – difficile da sopportare alla nostra non più giovane età. Grazie di cuore da un più che coetaneo amico.

    • Antonio Martino ha detto:

      La ringrazio, caro Dusco, e mi chiedo se ha più difficoltà l’85.enne che pubblica un blog nonostante il caldo africano, come lei lo definisce, o il 93.enne che lo legge. Lei è una forza della natura!

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