Dove è andato il tempo che è passato? La pubblicità televisiva della collezione della riproduzione dei giornali dell’epoca di guerra, con bene in vista la prima pagina de Il Popolo d’Italia dell’11 giugno 1940, giorno successivo all’entrata in guerra dell’Italia, mi ha procurato una eccitazione, un misto di emozioni, ricordi, interesse e paura. Ho dovuto attendere alcuni giorni e farmi forza per acquistare la prima uscita e leggerla.

     L’11 giugno del 1940 mancavano meno di una decina di giorni al compimento del mio decimo anno di età. Era scoccata un’ora segnata dal destino: foriera di fulgide vittorie, tramutatesi, col tempo, nel tramonto degli dei. Fu allora che smisi di leggere Topolino, l’Intrepido, il Corriere dei Piccoli e cominciai a leggere i quotidiani che comperava mio padre o sui quali mi era possibile sbirciare nell’unica edicola del paese. Non ero un bambino prodigio, quelli erano tempi eccezionali, ed allora esaltanti, che fecero scattare il bisogno di informarsi, leggere i giornali, ascoltare la radio, i quotidiani bollettini di guerra e i comunicati dal gran quartiere generale del  Führer.

     Il primo giornale che lessi fu proprio Il Popolo d’Italia dell’11 giugno 1940, di cui ora ho tra le mani la fedele riproduzione delle pagine 1 e 2. Il ricordo della prima pagina è nitido e mi sconvolge.

     Il Popolo d’Italia è stato un quotidiano di Milano fondato da Benito Mussolini, a cui il duce tenne come sua creatura prediletta. Quando Mussolini divenne il duce, affidò la direzione del giornale al nipote Vito, figlio del fratello Arnaldo, che, di fatto, esercitò la funzione per un brevissimo periodo. Vito Mussolini non assunse mai la direzione effettiva del giornale, che rimane saldamente nelle mani del duce.

     Ricordo nitidamente, come ho detto, la prima pagina del giornale dell’11 giugno, è come se fossi tornato indietro di 75 anni. Ho davanti agli occhi la sua tripartizione: a sinistra l’editoriale dal titolo Guerra, al centro l’annuncio della dichiarazione di guerra pronunciato da Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia, Parla Mussolini, un discorso che ancora mi rintrona nelle orecchie, mentre negli occhi si stampano le facce tese, immobili e inespressive delle persone che l’ascoltavamo all’impiedi nella casa della vedova di un farmacista allo Scarrone di Accettura, e, finalmente, a destra i messaggi del Führer al Re Imperatore e al Duce.

     Mi colpisce la firma dell’editoriale: Giorgio Pini. Giorgio Pini l’ho conosciuto e frequentato. Suo nipote, Guido, comunista, colto giurista prematuramente scomparso, è stato mio collega. Lo zio, nominato da Mussolini capo redattore del Popolo d’Italia nel 1936, incarico, che conservò fino alla caduta del fascismo il 25 luglio 1943, aveva pubblicato un libro introvabile: Filo rosso con Palazzo Venezia. Ogni sera, puntualmente alla stessa ora, Mussolini gli telefonava per informarsi del giornale e dare istruzioni. Praticamente si trattava del rapporto tra direttore e capo redattore. Pini annotava puntualmente il contenuto delle telefonate. Quando la giusta buriana che lo colpì dopo la caduta del fascismo e della Repubblica Sociale, di cui era stato sottosegretario agli interni fu passata, per raggranellare qualche soldo pubblicò una scelta selezione di tali resoconti nel libro citato. Guido mi fece prestare il libro dallo zio e poi me lo presentò. Tornai a visitarlo qualche volta. Guido mi diceva: Vado da mio zio, vuoi venire? Giorgio Pini era nato nel 1899, era stato un fascista della prima ora, aveva fatto parte del drappello d’assalto a Palazzo d’Accursio, ed era stato un giornalista   presso importanti testate, quando Mussolini gli affidò l’incarico di capo redattore del Popolo d’Italia. La conversazione con lui era interessante. Egli  rispondeva sinceramente alle mie domande. Era fervidamente mussoliniano. Ma non aveva nostalgie, votava per il partito socialista, in omaggio a Pietro Nenni, che di Mussolini era stato amico e con lui aveva condiviso giorni di galera. Egli per me è stato  il testimone più addentro alla vicenda del fascismo e alla tragedia di cui quel regime era stato la causa, il testimone di un tempo passato, che era stato anche mio tempo passato. Dov’era andato quel tempo? Non cercavo forse, conversando con lui, di afferrare un fantasma che mi inquietava? Quel tempo, che occupa una breve parentesi della mia età molto avanzata ed è stato un tempo terribile e inquietante, il più terribile e inquietante che si possa immaginare, dove è andato?

     Ricordo l’uscita, un paio d’anni fa, di un libro che trattava questo argomento: Werner Kinnebrock, Dove va il tempo che passa. Fisica, filosofia e vita quotidiana, Bologna, il Mulino, pagg. 160, € 14,00. Sbagliai a non prenderlo in considerazione. «Dove va il tempo che passa?» sembra la domanda di un bambino e invece fu il grande Albert Einstein a chiederlo al matematico Kurt Gödel durante una passeggiata a Princeton. Con colpevole ritardo, lo comprerò e leggerò, anche se pile di libri affollano il mio tavolo, che con le mie scarse forze di vecchio fatico a sfogliare. Intanto, pubblico l’introduzione di Remo Bodei al volume, pubblicata sul Domenicale del Sole 24Ore online il 3 novembre 2013.

 Remo Bodei, Dove va il tempo che passa?

 La domanda che Einstein sembra aver rivolto al matematico Kurt Gödel, ossia «dove va il tempo che passa?», apre la strada all’esposizione di una serie d’inattese variazioni e anomalie che questo misterioso oggetto è capace di esibire rispetto al senso comune.

L’immagine del tempo dominante nel nostro senso comune (di lontana origine aristotelica, ma confermata anche da Newton, che ritiene questo l’unico tempo verum et mathematicum) è costituita da una retta infinita sulla quale scorre, a velocità costante, un punto indivisibile e inesteso, il presente, che avanza a velocità costante, separando in maniera irreversibile il passato, che gli sta alle spalle, dal futuro, verso cui procede. Si tratta, senza dubbio, di un’idea esemplarmente semplice e comoda, di cui ci serviamo continuamente e da cui è difficile staccarci. Ma è anche l’unica vera? Appena si affronti la questione, sorgono diversi paradossi (da intendersi non come assurdità, bensì come affermazioni che vanno contro l’opinione, la doxa, prevalente), dotati di differenti gradi di plausibilità. «Aprendo» il concetto di tempo nelle sue strutture elementari, come un bambino smonta un giocattolo, si vedono scaturire da ogni sua componente (il punto, la linea, lo scorrere, la velocità, la divisibilità in parti uguali, la direzione) delle stranezze o degli apparenti mostri concettuali.

Limitandomi solo ad alcuni di questi aspetti, chi ci assicura che il tempo scorra (e in modo irreversibile)? Agostino mostra, ad esempio, l’uguale plausibilità di un tempo che non scorre. Noi, infatti, non ci spostiamo mai dal presente e viviamo il passato solo nel presente del ricordo e il futuro solo nel presente dell’attesa. Il tempo, presente tridimensionale, misurato dall’animo nella sua distensio, è dunque elastico: si restringe e si concentra quasi in un punto solo nell’attenzione, si allarga «all’indietro» nel rammemorare e si prolunga «in avanti» nell’attendere o nel progettare. Per questo, il senso del passato si può modificare: quel che è accaduto non può certo essere più cancellato, ma il suo peso può variare attraverso il perdono, che permette a chi ha commesso il male o a chi lo ha subito, di ricominciare, più leggero, una nuova vita. Ed anche il futuro, per sua natura, incerto, può venire indirizzato e condizionato dalla fiducia, ad esempio, nell’assistenza e nella grazia divina, alimentata dalla speranza, o dalla fede laica nel progresso. Perché, dunque, sostenere che il tempo scorre, se non ci allontaniamo mai dal presente? E se avesse ragione il poeta barocco spagnolo Luís de Góngora y Argote, secondo il quale «Se voglio attraverso le stelle / sapere, tempo, dove sei, / vedo che con loro vai, / ma non torni con loro. / Dove imprimi le tue orme / che non trovo il tuo corso? / Ma, ahimé, m’inganno, / tu voli, rotoli e corri: / sei tu, tempo, che resti / son io che me ne vado».

Non è, quindi, il tempo che passa, siamo noi che ce ne andiamo, che siamo caduchi, mortali? Si tratta, forse, di una licenza poetica, ma serve a riflettere su quanto, nella percezione del tempo, deve restare immobile e quanto deve muoversi (se tutto, infatti, restasse uguale o se tutto mutasse senza alcun punto di riferimento costante, il tempo non ci sarebbe o non verrebbe percepito).

Il tempo è, dunque, unicamente soggettivo? È quindi ancora nel giusto Agostino quando afferma che è il nostro animo, e non sono i movimenti degli astri, a misurare il tempo (In te, anime meus, tempora mea metior)? Le scienze moderne, osserva Kinnebrock, hanno, in effetti, scoperto che uomini, animali e piante possiedono un orologio interiore, come mostrano una serie di esperimenti che stabiliscono in ciascuno di noi un ritmo circadiano spontaneo di 25 ore (ossia di quasi un giorno, circa dies). Una simile regolarità la rinveniamo in certe cicale americane che si mettono fragorosamente a cantare ogni diciassette anni o in alcune piante e fiori (si pensi soltanto al girasole), capaci di seguire i ritmi legati all’alternarsi della luce e del buio.

2 Responses to Dove va il tempo che passa?

  1. Gilberto Marselli ha detto:

    Grazie per questo tuo ricordo. Anche io ebbi occasione di frequentare Guido Pini che abitava a via del Vascello, vicino a casa mia (via Arienti) a Bologna. Ci hai dato un bel quadro delle commistioni ideologiche in Italia in quegli anni. La nostra storia è stata troppo spesso una vera e propria tragedia specie sul piano dei rapporti umani. E noi giovanssimi ne fummo le prime vittime. Grazie, Antonio

  2. Antonio Martino ha detto:

    Grazie a te, carissimo Gilberto. E ben ritrovato!

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