Giuseppe Angiuli ha pubblicato su FB la foto del vecchio orologio della piazza (o di San Francesco, come io preferisco chiamarlo) e ha precisato che la manutenzione dell’orologio era affidata a don Michele Valinotti, nonno di Mario Trufelli, contraddicendo chi aveva sostenuto che della manutenzione se ne occupasse Ciccio Trufelli, padre di Mario.

     Io ho confermato l’affermazione di Angiulli e, invece di richiamare un vecchio articolo dal titolo «L’orologio di Santa Maria dei Lombardi» pubblicato su questo blog l’11 febbraio 2011, ho dichiarato: « … e se volete sapere qual era la nostra soddisfatta reazione dopo aver compiuto l’impresa ((più avanti dirò chi eravamo noi soddisfatti dell’impresa compiuta), leggete quella stupenda pagina del Cristo si è fermato a Eboli dove si racconta della scampagnata degli emigrati tricaricesi a Newark. Questo orologio è una delle immagini della mia Tricarico perduta». Peppino Angiulli la pagina del Cristo l’ha cercata, l’ha letta e ha capito. Ma ci sono altre storie che girano intorno all’orologio della piazza, che non si raccontano neppure nel vecchio articolo prima citato, e che ora mi accingo a ricordare. A ricordare tutto, perché ne vale la pena. E racconto a cominciare da quanto già ricordato nell’Orologio di Santa Maria dei Lombardi.

     Rocco Scotellaro – racconta Mario Trufelli nel suo bellissimo libro «L’ombra di Barone» -, eletto la prima volta sindaco, con una decisione inaspettata aveva affidato a un vigile urbano, che Mario non nomina, ma io ricordo essere stato tale Rocco Paradiso, «l’incarico di salire tutti i giorni sul campanile della chiesa “per dare la carica all’orologio”, una manovra, a giudizio del primo cittadino, il quale intendeva attuare una severa politica di austerità, che non prevedeva particolari specializzazioni». Incarico che fino ad allora era spettato al nonno di Mario.

     «La notizia che il nonno, dalla sera alla mattina, – continua a raccontare Mario – era stato sollevato da un incarico affidatogli più di vent’anni prima, giunse come un fulmine a ciel sereno nella mia casa tra lo stupore e l’amarezza generale, soprattutto di mia madre che considerava l’orologio un patrimonio di famiglia». Stupore e amarezza che ricordo bene e condividevo.

     «Cinque giorni dopo aver ricevuto l’incarico – è sempre Mario che racconta – l’orologio monumentale si fermò, il pendolo non diede più segni di vita malgrado gli interventi di noti orologiai dei paesi vicini. Uno, paralitico, fu addirittura portato in cima al campanile, lungo le ripide scalette di legno, con funi e carrucole.

     «Il popolo della piazza, i contadini che tornavano dalla campagna, i vecchi che trascorrevano interi pomeriggi seduti sui sedili di pietra a parlare di tutto e di nulla, si sentirono improvvisamente orfani di qualcosa: avvertivano la sensazione di aver perso la nozione del tempo. Per alcuni giorni, lo sguardo all’insù verso il quadrante con le grandi sfere ferme ad angolo retto, tra le dodici e le tre (la memoria non mi tradisce), la gente commentava con disagio, e con ironia, la precipitosa decisione del sindaco.

     «E io c’ero quando Rocco Scotellaro, sorpreso e colpito dal malumore generale, pregò il nonno, assicurandogli, a dispetto dell’austerità, un congruo aumento del compenso mensile, di riprendere subito, anche di notte, il governo dell’orologio. E così fu.»

     Tutto vero, tranne che “per la carica all’orologio” – dell’orologio di cui Mario parla, ossia: l’orologio della piazza – occorressero particolari specializzazioni, che neppure gli orologiai dei paesi vicini possedevano. Non è vero perché Mario confonde orologio. L’orologio che richiedeva particolari specializzazioni era l’orologio di Santa di Santa Maria dei Lombardi, non l’orologio della piazza.

     L’orologio della piazza e l’orologio di Santa Maria dei Lombardi segnavano l’ora per le due classi sociali del paese. L’orologio della piazza segnalava l’ora ai chiazzaiuli – medici, avvocati, farmacisti, preti, geometri, agronomi, maestri di scuola e impiegati – che abitavano in piazza e nelle strade del centro. L’orologio di San Francesco per loro era più un decoro della piazza, un emblema del paese, che uno strumento che servisse, giacché almeno un orologio nelle loro case l’avevano e quasi tutti avevano un orologio-cipolla nel taschino del gilet, con la catenella di metallo, o d’argento o, alcuni, addirittura d’oro, e non andavano in campagna. L’orologio della piazza era ed è un normale orologio, col suo quadrante, con le sue dodici ore, le sue lancette, una più grande e una più piccola, e i suoi rintocchi canonici. Dare la corda a questo orologio era operazione semplicissima; la cosa più difficile era salire fino alla torre dalla sacrestia della Chiesa di San Francesco. Infatti, bisognava fare una faticosa arrampicata, perché mancava una regolare scala che coprisse tutta la lunga ascesa. Giunti sulla torre, con una grossa manovella, bisognava innalzare due grossi pesi, uno per le ore e l’altro per i minuti, legati a due grosse corde di fili di acciaio intrecciati. Le corde, attratte dai pesi, scorrevano in basso con lenta regolarità, mantenendo in funzione il meccanismo dell’orologio. Don Michele, che io avevo eletto mio nonno e chiamavo papanonno, giacché tutti quattro i miei nonni e nonne erano morti prematuramente, affidò il compito di dare la corda ai nipoti Antonio e Mario stesso. Ai quali molto spesso mi univo io, che la corda all’orologio l’ho data moltissime volte. E se ero capace io, che sono un imbranato totale per le cose tecniche, lo poteva fare chiunque.

     L’orologio di Santa Maria dei Lombardi segnalava l’ora ai contadini della Rabata e della Saracena. I contadini non avevano orologi nelle loro case, non avevano orologi-cipolla nel taschino del gilet (non avevano neanche il gilet), la catenella manco a pensarla, e tutto il giorno lavoravano in campagna, dove non giungevano più i rintocchi del loro orologio.

     Non sono in grado di dare riferimenti tecnici, posso dire che l’orologio di Santa Maria dei Lombardi aveva una sola lancetta e dava un numero misterioso di rintocchi, che non corrispondeva a quello delle ore e dei quarti d’ora, che i contadini interpretavano sapendo l’ora e i minuti che annunciava, e i chiazzaiuli proprio no, non capivano nulla; come i chiazzaiuli capivano, e i contadini no, i rintocchi dell’orologio della piazza.

La decisione del sindaco – presa per adottare una rigorosa politica di austerità, come scrive Mario, o per ripicca politica, come a ragione sosteneva sua madre Lucietta (Rocco Scotellaro non diventa meno grande se i testimoni dicono pure quali furono i suoi piccoli o grandi difetti!) – penalizzò proprio la classe sociale per la quale il sindaco si batteva. Ma non si arrese subito e Mario descrive bene il senso di stupore e di panico che prese i contadini, trovatisi privati del tempo.

     Un orologio simile a quello di Santa Maria dei Lombardi l’ho visto esposto in una teca di cristallo nella piazza Sant’Agostino di Modena. Era appartenuto e apparteneva al vecchio ospedale Sant’Agostino e il capo dell’ufficio tecnico dell’ospedale, che era il suocero di mio fratello Franchino, mi spiegò che non sapevano come funzionasse e come si potesse farlo funzionare, per cui si era deciso di esporlo al pubblico nella suddetta teca.

     La corda all’orologio della piazza, come ho detto, la caricavano Mario e suo fratello Antonio, ai quali molto spesso mi univo io. L’ascesa dalla chiesa alla torre dell’orologio -ripeto – era lunga e faticosa e per dare la carica bisognava issare fino in cima i due suddetti grossi pesi. Forse non corrispondeva al vero, ma eravamo seriamente convinti che si trattasse di due pesi rispettivamente di 50 chili e un quintale. E’ certo lo sforzo, veramente grosso, che compivamo nell’arrampicata e per alzare i pesi. Compiuta l’impresa, ci prendeva un certo sommovimento di pancia e cresceva imperiosamente il bisogno di dargli sfogo. Dall’alto della torre dell’orologio si dominava la piazza e la vita che vi si svolgeva con persone piccole piccole, che passavano o chiacchieravano o giocavano a carte ai tavolini dei due bar. Abbassavamo i pantaloni, ci abbassavamo come avendo la sensazione di sederci sulla piazza, in alto, e davamo soddisfazione al bisogno, dopo di che emettevamo  un profondo sospiro, inneggiando: Viva l’Italia!

     Fu grande la nostra meraviglia e soddisfazione quando leggemmo il Cristo si è fermato a Eboli e la seguente pagina, che ho ricordato all’inizio di questo racconto ed è stata forse la pagina più contestata del Cristo. Il memoriale leviano, come poi lo definirà Scotellaro, dette anche altri spunti polemici contro Carlo Levi e per la campagna elettorale per l’elezione dell’Assemblea costituente, ma quella pagina costituì il piatto forte della polemica.

     «C’era un gabinetto, senz’acqua naturalmente, ma un vero gabinetto, col sedile di porcellana. Era il solo esistente a Gagliano, e probabilmente non se ne sarebbe trovato un altro a più di cento chilometri tutt’attorno. […] La mancanza di quel semplice apparecchio, assoluta in tutta la regione, crea naturalmente delle consuetudini che non si sradicano facilmente, che richiamano mille altre cose della vita, e si accompagnano a sentimenti considerati nobilissimi e poetici. Il falegname Lasala, un “americano” intelligente, che era stato, molti anni prima, sindaco di Grassano, e che conservava gelosamente, nel suo monumentale apparecchio radio portato di laggiù, con i dischi di Caruso e dell’arrivo di De Pinedo, quelli di discorsi commemorativi di Matteotti, mi raccontava che, dopo la settimana di lavoro a New York, usava incontrare un gruppo di compaesani, ogni domenica, per una scampagnata. – Eravamo sempre otto o dieci: c’era un dottore, un farmacista, dei commercianti, un cameriere d’albergo, e qualche artigiano. Tutti del nostro paese, ci si conosceva fin da bambini. La vita è triste, tra quei grattacieli, con tutte quelle straordinarie comodità, e gli ascensori, le porte girevoli, la metropolitana, e sempre case e palazzi e strade, e mai un pò di terra. Viene la malinconia. La domenica mattina si saliva in treno, ma bisognava fare dei chilometri, per trovare la campagna! Quando eravamo arrivati in qualche posto solitario, diventavamo tutti allegri come ci si fosse tolto un peso di dosso. E allora, sotto un albero, tutti insieme, ci si calava i pantaloni. Che delizia! Si sentiva l’aria fresca, la natura. Non come quei gabinetti americani, lucidi e tutti eguali. Ci pareva di essere ragazzi, d’essere tornati a Grassano, si era felici, si rideva, si sentiva l’aria della Patria. E, quando avevamo finito, gridavamo tutti insieme: “Viva l’Italia!”. Ci veniva proprio dal cuore».

     Le accuse che si muovevano a Carlo Levi per questa sua pagina erano due: di aver scritto che noi lucani non avevamo e non conoscevamo i gabinetti e di aver lui oltraggiato la patria scrivendo che gli emigrati inneggiavano alla patria l grido di Viva l’Italia al compimento di un volgare bisogno corporale.

     Levi iniziò il suo comizio per le elezioni del 2 giugno del 1946 dal balcone dell’albergo Cutolo. A un angolo del balcone c’era un gabinetto: un gabbiotto con una piccola finestra per l’areazione. Quando si cominciò a dotare le case di questo moderno apparecchio igienico, i gabinetti si costruivano generalmente su un angolo dei balconi o, comunque, praticando un’apertura in un muro, all’esterno della casa.

     Levi, dunque, non fece in tempo a iniziare il suo comizio, dopo quello della signora Maria De Unterrichter Jervolino che l’aveva preceduto, dicendo: «Se mi posso permettere di osservare alla gentile signora che ha parlato prima di me …», che un gruppo di facinorosi, in verità non numeroso, iniziò la contestazione e costrinse Levi a interrompere il suo discorso: – Traditore! Rinnegato! Hai oltraggiato la patria! Lo vedi? Quello che ti sta a fianco è un gabinetto! o sei tu che non lo conosci? Noi siamo gente civile. Non siamo traditori e rinnegati come te.

     Rocco Scotellaro si precipitò letteralmente sul balcone, strappò il microfono di mano a Levi e, gridando con quanto fiato avesse in gola, saltando da un lato all’altro del balcone, in un minuto riuscì a sedare la contestazione. La piazza reagì applaudendo e il gruppetto dei contestatori se ne allontanò con la coda tra le gambe.

     L’invocazione all’Italia di cui aveva scritto Levi continuò a far discutere. Avevano ancora dubbi persone di riguardo, rispettate da tutto il paese, che esprimevano le loro opinioni con garbo e rispetto, direi anche riservatamente, si voleva capire e approfondire, non polemizzare, e Rocco Scotellaro rispondeva con altrettanto rispetto.

     Per noi ragazzi teenager, come poi si dirà importando la parola dall’America, che, nonostante la grande scuola dell’azione cattolica del vescovo Delle Nocche, qualcosa avevamo assorbito della mistica fascista, le storie dell’orologio furono una istruttiva scuola di democrazia.

8 Responses to Vecchie storie dell’orologio della piazza

  1. D. Jankovich ha detto:

    I commenti, racconti, spiegazioni … tutto nei blog di A. M. ci ricorda un Italia ormai passata e lontana.
    È veramente una bellissima sensazione avere accanto a noi qualcuno che tutto questo ci permette.
    Per noi di una certa età che sentiamo spesso bisogno di rammentare tante cose passate A. M. rappresenta una benedizione …
    Grazie !

  2. Antonio Martino ha detto:

    Dusco non esageri! Glielo dice anche suo nipote Marco: – Nonno, non esagerare!

  3. Mery Carol ha detto:

    La storia del paralitico issato in cima al campanile non la ricordo. Ricordo qualche malalingua dire che erano stati gli stessi Trufelli (istruiti dal nonno) i sabotatori dell’orologio. Ripeto: solo malelingue!

  4. Antonio Martino ha detto:

    Neanche io ricordo la storia del paralitico. Ne ha scritto Mario nell’Ombra di Barone, legendo il quale non mi venne in mente nessun paralitico. Allora avevo buona memoria, che ora è evaporata, e quindi penso che si fosse trattato di invenzione letteraria. Escludo che i Trufelli abbiano sabotato l’orologio. Come mi confermò anche il suocero di mio fratello per l’orologio dell’ospedale Sant’Agostino di MOdena, quel tipo di orologi richiedeva effettivamente alte specializzazioni, oramai inesistenti e introvabili a Modena e quindi anche a Tricarico. L’ospedale di Modena a piazza Sant’Agostino non c’è più. Ho telefonato a mia nipote, che ricorda l’orologio, ma non ha fatto caso se c’è ancora. Appena passa per quella piazza, controllerà e si informerà al museo. Eventualmente ti farò sapere.

    • Mery Carol ha detto:

      Grazie, Antonio! Di orologi simili a quello di S. Maria dei Lombardi a una sola sfera ne ho visti nel mio passato girovagare in Francia, in Germania e in altri paesi d’Europa. Conosco quello di Modena avendo visitato più volte la città quando mio figlio frequentava l’Accademia militare. Acqua passata!

  5. Gilberto Marselli ha detto:

    Belli questi frammenti di ricordi, che ci riportano tutti a quelle nobili terre tra Tricarico, Grassano ed Aliano e grazie ad Antonio per questi doni che ci dà continuamente. Rivisitare e rileggere il passato non può che farci bene, ora che stiamo cercando di rafforzare noi stessi per affrontare ancora una volta il futuro.

  6. Antonio Martino ha detto:

    Cara Mery, Non intendevo dimostrare l’esistenza di orologi a una sfera, ma che per la loro manutenzione occorrono alte specializzazioni artigiane, che forse non ci sono più. Ma altro mi interessa ora dirti. Non intendo entrare nella sfera intima della tua identità, ma se tuo figlio è stato allievo dell’Accademia Militare di Modena, dove mio fratello Franchino ha insegnato, può darsi che a Modena vi siate incontrati. E questo mi commuove. La morte di Franchino è stata come la morte di un figlio.

  7. Mery Carol ha detto:

    Caro Antonio, per me l’eccezionalità sta nel fatto che quel tipo di orologi si trovasse anche a Tricarico. Il mondo è piccolo! All’idea che possa aver incontrato Franchino a Modena mi commuovo anch’io. Sembra ieri, ma è passato davvero molto tempo. La morte. Conosco bene il tuo sentire. Ho perduto mio fratello e mia sorella, i più giovani della famiglia, e per me è stato come perdere una parte di me. La recente morte di mio marito sta facendo il resto. Scusami: mi sto dilungando.

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