La sesta sezione SEMPRE NUOVA E’ L’ALBA dell’edizione Vitelli contiene 12 poesie, quattro in più di quelle contenute nell’dizione Levi.

     Le dodici poesie dell’edizione Vitelli sono: 1. La prima di agosto; 2. Carità del mio paese; 3. Invettiva alla solitudine; 4. Suonano mattutino; 5. Sentite il bando; 6. Liberate uomini il carcerato; 7. E ci mettiamo a maledire insieme; 8. La pioggia; 9. Era la cavalcata della Bruna; 10. Vespero; 11. Sempre nuova è l’alba; 12. Pace con i miei morti.

     Le quattro poesie espunte dall’edizione Levi sono: 1. Invettiva alla solitudine; 2. Sentite il bando; 3. Liberate uomini il carcerato; 3. Pace con i miei morti. Ho altrove sostenuto che queste quattro poesie furono escluse da Carlo Levi nell’edizione da lui curata, perché egli ritenne che, nel lontano 1954, nel particolare clima di quel tempo, Rocco non sarebbe stato capito. Rinvio, pertanto, al commento della poesia Sempre nuova è l’alba pubblicato nell’edizione Levi (Categoria: Rocco Scotellaro – E’ fatto giorno), dove cercai di motivare tale giudizio.

      Pubblico appresso le quattro poesie espunte. Le prime due mi paiono bellissime.

      Invettiva alla solitudine è una poesia datata Napoli, giugno 1947. Bellissima poesia, del cui il commento che segue mi sono parzialmente avvalso per commentare altre poesie dell’edizione Levi.

     Rocco era stato eletto sindaco di Tricarico il 29 ottobre dell’anno precedente e si può supporre che nel mese di giugno del 1947 si fosse recato a Napoli per sostenere esami universitari.

     La poesia è formata di due strofe. La prima strofa esprime sentimenti di nostalgia. Immagini di Napoli si confondono con ricordi di Tricarico. Lo sferragliare dei tram sulle rotaie al Rettifilo (il corso Umberto I, una delle arterie principali della città così chiamato per l’andamento rettilineo che congiunge piazza della Borsa a piazza Garibaldi, dove si affaccia la Ferrovia centrale) ricorda lo scroscio violento del torrente Milo di Tricarico, che scorre nel vallone (u uaddon, uno squarcio di incomparabile bellezza)ai piedi della Saracena ) e annacqua i bellissimi orti saraceni. Uno stuolo di torchiari, colombi assettati, dalla torre di Santa Chiara si recano a dissetarsi alle acque del torrente, e  a notte l’assiolo fa sentire il suo straziante lamento, che rompe il sonno dei frantoiani.

     Nella seconda strofa la nostalgia si fa invettiva, che si placa ritornando alle immagini del Milo bianco e del cieco di piazza Miraglia che suona/ al fresco di mattina ai marciapiedi /vederlo che ci appare un Cristo vivo /disceso nell’inferno/il giorno che Gli strappano i veli nelle chiese. Il “cieco di piazza Miraglia” l’ho conosciuto. Era un mendicante cieco e senza gambe, che si trascinava su una tavola di legno con quattro piccole ruote e suonava la fisarmonica con intensa partecipazione, il volto si segnava di profonde rughe, che mostravano sofferenza o orgasmica immedesimazione alle note che traeva dalla fisarmonica. Tutto il giorno la suonava negli stessi posti del decumano maggiore e del decumano inferiore, a Spaccanapoli, nei pressi della Chiesa del Gesù, a piazza Miraglia davanti al Policlinico e prima di via dei Tribunali. Si chiamava Felice e abitava in via Ecce Homo ai Banchi Nuovi, tra via Monteoliveto e via Mezzocannone, in fondo alla costa che da Spaccanapoli scende verso il Rettifilo e il mare. Era stato una mascotte dei rivoltosi delle Quattro Giornate di Napoli. Felice aveva colpito la sensibilità di Rocco, che lo ricorda in questa poesia e nella poesia Per Pasqua alla promessa sposa, già più volte riportata in questo blog, dove Angelo gli ispira l’immagine degli angeli deturpati (e cantano la morte del Signore / solo gli angioli deturpati).

     Dei versi finali di Invettiva alla solitudine si apprezza la suggestione poetica. Secondo la fede cristiana, invero, il giorno che nelle chiese strappano il velo al Crocifisso, il corpo di Cristo giace nel sepolcro e agli inferi (o all’inferno) scende la sua anima. La discesa di Gesù agli inferi è verità di fede proclamata nel 5° articolo del Credo secondo il Simbolo degli Apostoli (discese agli inferi, il terzo giorno risuscitò dai morti). Significa che Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti. Ma egli vi è disceso come Salvatore, proclamando la Buona Novella agli spiriti che vi si trovavano prigionieri.

INVETTIVA ALLA SOLITUDINE

Questo tuono di ferraglie sul Rettifilo

come ripete il verso costante, lo stesso

del vallone squarciato del paese,

dove ai piedi delle case il Milo,

torrente dell’inverno e dell’estate,

annacqua gli orti pingui sulle pietre.

Lì vola oggigiorno lo stuolo di torchiari

(che cercavano assetati

disdetti dalla torre normanna,

colombi del ritiro sulla rupe?)

e di notte il lamento dell’assiolo

strazia davanti le porte

il sonno dei frantoiani.

 

Quale smania ti prende, amico dell’uomo,

di scendere al tuono sul Rettifilo!

Lungo tutte le rotaie della terra

sigarettaie come queste di Napoli

ed anime difformi da noi

abbattute alla maceria della strada?

Nemmeno il sole più ci scuote,

il sole che viene dal mare.

O il disastro e la furia e la morte,

la morte che già vive in mezzo a noi.

E pittori e cantanti e poeti,

animali da serraglio.

Ma l’assiolo che strazia e il Milo bianco.

E il cieco di piazza Miraglia che suona

al fresco di mattina ai marciapiedi

vederlo che ci appare un Cristo vivo

disceso nell’inferno

il giorno che Gli strapparono i veli nelle chiese.

 

(Napoli, giugno 1947)

     

     Liberate, uomini, il carcerato, datata Napoli, giugno 1945, fu pubblicata, col titolo Liberate, uomini, l’ergastolano, nel numero del 1° gennaio 1947 della rivista «Sud»  (in nome completo era «Sud – Rivista culturale»), e lì la poesia risultò vincitrice del premio bandito dalla stessa rivista «che svolgeva un’infaticabile azione di rinnovamento anche attraverso la diffusione della conoscenza degli scrittori stranieri». In essa Franco Vitelli individua il campo originario delle sollecitazioni, in Rocco Scotellaro, di cultura alta e di conoscenza delle letterature straniere. La rivista pubblicò sette numeri dal 1945 al 1947.

     Fondata dal giovanissimo Pasquale Prunas, «Sud» vide la collaborazione di Luigi Compagnone, Samy Fayad, Raffaele La Capria, Gianni Scognamiglio, Ennio Mastrostefano, Vasco Pratolini, Franco Rosi e altri giovanissimi intellettuali poi divenuti famosi e, tra essi, anche di Rocco Scotellaro. Ebbe anche la collaborazione di Anna Maria Ortese. E’ stato famoso ed è indimenticabile a chi visse con passione quegli anni a Napoli anche Gianni Scognamiglio. Su di lui riporto un appunto senza l’indicazione della fonte (forse Raffaele La Capria) trovato tra le mie carte, dove si legge che Gianni fu destinato ad essere bruciato nella sua genialità da una precoce e devastante follia. Indicava le nuove frontiere della musica, scriveva poemi, che, assicurava agli amici, sarebbero stati musicati da Igor Stravinsky, anche se per il momento il compositore russo non lo sapeva, anzi non conosceva neppure l’esistenza di un giovane napoletano, colto e stravagante, che rispondeva al nome di Gianni Scognamiglio. Percorreva Toledo gridando ossessivamente «Ci hanno sequestrato il mare», alludendo al grande schieramento di navi (americane) dell’AFSE (Allied Force South Europe). Sparì da Napoli, qualcuno lo vide fare vita da barbone a Roma. «Sud» nel 1989 è stata pubblicata dall’editore  Palomar di Bari in cofanetto contenente la ristampa anastatica della rivista e una ‘brochure’ con testi di Anna Maria Ortese e Giuseppe Di Costanzo, che ha curato la stampa. Rivista ormai introvabile, ma strumento indispensabile per comprendere la situazione storico-culturale del secondo dopoguerra, bellissima e rivoluzionaria anche dal punto di vista grafico e di impaginazione. Il tema della fatica dei contadini e dell’oppressione che essi subiscono da parte dei padroni trova toni drammatici nella poesia di Scotellaro. In Liberate, uomini, il carcerato è il tema della galera, come in Topi e condannati (domani ci ficcano dentro, nell’inferno) e scorre favolisticamente per tutta la trama dell’Uva puttanella con l’uguale passione invocatoria a Cristo, con cui si dispera il carcerato per pane e lavoro trascritto da Scotellaro e riportato in questo blog.

Cci l’âmi fatte nuie a Creste:

ci ni vole accere

ci ni vole arde.

Nun l’âmi fatte ninte a Creste:

nisciune n’àdda accere,

nisciune n’àadda arde.

 

A cui possiamo accostare questa bestemmia del carcerato:

 

So state n’anne ‘ngalera,

inzi craie, inzi pescraie

n’omene c’a stater

m’ cundannaie.

Gestezie a ci nci colpa,

terra benedetta. (G.B. Bronzini, L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, p. 267)

 

LIBERATE, UOMINI, IL CARCERATO

    Mentre insiste questa pioggia

che porta nella stanza tanta luce,

quanta basta alle tiepide cappella,

han bussato alla tua nel silenzio

i contadini laceri

i calzolai tisici dipinti

come l’acqua sporca della suola.

Sento, sul libro le parole

Riacquistano il calore della fiamma!

 

L’ora del falchi solitari

induce al refrigerio

dell’ombra delle acacie.

Le voci sono maledizioni

dei mietitori contro il sole:

non è tempo  che la tua mano inerte

tracci motti sibillini

sull’arena accaldata.

 

Hai tu un carcerato nel tuo cuore

appeso alle tue sbarre,

così solo come sei.

I mietitori si sono dato

convegno questa sera

a batter pugni sulle panche.

Essi sanno la mano sulla spalla

del datore di lavoro.

E sento che t’insorge la preghiera

tra le looro canzoni e le bestemmie:

Liberate, uomini, il carcerato.

(Napoli, giugno 1945), il carcerato.

 

Sentite il bando forse “è nata” il tardi pomeriggio del 19 giugno 1948. In una lettera di quel giorno scrive infatti alla sua amica di Parma Vittoria Botteri: «E, ritornato appena alle sette, dovrei studiare, dovrei sentire l’avviso del banditore “Dal forestiero piatti fini e ordinari, bottiglioni e damigiane, fa pure al cambio roba” così come gli artigiani e le donne di casa lo sentono misurando le carte monete nelle tasche…».

Il banditore era un dipendente del comune, che, girando per le strade del paese, annunciava notizie istituzionali ad alta voce che tutti potessero sentire, ovvero, previo pagamento, annunci che  privati avevano interesse a far conoscere alla popolazione. La poesia ci offre vari esempi. Gli avvisi erano annunciati in dialetto stretto, ritmicamente modulati con voce stridula.

 

SENTITE IL BANDO

Sentite il bando, nella piazza altera

vi aspetta il merciaio forestiero.

Sentite voi signorine,

non badate alla donna

che chiama le galline,

È venuto il forestiero gran signore

che ha ogni roba da maritare.

E piangete, piangete bambini

fatevi comprare i giocattoli.

Sentite le donne che bella seta,

il setaiolo stanco

fatelo scaricare.

O peperone forte,

o peperone rosso

pestato di Senise.

Andate a comprare patate in piazza

a venticinque lire il chilo:

c’è il forestiero,

fa pure a cambio-roba,

piatti fini e ordinari,

bottiglioni e damigiane,

anfore, orciuoli, cúccume.

Vuole crusca caniglia,

un chilo patate un chilo caniglia.

Sentite che si tiene l’assemblea

dei reduci per bloccare le case.

Andate all’acqua alla vecchia fontana

l’acquedotto non funziona.

La capra di Francesca non si è ritirata,

per chi la trova c’è un mese di latte,

venite da me che vi regalo.

Sentite l’ordine del podestà,

lavate le strade se no c’è la multa.

Andate a pagare le terre al signore,

mettetevi in mente, se uno mi insulta

mi paga forte da banditore.

Si sbloccano terre e case,

o peperone forte di Senise,

che bella seta, che bella seta!

 

 

Pace con i miei morti. Mi piace leggere lentamente i versi e così trovare anch’io la pace con i miei morti, che riposano nel cimitero di Tricarico o in cimiteri sparsi in vari angoli del mondo, o che un posto dove riposare non l’hanno trovato o hanno voluto non averlo, disponendo la dispersione delle loro ceneri.

Leggo questa poesia come una preghiera per trovare la pace con i miei morti. Cerco la pace con carissimi, indimenticati e indimenticabili amici dei quali non sono riuscito a lasciare un ricordo su questo blog, perché l’emozione mi bloccava e ancora mi blocca. Non faccio i loro nomi. Il loro ricordo e il ricordo di tutti i miei morti, di mio padre e di mia madre e dei miei fratelli Franco e Michele, pianta nell’anima, sia pure precariamente, la convinzione che vana è la fede in Cristo se i morti non risorgono. Una convinzione da coltivare in memoria loro.

 

PACE CON I MIEI MORTI

 

Abbagliano i balconi a cielo aperto

le notti di luna e il vento

un bambino allora mi sento.

Allora so condiscendere

alle voci serene dei miei morti

che fecero la casa dove abito.

 

Mai più che queste sere

vorrei tenere per grazia il tuo cuore

con la mano, campagna, ti voglio toccare

una volta che non sei scura.

Sei come una parata di acqua dolce,

hai tanta luce:

i morti vissero le notti loro

così alle candele.

Il vento che solleva la tendina

riporta la bambina che mi stette accanto

io la toccavo, e non aveva pensieri.

Sono in pace con i miei morti,

non voglio dormire, ma cantare.

 

(1949)

 

 

 

 

 

 

 

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