Gli esseri viventi – uomini, animali e piante – posseggono un orologio interiore, che non ha nulla a che vedere con la posizione del sole o il ritmo giorno-notte, come dimostrano le acquisizioni moderne che stabiliscono invece che gli esseri viventi posseggono un ritmo circadiano spontaneo di venticinque ore. Il nigeriano O.F. Nike ha così espresso poeticamente questa verità: «Quando Dio creò il mondo, donò agli europei l’orologio e agli africani il tempo». Il tempo, Dio, lo regalò anche ai contadini lucani, che accettarono il dono in modo assai singolare, come dimostrano i seguenti due brani del «Cristo si è fermato a Eboli», tratti dalle pagine 168-169 e 188-191 dell’edizione del 1945.

     Levi è stato autorizzato a recarsi qualche giorno a Grassano per finire dei quadri che lì aveva iniziato a dipingere durante il breve periodo di confino in quella località. Orlando, fratello di un noto giornalista che vive a New York lo invita a pranzo.

« Il giorno dopo, ero invitato a colazione dal signor Orlando [….]. Era un uomo alto, serio e malinconico. Viveva ritirato in un suo palazzetto, in una parte isolata del paese, e, avversario degli attuali potenti, si teneva lontano il più possibile dalle questioni locali. […. ] Aveva ancora gli antichi costumi lucani: sua moglie non mangiò a tavola con noi, e ci lasciò soli. Parlammo dei contadini, della malaria, dell’agricoltura, dei vari aspetti della questione meridionale. Io avevo visto quel giorno un confinato, un piccolo ragioniere torinese. già impiegato ai sindacati, e mandato qui, a quello che egli diceva, come capro espiatorio per degli scandalosi furti di fondi nelle casse sindacali ad opera dei gerarchi suoi superiori. Egli aveva trovato da lavorare tenendo i libri di conti di una delle più grosse proprietà di Grassano, e me li mostrò. In questa grande tenuta non si coltivava che grano, secondo le direttive del governo. Nelle annate buone, malgrado il concime e il lavoro, non si raggiungeva che un raccolto di nove volte il seme; nelle altre annate la messe era di molto inferiore; a volte dava soltanto tre o quattro volte la semenza. Era dunque una follia economica questo insistere sul grano. Queste terre non consentirebbero che la coltura del mandorlo e dell’olivo; e soprattutto, dovrebbero tornare ad essere foreste e pascoli. I contadini erano pagati con salari di fame. Ricordavo, nel giorno del mio arrivo, in piena mietitura, le lunghe file di donne, che salivano dai campi in riva al Basento su per l’interminabile strada, fino in paese, con in testa un sacco di grano, come dei dannati dell’inferno, sotto il sole feroce. Per ogni sacco portato fino in paese ricevevano una lira. E giù, nei campi, c’era la malaria. Ma, dicevamo con Orlando, il luogo comune che l’unica causa dei mali di qui sia il latifondo, e che basti spezzare il latifondo per redimere, come suol dirsi, la terra, non ha fondamento. Le condizioni dei piccoli proprietari di Gagliano non sono migliori, anzi sono forse ancora peggiori di quelle dei contadini senza terra di qui. Che cosa fare dunque nelle presenti condizioni? – Niente – diceva Orlando con la sua profonda tristezza meridionale, ripetendo la stessa sconsolata parola del migliore e più umano pensatore di questa terra, Giustino Fortunato, che amava chiamarsi «il politico del niente). Io pensavo a quante volte, ogni giorno, usavo sentire questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini. – Ninte, – come dicono a Gagliano. – Che cosa hai mangiato? – Niente. – Che cosa speri? – Niente. – Che cosa si può fare? – Niente -. La stessa, e gli occhi si alzano, nel gesto della negazione, verso il cielo. L’altra parola, che ritorna sempre nei discorsi è crai, il cras latino, domani. Tutto quello che si aspetta, che deve arrivare, che deve essere fatto o mutato, è crai, Ma crai significa mai.

     La sconsolatezza di Orlando, che era quella .di tutti i meridionali che pensano con serietà ai problemi del loro paese, derivava, come in tutti, da un radicale complesso di inferiorità».

 Si arriva alla fine dell’anno 1935. Noiosa e malinconica. Il nuovo anno inizia con un segno funesto: una eclisse di sole. Non c’è posto né per la memoria né per la speranza: passato e futuro sono come due stagni morti. Tutto il domani, fino alla fine dei tempi, tendeva a diventare anche per Levi quel vago « crai » contadino, fatto di vuota pazienza, via dalla storia e dal tempo. L’Italia ha invaso l’Etiopia, compiendo massacri con i gas asfissianti e a maggio avrà il suo effimero impero. Levi avrà l’inaspettata liberazione e il Cristo si riempie delle sue ultime pagine.

 « Arrivammo alla fine dell’anno. Volli attendere la mezzanotte, secondo l’usanza. Ero solo, nella mia cucina, davanti a un fuoco che sfriggeva e soffiava e cigolava, mentre fuori urlava la tempesta di vento e di neve. Avevo un bicchiere di vino, ma a che cosa avrei potuto brindare? Il mio orologio si era fermato, e nessun rintocco di fuori poteva giungermi e indicarmi il passare del tempo, dove il ‘tempo non scorre. Cosi finì, in un momento indeterminato, l’anno 1935, quest’anno fastidioso, pieno di noia legittima, e cominciò il 1936, identico al precedente, e a tutti quelli che sono venuti prima, e che verranno poi, nel loro indifferente corso disumano. Cominciò con un segno funesto, una eclisse di sole.

      L’eclisse era un segno del cielo. Un sole malato di peste guardava dava col suo occhio velato un mondo che aveva iniziato la sua guerra di dissoluzione. C’era un peccato, sotto; non soltanto quello che si commetteva in quei giorni, i massacri coi gas asfissianti che facevano scuotere la testa ai contadini, che sanno che ogni colpa si sconta; ma un peccato più fondamentale, di quelli per cui tutti pagano, gli innocenti con i colpevoli. Il sole si -oscurava per avvertircene: – Un triste futuro ci aspetta, – dicevano tutti.

     I giorni erano freddi e smorti; il sole si levava pallido, come .a fatica, sui monti bianchi. Cacciati dal gelo e dalla fame, i lupi si avvicinavano al paese. Barone li sentiva da lontano, con un suo senso misterioso, ed entrava in uno stato d’inquietudine e di agitazione straordinaria. Correva per la casa ringhiando, il pelo gli si rizzava; grattava la porta con le unghie per chiedere di uscire. Gli aprivo, ed egli spariva nella notte, e fino al mattino non lo rivedevo più Non ho mai capito se in quella sua esaltazione per i lupi ci fosse odio, o terrore, o piuttosto amore e desiderio, se quelle fughe notturne erano cacce, o convegno di amici antichissimi nella foresta. Certo, in quelle notti, la tramontana portava il rumore della canea, degli abbaiamenti strani, qua e là per le valli. Barone tornava al mattino, stanco per essere stato chissà dove, bagnato e sporco di fango. Si sdraiava vicino al fuoco, e mi guardava. con un solo occhio aperto, di sotto in su.

     Qualche lupo attraversò anche il paese: si trovavano, il mattino, le sue peste sulla neve. Una sera ne vidi uno io stesso, dalla mia terrazza: un grosso cane magro, che usci improvvisamente dal buio, si fermò un momento alla luce di una lampada dondolante per il vento, alzò il muso ad annusare l’aria, e a passo lento e tranquillo ritornò a dileguarsi nell’ombra.

     Era un buon tempo, quello, per i cacciatori. Qualcuno parti, per prender parte a battute al cinghiale, oltre Accettura; si di ceva che ce ne fossero molti: ma a Gagliano quell’anno non se ne prese nessuno. I più, profittando del riposo dei campi, uscivano con le loro giacche di velluto e il fucile ben lustro, a caccia di volpi e di lepri, e tornavano spesso con il carniere pieno. Con l’osso della zampa posteriore destra del lepre, svuotato del midollo con un ferro rovente, si fanno dei bocchini per i sigari, che i vecchi fumano con religiosa precauzione, perché il freddo dell’aria non li incrini, fino a che diventino di un bel nero lucido. Un vecchio contadino, che avevo curato di non so più che male, volle regalarmi il suo bocchino, di un colore venerabile, per essere stato fumato da lui per vent’anni. Quando si seppe in paese che avevo gradito questo regalo, tutti andarono a gara a offrirmi quegli ossicini, già forati o ancora grezzi: e cominciai anch’io, con perseveranza, ad annerirli, fumando i miei poveri sigari Roma ma su e giù per la strada del paese.

     Non arrivavano i giornali né la posta, per la neve che chiudeva le strade: l’isola fra .i burroni aveva perso ogni contatto con la terra. Il mutarsi dei giorni era un semplice variare di nuvole e di sole: il nuovo anno giaceva immobile, come un tronco ad dormentato. Nell’uguaglianza delle ore, non c’è posto né per la memoria né per la speranza: passato e futuro sono come due stagni morti. Tutto.il domani, fino alla fine dei tempi, tendeva a diventare anche per me quel vago « crai » contadino, fatto di vuota pazienza, via dalla storia e dal tempo. Come talvolta il linguaggio inganna, con le sue interne contraddizioni! In questa landa atemporale, il dialetto possiede delle misure del tempo più ricche che quelle di alcuna lingua; di là da quell’immobile, eterno crai, ogni giorno del futuro ha un suo proprio nome. Crai è domani, e sempre; ma il giorno dopo domani è prescrai e il giorno dopo ancora è pescrille poi viene pescruflo, e poi maruflo e marufIone; ed il settimo giorno è maruficchio. Ma questa esattezza di termini ha più che altro un valore di ironia. Queste parole non si usano tanto per indicare questo o quel giorno, ma piuttosto tutte insieme come un elenco, e il loro stesso suono è grottesco: sono come una riprova della inutilità di voler distinguere nelle eterne nebbie dei crai. Certo anch’io cominciavo a non attendermi nulla da nessuno dei futuri marufli o marufloni o maruflicchi. Nulla interrompeva la solitudine delle mie sere nella cucina fumosa, se non a volte la visita dei carabinieri di ronda, che venivano ad assicurarsi pro forma se c ‘ero, e a bere un bicchiere di vino. Il padrone di casa mi aveva avvertito che sarei stato spesso disturbato dal rumore del trappeto, il frantoio che era sotto alle mie stanze; ci si entrava dall’orto, per una porticina di .fianco agli scalini che portavano in casa. Avrebbe lavorato anche di notte, il trappeto, mi aveva detto. Quando girava la vecchia mola di pietra, trascinata in tondo da un asino bendato, la casa tremava, e un rombo continuo saliva dal pavimento. Ma ‘il raccolto delle olive quell’anno fu così scarso, che il trappeto macinò in tutto per due o tre giorni, e poi rimase zitto e fermo come prima, e le mie sere non furono più disturbate.

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One Response to crai, pescrai, pescrille, pescruflo, maruflo, maruflone, maruflicchio

  1. Leonardo ha detto:

    Questa occasionale lettura ha risvegliato in me un tempo relativamente lontano ,nacqui non molto lontano da quei posti,descritti dando un senso molto reale di quei luoghi nel periodo di confinamento del Levi….la questione meridionale di cui si evidenza nella descrizione,ancora oggi è più che mai da affrontare con molta serietà, è un problema DELL’ITALIA nel suo insieme.Ridare dignità ad un popolo,quello meridionale,che tanto ha dato per contribuire con le sue capacità in termine di forza lavoro e soprattutto intellettive al nostro Paese e non solo….occorre sicuramente un nuovo Risorgimento per superare con successo l’annata questione meridionale……grazie per la lettura e buona giornata

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