l SABELLI

Carm. 3,6 vv. 37-48

sed rusticorum mascula militum

proles, Sabellis docta ligonibus

versare glaebas et severae

matris ad arbitrium recisos

portare fustis, sol ubi montium

mutaret umbras et iuga demeret

bobus fatigatis, amicum

tempus agens abeunte curru.

 

Damnosa quid non inminuit dies?

aetas parentum, peior avis, tulit

nos nequiores, mox daturos

progeniem vitiosiorem.

Traduzione di Giuseppe Giannotta

I Sabelli avevano coraggio

in guerra e nei campi

bravi a capovolgere il cuoio della terra;

agli ordini precisi delle madri

portavano mucchi di legna, quando,

tramontando, il sole cancellava l’ombra dei colli,

staccava i buoi dall’aratro

donando il riposo.

Che cosa non sottrae il tempo.

E l’età dei padri

più fosca di quella degli avi

ci ha fatti peggiori. Noi che

daremo i natali a gente più insulsa.

     Il terzo libro delle odi (le virtù degli antichi), che si compone di trenta carmina, inizia con un ciclo di sei componimenti solitamente definiti odi romane. Per quanto riguarda la struttura del ciclo, tradizionalmente lo si riteneva diviso  in due parti, di tre odi ciascuna, peraltro, sin dall’antichità le sei odi sono state lette e interpretate come se fossero parti di un unico poemetto dedicato alle lodi di Augusto e della sua opera. Pure se nelle suddette odi non mancano momenti alti, a volte altissimi, nell’insieme esse rappresentano piuttosto un grande esercizio retorico, un esempio di letteratura che si sforza di essere solenne e non riesce ad evitare un tono enfatico.

     Le odi romane, scritte per la maggior parte subito dopo la riforma costituzionale voluta da Augusto nel 27 a.C., esaltano i valori che il nuovo regime augusteo promuove richiamandosi agli ideali della repubblica, quali il rifiuto per la ricchezza e la lussuria, il coraggio militare da temprare con una vita semplice e dura in campagna, la necessità di un ordine politico. (Le riforma del 27 a.C. consistette nella fine della Repubblica e nella costituzione dell’Impero. Il Senato conferì a Giulio Cesare Ottaviano il titolo di Augustus il 16 gennaio del 27 a. C. e il suo nome ufficiale fu da quel momento Imperator Caesar Divi filius Augustus.).

     E’ peraltro difficile riscontrare testualmente nelle odi l’idea messa in campo di un Orazio vate dell’impero, declamatore acritico della sua gloria, vate cioè delle virtù romane assunte come esempio assoluto ed eterno. Per scardinare tutta questa architettura basterebbe il finale della sesta ode – non a caso, a mio avviso, selezionato da Giannotta nella sua piccola antologia oraziana -.

     Nelle prime due strofe il poeta compie un’amara descrizione della corruzione dei costumi sociali e individuali e della decadenza di Roma, rimpiangendo le virtù degli antichi, e nei versi finali leggiamo, in sostanza che ogni età fu peggiore della precedente e noi concepiremo figli ancora più vili (E l’età dei padri / più fosca di quella degli avi / ci ha fatti peggiori. Noi che / daremo i natali a gente più insulsa).

     La sesta ode ha 48 versi, dei quali Giannotta ha scelto gli ultimi 12. Il senso di questa ode è che molto si doveva ad Augusto, ma molto, forse troppo, non corrispondeva alla tradizione che aveva permesso la grandezza di Roma.

 

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