“Orazio si confessa” – Omaggio a Giuseppe Giannotta – NON ABBIAMO GLI STESSI FIORI
NON ABBIAMO GLI STESSI FIORI
Carm. 2, 11
Quid bellicosus Cantaber et Scythes,
Hirpine Quincti, cogitet Hadria
divisus obiecto, remittas
quaerere nec trepides in usum
poscentis aevi pauca: fu gi t retro
levis iuvemas et decor, arida
pellente lascivos amo re
canitie facilemque somnum.
Non semper idem noribus est honor
vernis neque uno luna rubens nitet
voltu: quid aeternis minorem
consi liis animum fatigas?
Cur non sub alta vel platano vel hac
pinu iacentes sic temere et rosa
canos odorati capillos,
dum licet, Assyriaque nardo
potamus uncti? dissipat Euhius
curas edacis. Quis puer ocius
restinguet ardentis Falerni
pocula praetereunte lympha?
quis devium scorturn eliciet domo
Lyden? eburna dic, age, cum lyra
maturet, in comptum Lacaenae
more comas religata nodum.
___________________________________________________
Traduzione di Giuseppe Giannotta
Non chiedermi, Quinzio Irpino,
che cosa pensino i Cantàbri cosi valorosi
e gli Sci ti separati dall’Adriatico
e non t’inquietare per l’ uso del nostro tempo
che in fondo chiede poco.
Piuttosto, si stacca da noi
la giovinezza e va via la bellezza ,
perchè la canizie scaccia amori
e sonno. Non sempre, in primavera
abbiamo gli stessi fiori e il disco
della luna ci mostra la faccia
rossa. Non affliggere la mente
con pensieri . Perchè, finchè possiamo,
non ci allunghiamo sotto un a lbero,
pino o platano, con chiome ben curate?
Il vino affoga l’ansia che batte l’anima.
Quale fanciullo smorzerà le vampe
del Falerno con l’acqua che scorre?
Chi spingerà dalla sua casa Lide
che tende a comportarsi da puttana?
Oh, dille che si sbrighi
e venga con la lira
bianca e i suoi capelli
in elegante nodo come le Spartane.
________________________________________________
Carm. 2, 11 (a Quinzio Irpino). Giannotta ha scelto un titolo che pone in risalto il tema dell’ode, ossia la giovinezza che sfiorisce. Il libro secondo, di cui quest’ode fa parte, comprende 20 componimenti. Giannotta ne ha scelti due, entrambi integralmente.
In questa undicesima ode è invocato un tale Quinzio Inrpino, del quale non si sa nulla. A lui Orazio dice di non chiedergli che cosa preparino i valorosi Cantàbri e gli Sciti. ( La citazione dei cantàbri e degli sciti fa supporre che Orazio fosse sotto l’impressione delle notizie provenienti da Terragona in Spagna, dove l’imperatore nel 25 a.C. aveva ricevuto una ambasceria scitica. I cantàbri erano una polazione spagnola abitanti della Cantàbria a nord della Spagna. Gli sciti tra l’VIII secolo a. C. e il II secolo d.C.abitavano la Scizia, un’area euro-asiatica. Il mare, nel testo, è detto ‘Adriatico’ e ‘opposto’, appunto con riferimento agli agli sciti. Bisogna pure raffinare la presentazione dicendo anche che gli Sciti tremila anni fa introdussero in Europa la marijuana).
Il poeta continua esortando Quinzio a non temere gli impacci così modesti della vita. Nel tempo la fresca grazia della giovinezza ci abbandona e la vecchiaia ci nega il gusto dell’amore e il sonno sereno. Nemmeno nei fiori si conserva intatto l’incanto della primavera e la faccia rossa della luna e tu forzi i tuoi limiti a misurarsi con l’infinito. Non affliggere la mente con pensieri. Perchè, finchè possiamo,non ci sdraiamo sotto un platano o sotto questo pino e non beviamo in pace? Nel vino si annebbiano le nostre inquietudini. Quale fanciullo smorzerà le vampe del Falerno con l’acqua che scorre? Chi trarrà di casa una sgualdrina (scortum) scontrosa come Lide? Oh, dille che si sbrighi e venga con la lira d’avorio e i suoi capelli ravvolti in un elegante nodo spartano.
Lide è nominata ancora in due odi del libro terzo, l’undicesima e la ventottesima. Ella è un esemplare frequente del quadro notevolmente variegato di caratteri femminili presenti nell’opera oraziana: libertine, donne infedeli e crudeli, fanciulle acerbe e scontrose, giovani innamorate e superstiziose, cantanti e citariste; da alcune di esse Orazio è attratto fisicamente, a volte in modo anche intenso; altre risvegliano in lui il gusto dell’esteta; per altre nutre sentimenti di tenerezza, magari un po’ lasciva, rimpiangendo i suoi giovani anni; altre, ormai vecchie, per una sorta di ripicca, sono derise da lui, nel ricordo di passate gelosie. L’elenco, e quindi la descrizione dei tipi di donna che compaiono nella poesia oraziana, sarebbe lungo. Va detto che il convito e la donna costituiscono per Orazio due momenti di vita importantissimi, perché spesso risolutori di stati d’animo angosciosi; e procedono di pari passo. Salvo rarissime eccezioni, non esiste banchetto senza donne e viceversa. Banchetti e donne rappresentano due elementi inscindibili di un’unica realtà.
Nella seconda satira del primo libro (non compresa nella piccola antologia oraziana di Giuseppe Giannotta) il poeta cerca un accordo della sua sensibilità, dei suoi umori, della sua umanità, con la sua formazione culturale; ed è anche il più cospicuo e compiuto discorso oraziano sul sesso, passione e problema morale. In tema segnalo il libro di Marcello Gigante «Orazio. Una misura per l’amore. Lettura della satira seconda del primo libro», edizioni Osanna, Venosa, 1993, pp. 120, € 10,00.
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