“Orazio si confessa” – Omaggio a Giuseppe Giannotta – CARPE DIEM
CARPE DIEM
Carm, 1, 11
Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem libi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius quicquid erit patì!
Seu pluris hiemes seu tribuit luppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.
__________________________________________________________________________
Traduzione di Giuseppe Giannotta
Tu, Leuconoe, non chiedere (ci è vietato saperlo)
quale sorte a me e a te abbiano dato gli dei
e non forzare nemmeno la cabala di Babilonia.
Oh, come è meglio subire dolcemente
ogni cosa che avverrà; se ancora inverni
ci riserva Giove, e questo
che spacca in ultimo le onde del Tirreno.
Sii saggia, filtra i vini, e poichè la vita
è effimera, spera poco. Parlando,
passa il tempo, prendi
il giorno, e non credere all’alba di domani
_____________________________________________________________________
L’undicesima ode del primo libro (a Lecanòe) è uno dei più celebri componomenti della letteratura latina, un gioiello della lirica oraziana. Mai come in questa breve ode il motivo è espresso con una liricità tanto intensa quanto sobria e in uno stile essenziale; e raramente come in quest’ode è acuta la sensibilità per il fluire del tempo che ci sfugge.
Leucònoe è un fanciulla altre volte nominata nelle poesie oraziane. Chi sostiene che ella sia stata una ragazza molto amata da Orazio, chi invece ritiene che si tratti di un personaggio fittizio, il cui nome, secondo la derivazione greca, significa ‘mente serena, ingenua, candida’.
L’ode si presenta come un breve ma profondo avvertimento del poeta alla fanciulla sulla natura della vita secondo i precetti della morale epicurea: è meglio vivere l’attimo piuttosto che interrogarsi inutilmente sul destino che ci attende. Il carpe diem assume così la formula di un frammento di dialogo con la ragazza, che ritiene di poter vedere nel futuro che attende lei e il poeta interpellando le cabale babilonesi. Il consiglio di Orazio è invece quello di abbandonare le illusioni e di prestare attenzione a “staccare” un attimo dell’eterno fluire del tempo; i precetti della morale epicurea si traducono, più che in un superficiale invito al piacere fisico, in un’oculata etica della rinuncia, nel sapere rinunciare a ciò che ci allontana dalla aurea mediocritas (Odi 10, 2, v. 5) dello stile di vita oraziano, a metà strada tra sapienza filosofica e disincantata ironia.
Carpe diem: carpe è l’imperativo del verbo carpere e corrisponde al verbo italiano “carpire”, (il verbo latino ha però il significato di “cogliere, staccare”). “Staccare” come sfogliare una margherita o piluccare un grappolo di uva. Il fatto è l‘aetas, il tempo maligno (Dum loquimur, fugerit invida aetas) visto nella continuità del suo scorrere: il dies è una parte, l’oggi, da staccare giorno per giorno senza contare sul domani.
Nel mezzo dell’ode Orazio insiste sull’incertezza del futuro: «Sia che Giove ci conceda molti inverni, o sia questo l’ultimo, che fa sbattere le onde sugli scogli del mare Tirreno». In questo crescendo di incertezza sul futuro e di coscienza della fugacità del tempo e della vita, Orazio si rivolge alla bella Leuconòe ammonendola ad essere saggia e a fare le poche cose concesse ai mortali per il godimento della loro breve esistenza: “versa il vino e recidi ogni speranza sul futuro che oltrepassi il breve spazio del tempo immediato”. Il poeta invita la ragazza a preoccuparsi del presente immediato, proprio poiché è impossibile (nonché inutile) per l’uomo preoccuparsi del futuro. E ad Orazio non resta altro che concludere logicamente l’ode secondo la più schietta e semplice concezione epicurea: “Cogli l’attimo (il giorno) e confida il meno che puoi sul domani, carpe diem”. Questa esortazione non deve essere intesa nel senso grossolano grazie al quale è divenuto proverbiale, come se il suo significato fosse “godi allegramente la giornata che passa”, sottintendendo all’espressione un significato edonistico o volgarmente carnale: più che altro l’invito di Orazio è quello a realizzare la propria esistenza in modo compiuto, sfruttando le occasioni che essa ci pone innanzi; non farlo, dice il poeta, è una colpa. Egli ammonisce:”cogli la tua giornata, che ti è offerta dagli dèi come un bel fiore cadùco”. Vitae summa brevis: la vita può sembrare lunga, ma Orazio pensa a ciò che in essa è veramente vita, cioè gioia e piacere (la primavera più volte decantata nella sua opera). Fa’ un po’ il conto: è così breve la somma. E mentre noi cerchiamo di constatare questa quantità, essa già fugge. In termini più moderni si potrebbe forse dire che la tesi ivi proposta sia che ognuno deve autorealizzarsi. Ogni uomo dal più infimo al più felice cerca, ogni giorno, di realizzare se stesso, cioè di realizzare tutte le sue capacità fisiche e cognitive. La poesia è dunque una dolce esortazione a godere i piaceri immediati della vita e a ridurre drasticamente le grandi speranze e le grandi illusioni che oltrepassino il breve spazio del tempo vicino (cfr. Odi, 1, 4 vv 13-20).
Ripeto ora i concetti sopraespressi parafrasando alcune righe dello “scherzo” di Beniamino Placido, che ho ricordato divagando sulla nona ode del libro primo, dove prende l’America come rovesciamento di Orazio, Orazio come il contrario dell’ America. L’America è quella grossolana, volgare, insaziabile ansia che c’è anche da noi e prende anche noi. Quella che ha la nevrosi dell’ottimismo. «Seize the day». Afferra la giornata. Afferra il dollaro. Afferra il successo. Guai a te se domani non guadagni un po’ più di quanto hai guadagnato ieri. Guai a te se non guadagni oggi un po’ più del tuo vicino. L’inferno di desolazione, di squallore che viene fuori da questa voglia stupidissima è descritta in un romanzo dello scrittore americano, premio Nobel per la letteratura, Saul Bellow «La resa dei conti», da cui è stato tratto il film Seize the Day, regia di Fielder Cook, con Robin Williams, dove lo stesso Bellow fa un cammeo apparendo in un corridoio. Sì. «Seize the day». Sì, «carpe diem» all’americana.
Goditi la giornata. Goditi l’ultimo successo che hai riportato. Ma questi qui non afferrano niente. Non si godono niente.
Orazio – Beniamino Placido spiega a Michele, il figlio immaginario – non ha mai detto arraffa tutto, afferra tutto, tira a campare. Non è questo il «carpe diern». Ha detto invece: impara ad apprezzare le cose veramente tue, quelle che davvero ti piacciono. Anche se sono piccole. La cicoria, la malva, l’uva appesa al filo. Non lasciarti prendere dalla spirale dei desideri. La spirale del desiderio è implacabile. Ma che ci fai con lo smartphone? Per quante cose tu possa forsennatamente acquistare, o conquistare, ci sarà sempre uno più ricco di te. «Sernper locupletior obstat» (prima satira del primo libro). Orazio non fa obiezioni ad Augusto? Sì, ma al tempo stesso svaluta in radice tutte le voglie di conquistare, di acquistare, comunque. In radice. Non servono a niente, non si soddisfano mai. Orazio è un liberatore. Orazio ti insegna ad essere signore di te stesso: «Potens sui». E allora sì che sei signore anche degli altri. Altro che «aurea mediocritas». È un ideale aristocratico, quello di Orazio. Governarsi. Governare la propria vita. Invece di farsela governare – per imitazione – dagli altri. «Aurea mediocritas»? Ma significa: stare lontani dagli stupidi eccessi.
Concludo con una citazione e con la segnalazione di un piccolo volume.
La citazione – peraltro già presente nei righi che precedono – rimanda all’ode trentunesima del libro primo vv. 16-20, in cui Orazio mostra di accontentarsi di poco: « Me pascunt olivae, / me cichorea levesque malvae. / Frui paratis et valido mihi / Latoe /dones, at, precor, integra / cum nente, nec turpem senectam / degere nec cithara carentem. ‘Io mi nutro di olive, di cicoria, di malve leggere. Concedimi dunque, Apollo, che in buona salute goda di quanto possiedo e, ti prego, con mente lucida: non voglio trascinare muto una vecchiaia deforme’.
Inseguendo le interpretazioni che il carpe diem ha conosciuto nel tempo, da Lorenzo il Magnifico fino al linguaggio della pubblicità, Matteo Palumbo, professore di Letteratura italiana all’Università Federico II di Napoli, col volume “Carpe diem”. Variazioni sul tema, Edizioni Osanna, Venosa, 1995, pp. 72 € 10, cerca di capire per quali vie si possa si possa pervenire dalla malinconia e dalla svalutazione della caducità all’incanto e al valore che si può scoprire in ciò che trascorre e finisce.
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Dobbiamo tutti essere grati e riconoscenti a A. M. per le sue citazioni e osservazioni di Orazio.
È stata un idea straordinaria che mi ha permesso di sentirmi per una volta ancora giovane e pieno di interessi che sembravano oscurati con il passare degli anni.
Grazie Antonio, mi ha regalato un “carpe diem” inaspettato e bellissimo.