L’APE
(Carm. 4,2 vv. 25-33)

 

Multa Dircaeum levat aura cycnum,

tendit, Antoni, quotiens in altos

nubium tractus; ego apis Matinae

more modoque

grata carpentis thyma per laborem

plurimum circa nemus uvidique

Tiburis ripas operosa parvus

carmina fingo

 

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Traduzione di Giuseppe Giannotta

 

Molto cielo solleva, Antonio, il cigno

di Dirce, quando vola verso alte

nubi. lo, per stile e gusto,

sono l’ape Matina,

che prende il timo soave nei boschi

per le rive umide di Tivoli

con dura fatica: così, brevi,

intreccio i miei sudati canti.

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         Carm 4, 2 (a Iullo). Del quarto libro delle Odi si è già detto in un precedente file che fu scritto nell’ultima parte della vita di Orazio e contiene altri 15 componimenti. La seconda ode dedicata a Iullo (Iullo Antonio è il nome completo del personaggio a cui Orazio si rivolge) –  è formata di 60 versi divisi in quattro strofe. Giannotta ha scelto la terza strofe composta di otto versi ed è l’unica scelta tra le odi del quarto libro. Giannotta intitola «L’ape» il brano dell’ode da lui selezionato, giacché qui Orazio si definisce ape Matino, contrapponendo la sua poesia e la sua origine, senza falsa modestia e con un filo di sottile ironia, alla poesia di Pindaro (il cigno di Dirce).

     Iullo Antonio era figlio del triumviro Marco Antonio e della sua moglie Fulvia. Fu allevato amorosamente dalla matrigna Ottavia, sorella di Augusto, che Marco Antonio aveva sposato dopo la morte di Fulvia e quindi aveva ripudiata per sposare Cleopatra. Iullo, considerato parte della famiglia imperiale, fu destinato da Augusto, che gli diede in moglie una figlia di Ottavia, ai maggiori onori civili. Poi cadde in disgrazia perché era divenuto l’amante della figlia di Augusto  Giulia: fu condannato a morte e, per sfuggire all’infamante condanna, si suicidò nel  2 a. C.

     Negli anni in cui si colloca l’ode, la fortuna di Iullo era ancora grande e si pensa che, in nome di Augusto, avesse l’autorità per invitare Orazio a riprendere, dopo la grande prova del Carme secolare (17 a. C.), la musa pindarica, celebrando le ultime imprese di Augusto. Con quest’ode, attraversata da un sottile filo d’ironia, Orazio ricusa l’invito e rivolge l’invito a Iullo. La scelta di Giannotta mette in risalto la modestia (si dovrebbe dire: falsa modestia) di Orazio e si pone come momento di passaggio dalla ricusazione all’invito a Iullo.

     Chi aspira ad emulare Pindaro, dice Orazio, si libra in volo come Dedalo con ali modellate in cera e precipita a mare, quindi motiva con molti solenni riferimenti che il respiro poetico di Pindaro è sfolgorante e straripante. Nella terza strofa Orazio conclude dicendo che un soffio di vento intenso sostiene Pindaro (chiamato il cigno di Dirce) e lo sospinge verso l’alta distesa delle nubi, mentre egli, per tradizione di stile, è l’ape Matina (ego apis Matina), che sugge, nei boschi e lungo le rive umide di Tivoli, il dolce timo con la fatica di sempre e così nei suoi limiti compone un canto laborioso. Dirce è vicino Tebe, patria di Pindaro, che tanto la ricorda nella sua poesia; con ape Matina Orazio ha inteso alludere al Matino, un promontorio dell’Apulia, già nominato nell’ode 1,28, e quindi, come per Pindaro, anche per sé ha inteso indicare la sua patria, come ha indicato quella di Pindaro.

     Quindi il poeta si rivolge a Iullo, chiamandolo poeta di maggior tempra (a Iullo era attribuita una Diomedea, poema epico in dodici libri). Iullo, provaci tu a cantare la gloria e le imprese di Cesare, Allora, se dirò cose che valga udire, unirò alla tua la mia voce e canterò felice di riavere Cesare: ‘Lodato sia questo giorno splendido’. E al tuo séguito noi tutti ripeteremo l’evviva, un evviva che tutta la città comprende, e bruceremo incenso ringraziando l’aiuto degli dei.

     L’ode è scritta nello stesso metro del Carme secolare e il tono, soprattutto nella prima parte, ha un piglio che tende al sublime, quasi il poeta volesse dimostrare che la vena d’ispirazione pindarica non si era inaridita in lui, malgrado la dichiarazione di modestia nella quale rinchiude la diversità della propria poesia.

 

 

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