L’ATTESA
Carm. 2,6

Septimi, Gadis aditure mecum et

Cantabrum indoctum iuga ferre nostra et

barbaras Syrtis, ubi Maura semper

aestuat unda,

Tibur Argeo positum colono

sit meae sedes utinam senectae,

sit modus lasso maris et viarum

militiaeque.

 

Unde si Parcae prohibent iniquae,

dulce pellitis ovibus GaJaesi

flumen et regnata petam Laconi

rura Phalantho.

Ille terrarum mihi praeter omnis

angulus ridet, ubi non Hymetto

mella decedunt viridique certat

baca Venafro,

ver ubi longum tepidasque praebet

Iuppiter brumas et amicus Aulon

fertili Baccho minimum Falernis

invidet uvis.

 

Ille te mecum locus et beatae

postulant arces; ibi tu calentem

debita sparges lacrima favillam

vatis amici.

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Traduzione di Giuseppe Giannotta

Settimio, che verrai con me in Cadice,

tra i Cantàbri, che non sopportano i nostri gioghi,

fra Sirti straniere, dove l’onda Maura

sempre bulica,

fosse Tivoli, fondata dal colono d’Argo,

la sede della mia vecchiaia,

esista una regola per me stanco

di mare, di strade e di milizia.

Ma se le Parche ingiuste lo impediscono,

cercherò l’acqua del Galeso,

gradito alle pecore cinte di pelli,

e le campagne in cui Falanto regnò.

Quell’angolo di terra mi sorride

dove il miele non cede

all’Imetto e l’oliva

a Venafro verde

e Giove offre lunghe primavere

e tepide stagioni e l’Aulon

amico di Bacco

invidia assai poco il Falerno.

Quel luogo e felici rocche

vogliono la tua compagnia; lì

spargerai di pianto

il canto ardente del poeta amico.

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     Carm. 2,6 (a Settimio), intitolato da Giannotta «L’attesa»: intestazione che coglie il cuore di quest’ode, una delle più famose, in cui corre un fiume di malinconia e di stanchezza per le vicende della vita e della guerra, nell’attesa dei luoghi dove il poeta avrebbe voluto terminare la vita.

     All’amico Settimio che lo sollecita ai viaggi, a Cadice o nell’berica terra dei Càntabri e nelle barbare Sirti, ubi Maura semper aestuat unda – dove l’onda del mare (maura, Mauritania) sempre ribolle, Orazio risponde che vorrebbe rifugiarsi a Tivoli e qui stabilire la dimora alla sua vecchiezza e stanchezza di viaggiare e di vita militare. Se le inique Parche da quì lo terranno lontano, egli andrebbe presso il fiume Galeso (un fiume vicino a Taranto), caro alle pecore fasciate di pelli o nelle campagne su cui regnò Filanto della Laconia (cioè di Sparta: Taranto era colonia dorica). Quell’angolo di terra – dice il poeta – più d’ogni altro mi sorride, dove il miele non è inferiore a quello dell’Imetto (monte vicino ad Atene), e l’oiliva gareggia con quella di Venafro (antico borgo sannitico vicino Cassino, tuttora esistente), dove Giove dà lunghe primavere e inverni miti, e l’Aulone (zona collinare vicina a Taranto, famosa per i suoi vini), amico fecondo Bacco, non ha minimamente da invidiare le uve di Falerno. (Numerose località sono oggi candidate per l’identificazione del colle Aulone nell’agro tarantino, dove si produceva uno dei più famosi vini dell’antichità). Con me su queste colline ridenti ti vorrei, anche se qui un giorno dovrai piangere sulle ceneri ardenti di questo tuo poeta.

 

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