ROSA E MIRTO
Carm. 1,38

Persicos odi, puer, apparatus,

displicent nexae philyra coronae,

mitte sectari, rosa quo locorum

sera moretur.

Simplici myrto nihil adlabores

sedulus, curo: neque te ministrum

dedecet myrtus neque me sub arta

vite bibentem.

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Traduzione di Giuseppe Giannotta

Odio i Persiani, magnifico fanciullo,

le complicate corone non mi piacciono,

non correre più. La rosa, in qualsiasi posto,

tarda sosterà.

Desidero che non aggiunga niente

al mirto schietto. Esso favorisce sia te

che mesci, sia me che bevo

dalla pergola nascosta

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     Carm. 1,38 (al coppiere), scelto e tradotto da Giuseppe Giannotta col titolo  Rosa e Mirto, il nome di un fiore e di un arbusto, antinomia di quest’ode, che chiude il primo libro e va valutata come un congedo ispirato ai temi svolti nel libro ed alla poetica che li ispira.

In un breve ‘epigramma’, appena otto versi alla fine del primo libro delle Odi, Orazio effigia in un convito semplice e modesto, lontano dagli sfarzi e dalle raffinatezze dei ricchi esteti, il proprio gusto, nella vita e nella poesia. Ed è infatti una poetica, quella del libertino patre natus, che rifiuta gli sfarzi persiani, i grecismi nobilitanti, le rarissime rose d’autunno, e si diletta della semplicità del mirto e della vite, le piante dell’amore e del vino.

Orazio, rivolto al fanciullo che gli sta preparando la tavola, dice di disdegnare il lusso dei persiani e raccomanda di evitare anche il più modesto lusso di corone intrecciate con fili di tiglio (philyra: nome greco del tiglio, dalla cui corteccia interna si ricavava un filo per cucire) o rose; solo il mirto, caro alla dea dell’amore, potrà rallegrare il poeta che si accinge a bere sotto un ristretto pergolato. Orazio non odia i Persiani, come apparirebbe dalla traduzione di Giannotta, la cui cifra ermetica – mi dispiace rilevarlo – oscura e priva di senso il verso oraziano. Il primo bel verso (Persicos odi, puer, apparatus) è come una serratura che chiude a uno stile di vita, a una mentalità aborrita dal poeta, ed esprime sommo disprezzo per uno sforzo che in oriente trova la sua scaturigine. In letteratura si può ricordare lo stile che l’invidioso e sua moglie rimproverano al discorso del voltairiano Zadig, perché non vi erano abbastanza metafore, non aveva abbastanza avviato a danza le montagne e le colline. Dicevano: – E’ arido, senza brio intellettuale; con lui il mare non fugge, le stelle non cadono, il sole non si liquifa come la cera; egli non conosce il bello stile orientale. Orazio non disdegna solo lo sfarzo persiano, ma anche il più modesto lusso di corone intrecciate con fiori. Questo ideale di semplicità è anzi tutta la cifra della vita di Orazio, in qualche modo anche della sua poesia, e per questo può chiudere un libro di odi che con un manifesto di poetica si era aperto con la prima ode, mancante nella piccola antologia giannottiana.

     Convito semplice è il titolo dal significato immediatamente percepibile che Giovanni Pascoli ha dato alla sua traduzione di questa ode:

CONVITO SEMPLICE

Io non voglio aromi di Persia; sdegno
le ghirlande unite con fil di tiglio:
non andarmi in caccia di rose, ancora
vive sul bronco.

Basta il mirto! nulla v’aggiungi! Troppo
vuoi, ragazzo, tu. Non il mirto è cosa
che disdica a te che mi porgi, a me che
vuoto, la coppa.

Ben diversi saranno i commiati degli altri libri, quando la coscienza della sua opera si sarà consolidata

in Orazio.

 

 

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