Antonio Albanese, ovvero dell’amicizia
Notizie che giungono da Tricarico mi dicono che il mio fraterno amico Antonio Albanese sta vivendo le ultime ore del suo lungo crudele e ingiusto declino.
Dovrei saper scrivere un libro, un libro veramente bello per parlare di Antonio o solo della nostra amicizia, cresciuta nel confronto e nello scontro del nostro conflitto politico – io democratico cristiano e lui comunista – e che nel conflitto si cementava ogni giorno di più.
Antonio ripudiò il comunismo dopo i fatti d’Ungheria e cercò altre strade – come intelligente e informato analista politico qual era, più che come militante -, per rimanere sempre fedele alle sue idee. Dal Movimento Comunità di Adriano Olivetti, al socialismo democratico, a un riformismo moderato. Ma non ci siamo mai pienamente incontrati sul piano politico, neppure quando egli cominciò ad apprezzare i meriti storici della Democrazia Cristiana e a riflettere sul cattolicesimo democratico – non erano le stesse correnti di pensiero cattolico che apprezzavamo -. Il dissenso e il confronto, peraltro, erano fattori di crescita della nostra amicizia e della nostra fede nella democrazia. I nostri incontri, a Tricarico o a Roma o a Perugia o a Ferrara non erano frequenti, ma il telefono ci univa.
Studenti all’Università di Napoli condividevamo la stessa pensione in via San Domenico Soriano, strada parallela a piazza Dante. Era il periodo di Portici di Rocco Scotellaro, grande amico di Antonio. Rocco la sera, scendendo a Napoli, passava da casa nostra; cenavamo col solito panino e qualche volta Rocco si fermava a dormire – gli cedevamo un letto e io e Antonio ci arrangiavamo nell’altro, a capo e a piedi, ansiosamente attenti che la padrona di casa non se ne accorgesse-.
Frequentavamo i Lunedì del Gramsci presso la facoltà di lettere dell’Università in via Mezzocannone e la sera erano discussioni e liti. Leggevamo gli stessi libri. Senza soldi tutti due, leggevamo il libro che uno di noi riusciva a procurarsi. Abbiamo letto libri terribili – Ritorno dalla Russia di André Gide, Il dio che ha fallito, il primo titolo delle edizioni Comunità, con le confessioni di sei o sette intellettuali, non ricordo, tra cui il nostro Ignazio Silone, che avevano lasciato il comunismo. In nota alla testimonianza di Silone c’era una pesante e inaccettabile replica di Palmiro Togliatti, intitolata Contributo alla comprensione della psicologia di un rinnegato. Dicevo ad Antonio che bastava leggere quella replica per non poter essere più comunista. – I quaderni dal carcere di Antonio Gramsci, nella prima edizione di Einaudi con la copertina grigia, che mi propongo di rileggere, ma non lo metto in atto, tranne che per le Lettere. – Stato e Rivoluzione di Lenin, sulla dottrina marxista dello Stato e il compito del proletariato per la rivoluzione. Per Antonio era la Bibbia, per me una lettura faticosissima, senza capirci un gran che -.
Come poteva Antonio restare comunista? Era la domanda che cercavo di sondare con grande rispetto per le idee e per l’amicizia. In un recente libro-intervista edito da Laterza, Asor-Rosa, essendogli stato domandato come mai gli argomenti dello scrittore ungherese non fossero stati tali da dissuaderlo dall’adesione al comunismo, risponde che la spiegazione è fornita dallo stesso Koestler quando descrive alla perfezione il meccanismo grazie al quale anche la confessione d’una colpa non commessa – confessione alla quale è costretto il dirigente comunista giudicato traditore – potesse rappresentare per lui l’ultima grande manifestazione di fede e di fedeltà agli ideali del comunismo. Non bastavano le denunce delle nefandezze staliniane per arrivare a un’esplicita sconfessione del comunismo. Antonio mi diceva che, anche se tutte le nefandezze staliniane fossero state vere, restava il fatto che in Unione Sovietica la rivoluzione stava realizzando i suoi obiettivi, si stava completando la fase del socialismo – a ciascuno secondo i propri meriti – per dare inizio a quella del comunismo – a ciascuno secondo i propri bisogni -. E così dicendo, con le mani, faceva il gesto di attingere una manciata di monete da un cesto. Antonio non era uno sciocco: se lui pensava così – come pensavano milioni di uomini nel mondo -, e se il comunismo infondeva per la liberazione dallo sfruttamento e dalla tirannia, il problema comunista non poteva essere liquidato semplicisticamente con la denuncia dello stalinismo. Comunista no, ma mai a destra, secondo la dottrina cattolico-democratica, per quanto mi riguardava e mi riguarda.
Concludo raccontando un episodio della nostra amicizia. Siamo nel 1956, c’era il rinnovo del consiglio provinciale, Antonio fu il candidato della sinistra e io ero il segretario della sezione della Democrazia Cristiana. Nel 1952 Rocco Scotellaro era stato pesantemente sconfitto da Ciccio Menonna. Antonio mi ha sempre detto che Rocco francamente gli aveva confidato che si era risentito molto di questa sconfitta. Per questo – mi disse Antonio – egli cedette alle insistenze e alle “minacce” affettuose della “base”: Voleva, in un certo modo, “vendicare” Rocco, morto tre anni prima, e senza che avesse preso il “pezzo di carta” della laurea. Ciccio Menonna, più giovane di Rocco, gli sopravvisse per qualche anno, si accasciò fulminato da un infarto sul suo banco di consigliere provinciale, mentre svolgeva un intervento.
Ci furono – secondo quanto Antonio mi confidava – vari tentativi di farlo desistere dal candidarsi. Anch’io tentai di dissuaderlo e non perché fossi il segretario della sezione D.C., ma perché in Antonio avvertivo da tempo aria di crisi, anche se non mi aveva mai confidato che intendesse dimettersi dal PCI.
Antonio era candidato dai partiti comunista e socialista sotto il simbolo di un aratro col cappello frigio, che era lo stesso simbolo con cui corse, cinque anni prima, Rocco Scotellaro. C’erano sei candidati, ma i due reali concorrenti erano Antonio e Ciccio Menonna. Io, come segretario D.C., mi impegnai con tutte le mie forze e capacità nella campagna elettorale per la D.C. a favore di Ciccio. Ma la mia amicizia con Antonio non cambiò di un millimetro neanche nelle manifestazioni esteriori, eravamo sempre assieme – quando non avevamo impegni elettorali – come i santi medici. Le nostre due parti politiche erano perplesse e facevano pressioni perché ci sforzassimo di apparire avversari o almeno di non stare sempre assieme. Con Antonio esaminammo il problema e concludemmo che sarebbe stato un errore e una ipocrisia comportarci diversamente. La condizione più difficile, naturalmente, era la mia, facilmente sospettabile che avrei fatto il franco tiratore. Antonio, candidato, non poteva certamente essere sospettato di tradire se stesso! I sospetti su di me erano forti, nonostante che nella campagna elettorale non concedessi nulla – facevo un comizio rionale e una riunione di caseggiato al giorno, varie riunioni e preparavo giornali parlati. Feci anche un comizio dal balcone del palazzo Ferri al Monte, proprio di fronte alla casa dove allora abitavano gli Albanese. La madre di Antonio se la prese a male, per un po’, quando andavo a casa sua, mi faceva la faccia dura -.
Antonio non aveva mai fatto un comizio né mai parlato in pubblico e la timidezza lo paralizzava. Faceva comizi rionali, ma in piazza non si decideva mai a parlare. Rimandava sempre a domani. Quando si decise a parlare, e io uno o due giorni prima ero andato a casa sua, mi fece leggere il testo del discorso che aveva preparato. Naturalmente non potevo essere d’accordo su molti punti, ma evitai una discussione, che del resto non avrebbe avuta senso. – Bello e leggibile gli dissi -. In piazza, leggilo, non correre il rischio di fare a meno del testo scritto. Tu gli sapresti dare un tono e una cadenza che vadano bene per un comizio -. Allora Antonio mi chiese un favore, che evidentemente aveva in mente da un po’. – Vieni al mio comizio – mi disse -. Se sarai presente e potrò fissare il mio sguardo su di te, sono sicuro che non mi lascerei prendere dall’emozione. –
Andai al comizio. E lo ascoltai con ansia, trepidando per Antonio, che fece un comizio veramente bello, applauditissimo. Ne fui felice.
Antonio si dimise dal PCI qualche mese dopo. Gli eventi dopo la sua elezione – il rapporto Kruscev, i fatti d’Ungheria – lo decisero a compiere questo passo. Mi informò che si sarebbe presto dimesso. Una mattina, che ero andato a casa sua – la famiglia Albanese si era intanto trasferita ai Cappuccini – trovai che aveva già scritto la lettera delle dimissioni. Durante tutto il lungo percorso fino alla Posta, nella piazzetta del Vescovado, cercai di dissuaderlo dall’impostare la lettera, di fargli rimandare l’ufficializzazione delle dimissioni, gli consigliavo di far passare un po’ di tempo e, in un certo qual modo, di prepararle, perché, date così, sarebbero scoppiate come una bomba. Come in effetti fu. Non riuscendo a convincerlo, gli consigliai di non dimettersi da consigliere provinciale, perché, essendo stato eletto in un collegio uninominale, si sarebbero dovute ripetere le elezioni, che, avendo egli ottenuto un suffragio assai più vasto del bacino elettorale dei partiti che lo avevano appoggiato, certamente avrebbero visto soccombere la parte socialcomunista. – Resta in consiglio provinciale come indipendente – gli dicevo -, vota a favore dei provvedimenti che ritieni giusti e contro agli altri, ma vota a favore dei provvedimenti qualificanti per l’amministrazione, come il bilancio.-
Antonio rimase in consiglio provinciale e seguì la linea che ho or ora indicata, come la sua coscienza, interpellata, gli suggerì di fare. La mia coscienza mi dice ancora che, dando ad Antonio quel consiglio, non commisi un atto scorretto nei confronti del mio partito. Al contrario: ero e sono convinto di avergli dato un consiglio non solo da amico, ma anche eticamente e politicamente saggio.
4 Responses to Antonio Albanese, ovvero dell’amicizia
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Come il solito, interessante, bello e veramente commovente e vissuto il tuo commento. Anche io, nelle mie venute a Tricarico, ebbi l’opportunità di conoscere Antonio (ancora ai tempi della Casa cantoniera al bivio ella strada provinciale, di fronte a Michele Mulieri !). Conobbi anche il fratello che frequentò la Facoltà di Agraria a Portici e vi fu aiutato dalla mia fidanzata (ora moglie) nel preparare la tesi di laurea. Hai descritto perfettamente l’atmosfera settaria della politica di quei tempi. Per mia fortuna, non ho mai collegato l’URSS alla mia idea di Socialismo, così come non ho mai riconosciuto il sano cattolicesimo riformista nella strumentalizzazione della DC (specie dopo la soluzione dorotea del 1959) che tanti danni ha prodotto nella società italiana e, ancor peggio, nel ruolo della Chiesa cattolica, sino a determinare addirittura l’allontanamento di molti fedeli. So che questo mio giudizio ti ferirà e te ne chiedo scusa; ma se oggi siamo nelle gravi situazioni in cui ci troviamo lo dobbiamo soprattutto all’equivoco e niente affatto corretto comportamento di molti democristiani, sorretti perfino dalle gerarchie ecclesiastiche; così come uguali -se non maggiori colpe- ho attribuito anche ai comunisti, troppo succubi dell’URSS e troppo fanaticamente in attesa di un’impossibile rivoluzione. Il colmo fu rappresentato dalla pericolosa utopia del “compromesso storico” di Berlinguer e, ancor più, dall’anomalia delle “convergenze parallele” di Moro che -direttamente o indirettamente- ci hanno portati ai vari DS, PDS e, infine, l’aborto dell’attuale PD, che non ha neanche il coraggio di chiamarsi apertamente democristiano pur avendone assunti tutti i difetti. Scusami di nuovo se ho rovinata la tua bella e sentita nota in memoria del caro Antonio (che anche io ricordo con commovente nostalgia) con con queste considerazioni, in parte fuori tema, che mi sono state suggerite dall’amarezza dello stato attuale.
Carissimo Gilberto,
Sai benissimo che i tuoi commenti mi rendono felice, qualsiasi cosa tu scriva, e qualsiasi cosa tu scriva non mi ferisce e di esse non devi scusarti. Con i tuoi giudizi, in effetti, non posso essere d’accordo, ma il rilievo è soprattutto quello che quei lontani eventi dovremmo oramai imparare a giudicarli con criterio storico e a riconoscere i meriti storici di quelle correnti che combattemmo quando eravamo giovani. Credo, inoltre, che dovremmo imparare a vedere la cesura storica che si è verificata oltre venti anni fa e a giudicare e criticare l’oggi con criteri aggiornati.
Ad Antonio Albanese devo anche il merito di averci fatti conoscere a Portici e a Tricarico, quì dopo la morte di Rocco.
La memoria ti ha tradito un po’. Antonio aveva un fratello, Micola, che purtroppo anche lui non c’è pù. Ma Nicola non ha frequentato Agraria né si è laureato in agraria, studiava da geometra a Napoli in quello stesso periodo ed è stato un bravo geometra in vita.
Buona domenica. Un abbraccio da Antonio
Ringrazio sempre per ricordare mio zio e mio papà.
Lo zio Antonio era una mente libera, coerente costantemente con i suoi ideali e un grande amante della civiltà. I miei ricordi sono tantissimi : bellissimi e indelebili. Ha conquistato tutti i nipoti conla
Ringrazio sempre per ricordare mio zio e mio papà.
Lo zio Antonio era una mente libera, coerente costantemente con i suoi ideali e un grande amante della civiltà. I miei ricordi sono tantissimi : bellissimi e indelebili. Io non l’ho visto nella veste politica, ma in quella di economista e giornalista molto impegnato e convinto in quello che svolgeva. Voglio ricordare anche la sua soddisfazione della crescita personale e dove era “arrivato”, le convocazioni ai bilanci annuali della Banca d’Italia e tanto, tanto altro.
Grazie zio di tutto