L ‘ALLORO DI DELFO
(Carm. 3, 30)

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Exegi monumentum aere perennius

regalique situ pyramidum altius,

quod non imber edax, non Aquilo inpotens

possit diruere aut innumerabilis

annorum series et fuga temporum.

 

Non omnis moriar multaque pars mei

vitabit Libitinam; usque ego postera

crescam laude recens , dum Capitolium

scandet cum tacita virgine pontifex.

Dicar, qua violens obstrepit Aufidus

et qua pauper aquae Daunus agrestium

regnavit populorum, ex humili potens

princeps Aeolium carmen ad Italos

deduxjsse modos. Sume superbiam

quaesitam meritis et mihi Delphica

lauro cinge volens, Mclpomene, comam.

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Traduzione di Giuseppe Giannotta

Ho elevato un monumento più resistente del bronzo

e più alto del posto regale delle piramidi,

tale da non essere distrutto dalla pioggia,

dal vento e dal minuto che cammina.

Non tutto morirò, e gran parte

di me resterà; sicchè aumenterò

nella lode dei posteri, mentre il pontefice

ascenderà sul Campidoglio con la vergine muta.

Sarò nominato, dove strepita l’Ofanto infrenabile

e dove Dauno povero d’acqua governò

genti campagnole, come principe

altissimo, venuto da modeste origini,

che adattò l’eolico verso

a ritmi italici. Accogli

la superbia che si gloria di meriti

e incoronami il capo benevola,

Melpòmene, dell’alloro che si adora in Delfo.

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     Carm. 3.30 (congedo). L’ode serve da congedo all’edizione dei primi tre libri delle Odi, avvenuta nel 23 a. C. Essa è inclusa integralmente nell’antologia giannottiana col titolo L’alloro di Delfo, che rinvia alla chiusura dell’ode dove Orazio chiede a Melpomene, musa della tragedia, ma anche della musica e del canto, che gli cinga il capo con la corona dell’alloro di Delfo sacro ad Apollo con cui si venerano i poeti (et mihi Delphica / lauro cinge volens, Mclpomene, comam ).

     La struttura è cadenzata dal ricorrere insistito alla prima persona: il poeta ricorda di aver compiuto (“exegi”, v. 1) un’opera duratura che gli anni non scalfiranno; egli infatti non morirà mai completamente (“non omnis moriar”, v. 6), ma crescerà (“crescam”, v. 8) fresco e giovane grazie alla lode che riceverà dai posteri fino a quando esisterà Roma. Sarà ricordato (dicar, v. 10) anche nella sua terra di origine come colui che, divenuto grande da umile che era (il padre di Orazio è un liberto, come ricorda il poeta stesso in Satira1,6), ha introdotto per primo (“princeps”, v. 13) tra i Latini la poesia lirica eolica. Solo dal v. 14 (“sume… Melpemone”) il poeta si rivolge al suo interlocutore: non si tratta però in questo caso di un essere umano, ma della Musa, invocata per di più alla fine del componimento, con uno stravolgimento del topos tradizionale che prevedeva che, in quanto fonte di ispirazione, venisse implorata all’inizio.

     Il nucleo centrale dell’ode è naturalmente l’orgogliosa rivendicazione di aver introdotto per primo a Roma i modi tipici della lirica greca. Questa affermazione, pur amplificata dal tema del primus ego, molto caro agli antichi, è tuttavia condivisibile: è vero, infatti, che già Catullo compie degli esperimenti in tal senso, ma è sicuramente Orazio ad aprirsi a una pluralità di metri mai adoperati prima in latino e a recuperare ampiamente come modelli tanto i lirici arcaici (gli eolici Saffo e Alceo, ma anche Anacreonte  e Pindaro) quanto la lirica ellenistica, elaborando insomma un nuovo genere letterario.

     APPENDICE. La piccola antologia oraziana di Giuseppe Giannotta è formata di quattordici odi (delle quali questa L’alloro di Delfo è l’ultima. Un epodo (Ep. 16, vv. 10-14), due satire (Sat. 1,6 vv. 45- 131 e Sat. 2,6 vv. 40-117), e la famosissima Ars poetica o Epistola ai Pisoni (Epis. 2,3 vv. 24-130, 377-378) completano l’antologia.

Le note all’epodo, alla satira 1,6 e all’ars poetica spiegheranno molto brevemente, in premessa, i due generi. La nota alla sat. 1,6 vale, naturalmente, anche per la sat. 2,6.

 

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