“Orazio si confessa” – Omaggio a Giuseppe Giannotta – OGNUNO GOVERNA LE AZIONI
SATIRE o SERMONES
Dopo la pubblicazione dell’epodo, è la volta delle due satire oraziane parzialmente raccolte nell’antologia giannottiana «Oraziana si confessa».
Le Satire (in latino Sermones) di Orazio sono state composte in due differenti fasi: il primo libro, dedicato al protettore Mecenate (68-8 a.C.) e che contiene dieci componimenti, è stato composto tra il 41 a. C e il 33 a.C., mentre il secondo, che comprende otto componimenti, è stato composto tra il 33 a.C. e il 30 a.C., anno che vede anche la pubblicazione degli Epòdi.
Mi pare bene dire prima come i due libri si suddividono e quindi fare un cenno ai caratteri generali e innovativi che caratterzzano quest’opera oraziana.
Libro prmo. La prima satira è una rassegna dei temi tipici delle satire, collegati all’eterna insoddisfazione degli uomini, che desiderano immense ricchezze e non sanno godere delle piccole cose; la seconda satira dibatte sull’adulterio e sulla prostituzione, che secondo Orazio è da preferire all’adulterio; la terza satira è un’ironica presa in giro della perfetta saggezza stoica; la quarta satira è un’apologia della poesia satirica, con richiami a Lucilio ed esposizione degli ideali a cui si ispirano le Satire; la quinta satira, molto famosa, è il racconto di un viaggio con Mecenate da Roma verso Brindisi, ispirato da Lucilio; della sesta satira – primo dei due componimenti di questo genere scelti da Giannotta, come si è visto – si dirà a lungo più avanti e ancora di più diranno il testo latino della satira e la traduzione di Giannotta; la settima satira è una scenetta comica tra due litiganti, tra cui il terzo gode; l’ottava satira è una storiella comica narrata da una statua del dio Priapo, antica divinità greca del sesso; nella nona satira si racconta che Orazio è disturbato da un arrivista sociale che vuole accedere alla cerchia di Mecenate; la decima satira, infine, è una difesa del genere satirico, con elencazione di pregi e difetti della poesia di Lucilio.
Il secondo libro affronta invece i seguenti argomenti: un poeta satirico discute con un giurista sui rischi della sua professione (satira 1); elogio della semplicità della vita campestre (satira 2); critica dell’idea stoica per cui solo il sapiente è sano di mente, mentre l’umanità è impazzita (satira 3); una serie di precetti di cucina e gastronomia, che espone Cazio, personaggio sul quale non si hanno notizie attendibili, con la maschera dell’insegnamento filosofico (satira 4); l’indovino Tiresia spiega a Ulisse come diventare un cacciatore di eredità (satira 5); favola del topo di città e del topo di campagna, per esaltare la vita tranquilla e serena in campagna (satira 6, che sarà pubblicata col prossimo file; il servo Davo contesta al padrone Orazio l’incapacità a contenere le passioni, come insegna lo stoicismo (satira 7); scene dal volgare banchetto di Nasidieno (satira 8).
Tra i temi affrontati dal poeta: la società romana e i suoi vizi, la propria vita quotidiana e quella degli amici del circolo di Mecenate, semplici aneddoti che permettono di sviluppare la ricerca di una “legge morale” ispirata ai criteri dell’equilibrio e della misura.
Il modello riconosciuto da Orazio è lo scrittore latino Lucilio (180 a.C. – 102 a.C.); a lui, infatti, risalgono sia l’introduzione dell’esametro come metro tipico del genere sia i temi caratteristici del genere, come la denuncia dei vizi umani attraverso le armi del comico e del sarcasmo (fino all’aggressione personale), la pluralità di argomenti che possono rientrare nella “satira”, l’atteggiamento tra il faceto e il moraleggiante del poeta.
Orazio, pur ereditando i tratti tipici dell’aggressività e della critica dei costumi del genere satirico, rielabora profondamente le caratteristiche della satira. Il poeta, infatti, conduce la propria ricerca morale e l’analisi dei vizi umani come conversazioni tra amici (da qui il titolo di Sermones) appartenenti al raffinato ed elegante circolo di Mecenate, con cui intesse un dialogo privato ed esclusivo, facendo così sfumare i toni accesi e sprezzanti della satira luciliana. A ciò si affianca la spiccata componente autobiografica, tipica dell’autore: molte delle scene comiche che si susseguono nei due volumi dei Sermones derivano dalla personale contemplazione della società, osservata senza assumere una posizione superiore o distaccata (e non senza punte autoironiche nei confronti di se stesso).
Se nella prima raccolta è costante il confronto fra un modello etico-esistenziale positivo cui mirare e tendere e gli svariati modelli negativi rappresentati da personaggi della società romana (quali cortigiane, imbroglioni, affaristi, streghe e arrampicatori sociali), la seconda raccolta dei Sermones è invece improntata più sul dialogo con un interlocutore reale o fittizio che sull’autobiografia, tanto che la ricerca morale oraziana appare qui meno compatta e coesa.
SERMONUM 1, VI
a Mecenate, apologia delle proprie origini
Ora passo a dire della sesta satira del primo libro, pubblicata parzialmente più avanti con la traduzione di Giannotta. Essa è composta di 131 versi. Giannotta ne ha espunto i primi 45, che formano la prima strofa; i restanti 86 versi sono divisi in due strofe e a questo componimento residuale Giannotta ha dato il titolo Ognuno governa le azioni. Il sermonum, nell’edizione di Mario Ramous, edizione consultata da Giannotta, s’intitola a Mecenate, apologia delle proprie origini. E una celeberrima satira, nella quale il poeta ci lascia il suo ritratto, con l’orgogliosa difesa delle proprie origini, in contrapposizione al pregiudizio, inalterato nei secoli che un’alta ascendenza faccia l’uomo di valore.
Il tema dominante della satira è la difesa di un mondo di valori veri, in cui l’uomo si eleva con le proprie capacità e i propri sforzi. Questo mondo di valori ha la sua concretezza nel circolo di Mecenate.
La satira è un’espressione di gratitudine sincera, senza ombra di servilismo, verso il protettore e amico, che ha valutato i meriti personali più importanti dei natali. Ma più ancora commossa è l’espressione di gratitudine per il padre (libertino patre natum nato da padre liberto, espressione che ritorna tre volte nella satira) che lo guidò nel mondo con i suoi umili sforzi.
E’ una satira più autobiografica delle altre, nella quale la riflessione generale diventa strettamente personale: Nunc ad me redeo libertino patre natum…ecc. Ora ritorno a parlare di me, nato da padre liberto, di me che tutti denigrano (rodunt) per essere nato da padre liberto, e adesso lo fanno perché, o Mecenate, io sono tuo commensale; un tempo perché, col grado di tribuno, a me prestava ubbidienza una legione di Roma.
Ma questo caso è diverso dal precedente: può essere che qualcuno a buon diritto m’invidi la carica, ma anche che tu mi sia amico, giacché sei molto avveduto nello scegliere persone degne, del tutto estranee all’arrivismo. Considerarmi fortunato per questo, cioè di averti avuto in sorte come amico per puro caso non potrei: Virgilio, un giorno, e dopo di lui Vario, ti dissero che tipo di uomo io fossi. Quando fui alla tua presenza pronunciai poche parole balbettando; un reticente ritegno m’impediva di dire di più: e ti raccontai non di essere nato da padre illustre, non di viaggiare intorno ai miei poderi con un nobile cavallo (non ego circum me Sarreiano vectari rura caballo > nel testo il cavallo è detto satureiano – e così traduce Giannotta –, perché Saturion o Satureium, villaggio vicino a Taranto, era famoso per il suoi allevamewnti di razza) bensì ciò che io ero.
Tu mi rispondi poche parole com’è tua abitudine: io mi congedo; tu mi richiami dopo 9 mesi e m’inviti a essere nel numero dei tuoi amici. Questo è il merito di cui mi vanto: di essere piaciuto a te che ben sai distinguere l’uomo degno dall’uomo spregevole, non perché nato da padre illustrissimo, ma perché di costume e cuore candido.
Tu non ti sei mai preoccupato di sapere chi fosse mio padre, e hai ragione. Ma io devo a mio padre altre cose, che non la nobiltà dei natali: la formazione del mio carattere.
Il merito dell’integrità morale Orazio la attribuisce al padre di cui ricorda l’affetto, la saggezza e la dignità. Se nessuno, parlando con schiettezza, mi rinfaccerà avidità, grettezze, volgari stravizi; se candido, incolpevole e candido io vivo e caro agli amici al punto da inorgoglirmene: di questo fu causa mio padre.
Le figure che dominano questa satira sono tre: Mecenate, il padre di Orazio, Orazio stesso.
L’irrisione della nobiltà di nascita era già nella tradizione diatribica: si narrava che Bione di Boristene al re Antigono Gonata che gli domandava chi fosse e di che città, rispondeva che era figlio di uno schiavo furfante e di una meretrice e concludesse “Giudica me da me stesso”. Questa perenne lotta tra il falso valore della nascita e il vero valore individuale Orazio l’ha vissuto sempre per tutta la vita.
La satira, per concludere, si concentra tutta sul lato positivo del mondo oraziano, sulla serenità e la gioia che gli dà la sua saggezza.
In questa satira è stata cercata una qualche forma di ribellione alle strutture politiche della società romana. Si tratta di una ricerca senz’altro minoritaria, da qualcuno definita addirittura assurda. A parte il fatto che Roma non ebbe mai una vera rivoluzione delle classi medie e più umili, il problema di Orazio si fonda sulla dignità morale e indipendenza che deve ottenere l’intellettuale, qualunque sia la sua origine.
Peraltro si è voluto vedere, «in una certa guisa, un’anticipazione dell’ideologia del marxismo per la quale l’uomo si crea dal basso con il proprio lavoro» (Ugo Dotti, Orazio – Satire, Universale Economica Feltrinelli, 2006, p.204).
Orazio precursore del marxismo m’induce a pensare al mio rapporto personale col poeta venosino e a costatare che esso è naufragato nel ridicolo. A quattro anni, come ho raccontato nella nota all’ode La fontana di Banzi, partecipai a Venosa alle per me misteriose e faticose celebrazioni del bimillenario della nascita di Orazio, e mi formai la convinzione che Orazio fosse un amico molto importante di mio padre. Quando presi a frequentare le elementari e a partecipare alle obbligatorie manifestazioni del sabato fascista, cantando gli inni fascisti, tra questi quello che più mi piaceva e cantavo a voce spiegata era l’Inno a Roma (Sole che sorgi / libero e giocondo / sul colle nostro i tuoi cavalli doma; / tu non vedrai nessuna cosa al mondo / maggior di Roma, / maggior di Roma – dal Carme secolare di Orazio). Ci insegnarono, appunto, che questo bell’inno l’aveva composto Orazio, precursore del fascismo. Io non sapevo il significato della parola “precursore” e pensai che Orazio, amico di mio padre, fosse un grande capo del fascismo con l’importante incarico di … precursore. In questo inizio del mio ottantaseiesimo inverno consulto il libro innanzi citato, pubblicato nel 2006, è leggo che Orazio è stato anche, se non proprio, almeno “a guisa di” un precursore del marxismo. E il mio fanciullesco, e sempre tenero, rapporto con Orazio è quindi naufragato nel ridicolo e dissolto … con dispiacere.
OGNUNO GOVERNA LE AZIONl
Sermonum I, VI vv. 45-131
Nunc ad me redeo libertino patre natum,
quem rodunt omnes libertino patre natum,
nunc, quia sim tibi, Maecenas, convictor, at olim,
quod mihi pareret legio Romana tribuna.
Dissimile hoc illi est, quia non, ut forsit honorem
iure mihi invideat quivis, ita te quoque arnicum,
praesertim cautum dignos adsumere, prava
ambitione procul. felicem dicere non hoc
me possim, casu quod te sortitus amicum;
nulla etenim mihi te far obtulit. Optimus olim
Vergilius, post hunc Variu dixere, quid essem.
Ut veni coram, singultim pauca locutu –
(infans namque pudor prohibebat plura profari),
non ego me claro natum patre, non ego circum
me Satureiano vectari rura caballo,
sed quod eram narro. Respondes, ut tuus et mos,
pauca. Abeo; et revocas nono post men e iubesque
esse in amicorum numero. Magnun hoc ego duco,
quod placui tibi, qui turpi secernis honestum
non patre praeclaro, sed vita et pectore puro.
Atqui si vitiis mediocribus ac mea paucis
mendosa est natura, alioqui recta, velut si
egregio inspersos reprendas corpore naevos;
si neque avaritiam neque sordes nec mala lustra
obiciet vere quisquam mihi, purus et insons,
ut me collaudem, si et vivo carus amicis,
fuit pater his; qui macra pauper agello
noluit in Flavi ludum me mittere, magni
quo pueri magnis e centurionibus orti
laevo suspensi loculos tabulamque lacerto
ibant octonos referentes Idibus aeris;
sed puerum est ausus Romam portare docendum
artis quas doceat quivis eques atque senator
semet prognatos. vestem servosque sequentis,
in magno ut populo, si qui vidisset, avita
ex re praeberi sumptus mihi crederet illos.
Ipse mihi custos incorruptissimus omnis
circum doctores aderat. Quid multa? Pudicum,
qui primus virtutis honos, servavit ab omni
non solum facto, verum opprobrio quoque turpi
nec timuit, sibi ne vitio quis verteret, olim
si praeco parvas aut, ut fuit ipse, coactor
mercedes sequerer; neque ego essem questus,. At hoc nunc
laus illi debetur et a me gratia maior.
Nil me paeniteat sanum patris huius, eoque
non, ut magna dolo factum negat esse suo pars,
quod non ingenuos habeat clarosque parentis,
sic me defendam. Longe mea discrepat istis
et vox et ratio: nam si natura iuberet
a certis annis aevum remeare peractum
atque alios legere, ad fastum quoscumque parentis,
optaret sibi quisque, meis contentus honestos
fascibus et sellis nollem mihi sumere, demens
iudicio volgi, sanus fortasse tuo, quod
nollem onus haud umquam solitus portare molestum.
Nam mihi continuo maior quaerenda foret res
atque salutandi plures, ducendus et unus
et comes alter, uti ne solus rusve peregreve
exirem, plures calones atque caballi
pascendi, ducenda petorrita. Nunc mihi curto
ire licet mulo vel si libet usque Tarentum,
mantica cui lumbos onere ulceret atque eques armos:
obiciet nemo sordis mihi, quas tibi, Tilli,
cum Tiburte via praetorem, quinque secuntur
te pueri, lasanum portantes oenophorumque.
Hoc ego commodius quam tu, praeclare senator,
milibus atque aliis vivo. Quacumque libido est,
incedo solus, percontor quanti holus ac far,
fallacem circum vespertinumque pererro
saepe forum, adsisto divinis, inde domum me
ad porri et ciceris refero laganique catinum.
Cena ministratur pueris tribus et lapis albus
pocula cum cyatho duo sustinet, adstat echinus
vilis, cum patera guttus, Campana supellex.
Deinde eo dormitum, non sollicitus, mihi quod cras
surgendum sit mane, obeundus Marsya, qui se
voltum ferre negat Noviorum posse minoris.
Ad quartam iaceo; posto hanc vagor, aut ego lecto
aut scripto quod me tacitum iuvet unguor olivo,
non quo fraudatis inmundus Natta lucernis.
Ast ubi me fessum sol acrior ire lavatum
admonuit, fugio Campum lusumque trigonem.
Pransus non avide, quantum interpellet inani
ventre diem durare, domesticus otior. Haec est
vita solutorum misera ambitione gravique;
his me consolor victurum suavius ac si
quaestor avus pater atque meus patruusque fuissent.
______________________________________________
Traduzione di Giuseppe Giannotta
Ora torno a me, figlio di padre liberto, da tutti chiacchierato, perchè figlio di padre liberto, ora perchè molto vicino a te, Mecenate; prima per il motivo che comandavo, come tribuno, una legione romana. E c’è indubbiamente differenza, giacchè se – a ragione – potrebbe taluno invidiarmi la carica di tribuno, non è così per la tua amicizia, soprattutto pensando che tu sei cauto nella scelta degli amici, mantenendoti lontano dalla scorretta ambizione.
Posso per questo considerarmi felice, perchè non ebbi a caso la tua amicizia. Infatti, non fu un caso il nostro incontro; un giorno, l’ottimo Virgilio e poi Vario, ti raccontarono chi io fossi. Non appena comparvi dinanzi a te, balbettando poche parole (un’infantile soggezione mi impediva di parlare a lungo), non ti dissi di essere nato da un padre illustre, nè di andare per i miei possdimenti con un cavallo Satureiano, ma raccontai chi ero.
Rispondesti brevemente, com’è tuo costume. Io, me ne andai e, dopo nove mesi, mi richiamasti, invitandomi a far parte della cerchia dei tuoi amici. Faccio gran conto di aver ottenuto la tua simpatia (tu sai distinguere l’onesto dal cattivo), non per la nobiltà del casato, ma per la purezza della vita e dei sentimenti.
E se la mia indole ha pochi vizi tollerabili, ed è nel resto retta, come si volesse rimproverare la presenza di nei in un corpo ben fatto, se nessuno, innocente e puro, può censurarmi per avidità, grettezza, e tempo passato nei bordelli, in modo che io me ne vanti, se vivo benvoluto dagli amici, il merito di ciò spetta a mio padre che, povero, con un magro campicello, non volle mandarmi alla scuola di Flavio, ove si recavano, con la cartella e le tavolette appese alla spalla sinistra i figli dei signori discesi dai centurioni portandogli, alle Idi d’ogni mese, otto soldi.
Mio padre ebbe il coraggio di portarmi a Roma, quand’ero fanciullo, per darmi l’istruzione nelle discipline in cui cavalieri e senatori istruirebbero i propri figli. Chi avesse osservato il mio vestire e i servi che mi seguivano si sarebbe persuaso che le spese provenissero dal patrimonio degli avi. Inoltre, mi accompagnava personalmente presso i maestri, in ogni cosa impeccabile. Concludendo, egli mi preservò il pudore, che è in cima alle virtù, da ogni atto e figura men che decorosa, nè temette che potesse imputarsi a suo difetto se io, banditore o, come fu lui, esattore, fossi pagato poco. E non eleverei doglianze; mentre ora occorre lodarlo e io devo per lui maggiore riconoscenza. Non mi vergognerò, finchè avrò senno, di un padre del genere, e quindi non mi scuserò, come i più che dicono non potersi ascrivere al loro volere se non hanno genitori irreprensibili o famosi.
Di molto, le mie parole e il mio pensiero divergono da costoro. Invero, se la natura potesse consentire, a una certa età, di tornare sul cammino percorso e scegliere altri genitori, secondo il proprio orgoglio, io contento dei miei, non ne prenderei altri, anche se encomiabili per onori e seggi curuli; pazzo, io credo, per la gente, saggio, con buona probabilità, per te, percbè non vorrei sopportare un fastidio al quale non sono abituato. Dovrei presto, per l’appunto, aspirare a un patrimonio maggiore, salutare più persone; condurre con me uno o due compagni, in modo che non esca da solo per andare in campagna, o viaggiare, cibare facchini e cavalli, guidare carrozze.
Ma ora posso andare anche fino a Taranto, se mi piace, su un mulo scadente, cui piaghino i lombi e i fianchi il carico e gli sproni del cavaliere. E nessuno potrà dirmi d’essere gretto come te, Tillio, allorchè, come pretore, attraversi Via Tiburtina solo con cinque servi, che portano il pitale e il fiasco del vino.
Per questo e tanti altri motivi, io vivo meglio che te, insigne senatore; da solo vado dove voglio, domando il costo delle verdure e del farro, m’inoltro fra gli impostori del Circo e spesso, di sera, erro per il Foro, porgo orecchio agli indovini, e poi rientro a casa, al mio piatto di ceci, porri e frittelle.
Mi servono la cena tre schiavi: su un marmo bianco poggiano due bicchieri e un ramaio di vino; gli è vicino una saliera di modico prezzo e il gotto col piatto, stoviglie fabbricate in Campania.
Poi vado a dormire, senza la preoccupazione di alzarmi presto domani per parla re con Marsia, che dice di non poter sopportare il volto di Novio il giovane. Giaccio fino alle dieci, e poi mi metto a vagare, oppure dopo aver letto o scritto quanto vale a soddisfarmi , mi spalmo di olio d’oliva, ma non di quello che lo spilorcio Natta sottrae alle lucerne. E quando il sole pungente mi spinge stanco a farmi il bagno, sollecito mi allontano dal Campo Marzio e dal giuoco della palla. Dopo aver mangiato una colazione, consumata non per appagare la gola ma per riempire lo tomaco in modo che sostenga non vuoto la giornata, giro in ozio per la casa.
Questa è la vita di chi è libero da misere ambizioni. E mi consolo che, così, vivrò più serenamente che se fossero stati questori: il mio avo, il padre e lo zio paterno.
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