SERMONUM 2,6
Vita di città e vita di campagna

 

     La sesta satira del secondo libro dei Sermones è celebrata come la più bella satira di Orazio. Giannotta, omessi i primi 39 versi, l’ha intitolata «Il topo campagnolo» con espresso riferimento alla favola del topo di città e del topo di campagna raccontata nel finale della satira stessa. In sostanza è intitolazione analoga a «vita di città e vita di campagna» adottata per l’edizione di Mario Ramous consultata da Giannotta. Personalmente preferisco come titolo, da altri adottato, l’emistichio del primo verso «Hoc erat in votis» > Questo era il mio desiderio: un pezzo di terra non tanto grande, dove ci fossero un orto e vicino a casa una fonte d’acqua perenne, sul quale desiderio, come abbiamo visto nella nota all’ode O fons Bandusiae, è fondata la convinzione della localizzazione a Banzi della celeberrima fonte.

     La satira è composta di 117 versi (78 – 117 meno 39 – nell’edizione Giannotta ) ed è divisa in tre parti: nella prima il poeta esprime a Mecenate la sua gioia per il dono della villa e descrive con vivacità i fastidi della vita cittadina; nella seconda esalta la tranquilla vita di campagna; nella terza narra la favola del topo di città e del topo di campagna.

     Orazio si dichiara soddisfatto del suo desiderio esadito e null’altro chiede a Mercurio – che, oltre ad essere il dio dei commerci e dei guadagni, proteggeva anche i poeti – se non che i doni ricevuti gli fossero assicurati per sempre.

     Essa si distacca dalle altre satire: meno raccoglie dell’aggressività della diatriba di Lucilio e appare vicina al tono di molte odi.  Solo i pochi fastidi che gli derivano dalla notorietà e l’apologo finale del topo di campagna, ci riportano nel clima delle satire.

     Qualche lieve ironia è riservata anche a Mecenate, che pare servirsi dell’amico solo per il futile scambio di sciocchezze.

     Nella prima parte della satira Orazio esalta la vita semplice della campagna. Nel luogo ameno in cui la casa è collocata, egli può trovare la serenità, lontano dalle beghe e dai fastidi della vita di città. A causa della sua amicizia con Mecenate, tutti gli si raccomandano, sperando di ottenere chissà quali favori e pertanto il poeta esalta, per contrasto, le gioie della vita campestre: la lettura, il dolce far niente, le cene con gli amici allietate dal buon vino e, dopo cena, le conversazioni su temi seri e coinvolgenti: la felicità, l’amicizia, la natura del bene. Proprio durante una di queste conversazioni, il vicino Cervio narra la favola del topo di campagna e del topo di città.

     L’usanza di inserire favole nelle trattazioni letterarie è patrimonio della cultura greca arcaica: ne troviamo esempi  in Esiodo e Archiloco, ma è solo con Esopo (IV sec. a.C) che la favola, patrimonio della cultura orale, diviene genere letterario. Nel mondo latino prima di Fedro sarà la satira, proprio per il suo carattere di miscellanea, ad accogliere in sé l’apologo. Su Orazio agisce poi anche l’influenza della diatriba cinico-stoica, che si serviva di apologhi per affermare teorie filosofiche.

     Orazio si serve dunque di un apologo, che ha per protagonisti gli animali e contiene una morale, per illustrare il suo ideale di vita ed esporre i temi che sono alla base della sua poetica, che, per questo aspetto, tocca l’acme nell’ode Carpe diem con l’invito a godere di ogni istante come se fosse l’ultimo.

     Portavoce di questi principi sono due topi, originalissimi nel loro modo di essere, che hanno una forte carica di umanità nel modo di comportarsi, ma nello stesso tempo mantengono inalterate certe caratteristiche della loro animalità: ora parlano e ragionano l’uno come un campagnolo sabino un po’ rozzo, ma pieno di buon senso (asper et attentus quaesitis), e l’altro come un uomo di città elegante e raffinato ( tangentis male singula dente superbo); ora invece si evidenziano i tratti peculiari della loro natura (levis exsilit, subrepere, praelambens). E sono personaggi non privi di spessore psicologico, che Orazio sa delineare con acutezza: ruvido e taccagno, eppure disposto ad offrire il meglio al suo ospite e perfettamente a suo agio sul giaciglio di modesta paglia (magnitudo parvi) il topo campagnolo, schifiltoso e sprezzante il topo cittadino, conoscitore del mondo e della filosofia epicurea, che cita in maniera salottiera e spicciola (terrestria mortalis animas vivunt) per concludere con il rozzo ed esplicito invito a vivere in rebus iucundis, ma nello stesso tempo pronto a farsi schiavo per persuadere del tutto l’amico della magnificenza  dello stile di vita che propone.

     Raffinatissimo anche lo stile della favola.

     Efficaci infine le ultime parole del topo campagnolo, che contengono la morale della favola: meglio gli umili legumi, ma consumati nella pace e nella tranquillità del suo angulus che tutta l’abbondanza e lo sfarzo in mezzo alle insidie.

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 Sermonum 2, VI vv. 40-117
IL TOPO CAMPAGNOLO

Septimus octavo propior iam fugerit annus,

ex quo Maecenas me coepit haber suorum

in numero, dumtaxat ad hoc, quem tollere raeda

vellet iter faciens et cui concredere nugas

hoc genus: ” hora quota est?” “Traex est Gallina

Syro par?”

“matutina parum cautos iam frigora mordent”,

et quae rimosa bene deponuntur in aure.

per totum hoc tempus subiectior in diem et horam

invidiae noster. ludos spectaverat, una

luserat in campo: ” fortunae filius” omnes.

frigidus a rostris manat per compita rumor:

quicumque obvius est, me consulit: «O bone – nam te

scire, deos quoniam propius contingis, oportet -,

numquid de Dacis audisti?» «nil equidem.» «Ut tu

semper eris derisor.» «at omnes di exagitent me,

si quicquam.» «quid? militibus promissa Triquetra

praedia Caesar an est Itala tellure daturus?»

iurantem me scire nihil mirantur ut unum

scilicet egregii mortalem altique silenti.

perditur haec inter misero lux non sine votis:

o rus, quando ego te adspiciam quandoque licebit

nunc veterum libris, nunc somno et inertibus horis

ducere sollicitae iucunda oblivia vitae?

o quando faba Pythagorae cognata simulque

uncta satis pingui ponentur holuscula la rdo?

o noctes cenaeque deum, quibus ipse meique

ante Larem proprium vescor vernasque procacis

pasco libatis dapibus_. prout cuique libido est,

siccat inaequalis calices conviva solutus

legibus insanis, seu quis capit acria fortis

pocula seu modicis uvescit laetius. ergo

sermo oritur, non de villis domibusve alienis,

nec male necne Lepos saltet; sed, quod magis ad nos

pertinet et nescire malum est, agitamus, utrumne

divitiis homines an sint virtute beati,

quidve ad amicitias, usus rectumne, trahat nos

et quae sit natura boni summumque quid eius.

Cervius haec inter vicinus garrit anilis

ex re fabellas. siquis nam laudat Arelli

sollicitas ignarus opes, sic incipit: “olim

rusticus urbanum murem mus paupere fertur

accepisse cavo, veterem vetus hospes amicum,

asper et attentus quaesitis, ut tamen artum

solveret hospitiis animum. quid multa? neque ille

sepositi ciceris nec longae invidit avenae,

aridum et ore ferens acinum semesaque lardi

frusta dedit, cupiens varia fastidia cena

vincere tangentis male singula dente superbo,

cum pater ipse domus palea porrectus in horna

esset ador loliumque, dapis meliora relinquens.

tandem urbanus ad h une “quid te i uva t”, inquit, “amice,

praerupti nemoris patientem vivere dorso?

vis tu homines urbemque feris praeponere silvis?

carpe viam, mihi crede, comes, terrestria quando

mortalis animas vivunt sortita neque ulla est

aut magno aut parvo teti fuga: quo, bone, circa,

dum licet, in rebus iucundis vive beatus,

vive memor, quam sis aevi brevis.” haec ubi dieta

agrestem pepulere, domo levis exsilit; inde

ambo propositum peragunt iter, urbis aventes

moenia nocturni subrepere. iamque tenebat

 

nox medium caeli spatium, cum ponit uterque

in locuplete domo vestigia, rubro ubi cocco

tincta super lectos canderet vestis eburnos

multaque de magna superessent fercula cena,

quae procul exstructis inerant hesterna canistris.

ergo ubi purpurea porrectum in veste locavit

agrestem, veluti succinctus cursitat hospes

continuatque dapes nec non verniliter ipsis

fungitur officiis, praelambens omne quod adfert.

ille cubans gaudet mutata sorte bonisque

rebus agit laetum convivam, cum subito ingens

valvarum strepitus lectis excussit utrumque.

currere per totum pavidi conclave magisque

exanimes trepidare, simul domus alta Molossis

personuit canibus. tum rusticus: “haud mihi vita

est opus hac” ait et “valeas: me silva cavosque

tutus ab insidiis tenui solabitur ervo”.

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Traduzione di Giuseppe Giannotta

     Il settimo anno è fuggito già vicino all’ottavo, da quando Mecenate iniziò ad avermi nella cerchia degli amici, non per altro che per farmi salire sul cocchio nelle sue passeggiate e dirmi inezie come queste: “Che ora è?” ” il tracio Gallina è in grado di gareggiare col Sirio?”, “la brezza mattutina t’investe se non usi la cautela dovuta”; confidenze che, si sa, si fanno anche a orecchie sfiatate.

     Da allora, il nostro Orazio è esposto all’invidia, ogni momento di più. È stato ai giochi con Mecenate? Ha giocato nel Campo Marzio insieme a lui? “Figlio della fortuna”, dicono tutti.

     Una notizia agghiaccia i presenti dai rostri ai crocicchi; mi incontra uno che mi domanda: “O amico, tu devi sapere, perchè stai vicino agli dei, che udisti dei Daci?” “Nulla, in verità”. “Oh, come vorrai sempre scherzare”. “Che mi spezzino gli dei, se so qualcosa.” “Che dici, Cesare darà le terre promesse ai veterani, in Sicilia o nell’Italia intera?” Mi osservano mentre giuro di non saper nulla come un esempio d’assoluta segretezza.

     Passa miseramente la giornata, non senza che io invochi: O campagna, quando ti rivedrò o potrò dedurre dai libri degli antichi, dal sonno e dalle ore di riposo, la gradita dimenticanza della vita che sollecita? O quando mi porrò davanti al piatto delle fave, per Pitagora consanguinee alle persone, o di verdura, condita col lardo più che bene? O notti e cene degli dei, in cui, con i miei , pranzo davanti a un Lare, e mi nutro di sostanze succulente distribuendo ai servi il resto.

     Secondo i propri bisogni, il commensale tracanna i calici di taglia diversa, libero dalle norme solite, sia che taluno ami bicchieri di vino forte, sia che prenda un vinello.

     Sorge una discussione, non certamente su ville o palazzi altrui, o se balli bene o male Lepore; ma discutiamo su che cosa c’interessa e che è disgrazia non sapere, se è la ricchezza o la virtù che fa felice l’uomo, e muove all’amicizia la abitudine o la rettitudine, ovvero ci attiri il bene e la sua perfezione. Di fronte a ciò, il vicino Cervio si fa bello con le novelle della nonna. Se qualcuno, ignaro, loda le agitate ricchezze di Arelli, così principia: “Una volta un topo di campagna accolse nel suo misero covo un topo di città, come potrebbe un vecchio ospite ricevere un vecchio amico, avaro e attento alle provviste, in maniera da salvare i doveri che incombono all’ospite. Perchè tante parole? Non lesinò ceci posti in serbo, nè la lunga avena; inutilmente gli mise in bocca acini secchi e pezzi di lardo rosicchiato, volendo con una cena varia vincere il fastidio dell’altro, che toccava altezzosamente ogni cosa con disgusto; mentr’egli, il padrone di casa, rodeva grano e loglio, lasciandogli il meglio.

Infine, il topo di città gli parlò: “Che ti serve, amico, vivere di stenti su questo dorsale silvestre? Perchè non preferisci il mondo e la città a queste cupe foreste? Credi a me, prendi la via in mia compagnia e considera che i terrestri hanno vita scontata e non c’è scampo alla morte, nè per il piccolo nè per il grande; quindi, amico, finchè è consentito, goditi le gioie possibili, e non scordare che la vita è corta”.

     Queste parole convinsero il topo di campagna che uscì immediatamente dalla tana; dopo, entrambi percorrono il cammino necessario e s’introducono notte tempo nelle mura della città.

-66- Già la notte era nel mezzo del cielo, quando ambedue entrarono in una casa signorile, dove una coperta rosso-crèmisi si pavoneggiava sui letti d’avorio, e c’erano i resti dei piatti d’una cena pomposa, preparati il giorno prima in stracolmi canestri.

     Perciò, dopo aver collocato il topo di campagna su un manto di porpora, l’ospite s’affretta, come se avesse sui fianchi le vesti, e gli offre portate in continuazione, mostrandosi nella sua parte servile e pregustando prima tutto. L’altro, ben adagiato, gode della nuova condizione e, fra quella dovizia, si atteggia a convitato felice, allorchè, all’improvviso, uno strepito di porte scaraventa ambedue dai letti. E correvano impauriti per la stanza e, precisamente, tremavano come mezzo-morti, quando la casa rintronò per i latrati dei molossi.

     Allora, disse il topo di campagna: “Non amo questa vita, addio: il bosco e la mia tana, al riparo dai rischi, saranno mio giusto compenso alle povere lenticchie”.

 

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