“Orazio si Confessa” – Omaggio a Giuseppe Giannotta – L’Ars poetica (Lettera ai Pisoni)
EPISTULARIUM
Le Epistole sono componimenti in esametri, composte di 2 libri. Il primo libro, uscito nel 20 a.C. e dedicato a Mecenate, contiene 20 epistole; il secondo libro contiene due epistole: la prima, dedicata ad Augusto, è del 14 o 13, la seconda dedicata a Floro (Anneo Lucio Floro, maestro di retorica e storico di origine africana) è del 18 circa.
Al secondo libro è aggiunta l’epistola ai Pisoni, nota come “Ars poetica” (17 o 13 a.C.), della quale Giannotta ha scelto e tradotto 108 versi dei 476 di cui l’epistola è composta. Sin dall’antichità questa epistola andò separata dalle altre due, per la sua natura particolare e anche perché, data la sua lunghezza, costituiva un volumetto a parte: ricca di riferimenti a Neottolemo di Pario e ancor più ad Aristotele, l’ Ars è impostata sul problema dell’unità dell’opera d’arte e del rapporto tra contenuto e forma, esaminato prendendo come principale punto di riferimento il dramma.
L’epistola in esametri è probabilmente una sperimentazione originale. Con essa il poeta cerca un dialogo più intimo e raccolto con sé stesso: c’è un bisogno di calma e di tolleranza, in cui si annida tanta esperienza umana, interiorizzata in una sorta di ascesi laica (e il tutto presuppone lo spostamento verso una periferia agreste, che risuona di memorie filosofiche: quasi un ‘angulus’, insomma, di meritato ‘otium’): è il frutto della migliore lezione del suo epicureismo. Le lettere, così, sono dirette ad una pluralità di personaggi, umili e potenti, giovani ed adulti, che rappresentano tutto il mondo relazionale ed affettivo del poeta; esse forniscono uno spaccato del suo mondo interiore, un punto di sintesi delle sue riflessioni sulla vita, sugli uomini, sulla filosofia; esprimono, insomma, la voce più matura di Orazio, che vive con bonario distacco le vicende dell’esistenza e che attribuisce ai fragori ed alle inquietudini del vivere un valore ormai relativo: l’ammonimento a conseguire la saggezza, unico rimedio ai mali che affliggono l’uomo, è – sotto questo aspetto – il vero e genuino elemento che percorre tutta la raccolta.
Molto si è discusso, e si continua a discutere, se considerare quest’opera un vero e proprio trattato sull’arte poetica oppure semplicemente un insieme di riflessioni senza un progetto unitario (il tono è quello di una conversazione dotta, ma altresì amabile e confidenziale): comunque, sostanzialmente, essa è composta di due ben definiti nuclei concettuali, che trattano questioni relative all’arte del poetare ed alla figura del poeta.
Riguardo al primo punto, due tesi, in particolare, sono rimaste celebri: la necessità di fondere la spontaneità e l’immediatezza dell’ispirazione con lo studio metodico e il paziente lavoro di lima; e il noto principio dell’ «utile dulci», della fusione cioè, diremmo oggi, fra utile e dilettevole.
Riguardo, invece, alla seconda questione (l’«artifex» della poesia), Orazio insiste molto sulla conquista della «sapientia»: per lui, innanzitutto, il poeta – come uomo – deve raggiungere un alto grado di consapevolezza e di conoscenza, erudita e soprattutto interiore; è questo, infatti, essenzialmente, il presupposto l’inizio e la fonte dello scrivere bene. A ben vedere, una sorta di testamento umano e letterario che il nostro poeta ha lasciato ai posteri.
Concludo con questa breve ma icastica considerazione mutuata da Italo Lana, docente di Letteratura latina in varie Università: «nella dotta Atene Orazio. poco più che adolescente cercava di apprendere cosa fosse il vero ed il bene; nella quiete sabina degli ultimi suoi anni cercava ancora che cosa fossero il vero e il bene; questi, l’aspirazione di tutta la sua vita, e la sua poesia, la traccia lasciata da un’anima sorridente sì, ma inquieta».
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L’ARS POETICA IN «ORAZIO SI CONFESSA»
Nella raccolta «Orazio si confessa» è riportata una piccola parte dell’epistola: soli 108 versi (24-130; 377, 378) dei 476 di cui essa si compone; per di più, gli ultimi due versi (377-378) sono riportati all’inizio e tradotti in versi, al contrario del corpo dell’epistola selezionata, che è tradotta in forma prosastica. Con tale scelta Giannotta ha voluto indicarci il criterio della sua scelta, espresso dai versi 377 e 378, così tradotti:
Così la poesia, nata per rigenerare lo spirito,
per poco che scade dalla cima
muta in cenere.
In un contesto allargato ai due versi precedenti Orazio ci dice che, come in un banchetto gradevole un concerto stonato o il miele sardo coi i semi di papavero danno fastidio, perché il pranzo poteva farne a meno, così la poesia, nata per rigenerare lo spirito, per poco che scade, si corrompe.
Inoltre, nei 108 versi che formano il corpo della satira selezionata da Giannotta, Orazio, ci dice. in stringatissima sintesi, a) che il poeta deve affrontare argomenti pari alle sue forze (vv. 38-40), b) che la coerenza dell’opera deve essere nei contenuti, nel linguaggio e nello stile, e quindi metro (vv.74-85) e stile (vv. 86 -124) devono essere diversi in base ai diversi generi letterari.
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ARTE POETICA (Al PISONl)
(Ep. 2,3 vv. 24-130, 377-378)
Sic animis natum inventumque poema iuvandis,
si paulum summo decessit, vergit ad imum.
Maxima pars vatum, pater et iuvenes patre digni,
decipimur specie recti. Brevis esse laboro
obscurus fio; sectantem levia, nervi
deficiunt animique; professus grandia turget;
serpit humi tutus nirnius timidusque procellae;
qui variare cupit rem prodigialiter unam,
delphinum silvis adpingit, fluctibus aprum.
In vitium ducit culpae fuga, si caret arte.
Aemilium circa ludum faber imus et unguis
exprimet et mollis imitabitur aere capillos,
infelix operis summa, quia ponere totum
nesciet. Hunc ego me, siquid componere curem,
non magis esse velim quam naso vivere pravo
spectandum nigris oculis nigroque capillo.
Sumite materiam vestris, qui scribitis, aequam
viribus et versate diu quid ferre recusen t,
quid valeant umeri. Cui lecta potenter erit res,
nec facundia deseret hunc, nec lucidus orda.
Ordinis haec virtus eri t et venus, aut ego fallor,
ut iam nunc dicat iam nunc debentia dici,
pleraque differat et praesens in tempus omittat,
hoc amet, hoc spernat promissi carminis auctor.
In verbis etiam tenuis cautusque serendis
dixeris egregie, notum si callida verbum
reddiderit iunctura novum. Si forte necesse est
indiciis monstrare recentibus abdita rerum, et
fingere cinctutis non exaudita Cethegis
continget dabiturque licentia sumpta pudenter,
et nova fictaque nuper habebunt verba fidem, si
Graeco fonte cadent parce detorta. Quid autem
Caecilio Plautoque dabit Romanus, ademptum
Vergilio Varioque? Ego cur, adquirere pauca
si possum, invideor, cum lingua Catonis et Enni
sermonem patrium ditaverit er nova rerum
nomina protulerit? Licuit semperque Jicebit
signatum praesente nota producere nomen.
Ut silvae foliis pronos mutantur in annos,
prima cadunt, ita verborum vetus interit aetas,
et iuvenum ritu florent modo nata vigentque.
Debemur morti nos nostraque. Sive receptus
terra Neptunus classes Aquilonibus arcet,
regis opus, sterilisve diu palus aptaque remis
vicinas urbes alit et grave sentit aratrum,
seu cursum mutavit iniquom frugibus amnis,
doctus iter melius, mortalia facta peribunt,
nedum sermonum stet honos et gratia vivax.
Multa renascentur quae iam cecidere, cadentque
quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus,
quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi.
Res gestae regumque ducumque et tristia bella
quo scribi possent numero, monstravit Homerus.
Versibus impariter iunctis querimonia primum,
post etiam inclusa est voti sententia compos;
quis tamen exiguos elegos emiserit auctor,
grammatici certant et adhuc sub iudice lis est.
Archilochum proprio rabies armavit iambo;
hunc socci cepere pedem grandesque coturni,
alternis aptum sermonibus et popularis
vincentem strepitus et natum rebus agendis.
Musa dedit fidibus divos puerosque deorum
et pugilem victorem et equom certamine primum
et iuvenum curas et libera vina referre.
Discriptas servare vices operumque colores
cur ego, si nequeo ignoroque, poeta salutor?
cur nescire pudens prave quam discere malo?
Versibus exponi tragicis res comica non vult;
indignatur item privatis ac prope socco
dignis carminibus narrari cena Thyestae.
Singula quaeque locum teneant sortita decentem.
Interdum tamen et vocem comoedia tollit,
iratusque Chremes tumido delitigat ore;
et tragicus plerumque dolet sermone pedestri
Telephus et Peleus, cum pauper et exul uterque
proicit ampullas et sesquipedalia verba,
si curat cor spectantis tetigisse querella.
Non satis est pulchra esse poemata; dulcia sunto
et, quocumque volent, animum auditoris agunto.
Ut ridentibus adrident, ita flentibus adsunt
humani voltus; si vis me fiere, dolendum est
primum ipsi tibi; tum tua me infortunia laedent,
Telephe vel Peleu; male si mandata loqueris,
aut dormitabo auto ridebo. Tristia maestum
voltum verba decent, iratum piena minarum,
ludentem lasciva, severum seria dictu.
Format enim natura prius nos intus ad omnem
fortunarum habitum, iuvat aut impellit ad iram,
aut ad humum maerore gravi deducit et angit;
post effert animi motus interprete lingua.
Si dicentis erunt fortunis absona dieta,
Romani tollent equites peditesque cachinnum.
Intererit multum, divosne loquatur an heros,
maturusne senex an adhuc fiorente iuventa
fervidus, et matrona potens an sedula nutrix,
mercatorne vagus cultorne virentis agelli,
Colchus an Assyrius, Thebis nutritus an Argis.
Aut famam sequere aut sibi convenientia finge
scriptor. Honoratum si forte reponis Achillem,
impiger, iracundus, inexorabilis, acer
iura neget sibi nata, nihil non arroget armis.
Sit Medea ferox invictaque, flebilis Ino,
perfidus Ixion, Io vaga, tristis Orestes.
Siquid inexpertum scaenae committis et audes
personam formare novam, servetur ad imum
qualis ab incepto processerit et sibi constet.
Difficile est proprie communia dicere, tuque
rectius Iliacum carmen deducis in actus
quam si proferres ignota indictaque primus.
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Traduzione di Giuseppe Giannotta
Così la poesia, nata per rigenerare lo spirito,
per poco che scade dalla cima
muta in cenere.
Grandissima parte dei poeti, o padre, e voi giovani, figli di un simile padre, siamo presi dal miraggio della perfezione.
Compio sforzi per esser breve, ma risulto oscuro, tendo a raggiungere l’eleganza, ma perdo in forza e slancio, seguo la grandiosità, ma mi faccio retorico. Chi ama la sicurezza teme le tempeste, rasenta la terra; chi – con piglio strano – scambia la realtà, pitta un delfino nel bosco, un cinghiale nel mare.
La fuga dall’errore provoca altro errore, se l’arte è assente.
Presso la palestra di Emilio, un artigiano scadente, servendosi del bronzo, imita le unghie e il fluire dei capelli ma, vista nell’insieme, l’opera è uno sgorbio, perché egli non è padrone di cogliere il tutto. Non amerei esser lui, se voglio scrivere qualcosa, né vivere soprattutto col naso storto o diffondere meraviglia per la nerezza degli occhi e dei capelli.
Voi che scrivete, scegliete un argomento al livello delle vostre capacità e meditate lungamente su ciò che tolleri o meno la vostra mente. Se il soggetto è ben scelto, non mancherà la facondia e la fresca armonia. Se non sbaglio, l’armonia ha questo pregio e bellezza: che l’autore dell’opera, che si accinge a stendere, selezioni su ciò che dire o tacere, quel che va rinviato o del tutto trascurato, ciò che importi o bisogna escludere.
Anche per la finezza e l’accortezza nell’unire le parole, devi usare un eccellente linguaggio, se un esperimento audace è capace di render nuova una parola antica.
Quando occorre dar risalto a concezioni nuove al posto delle vecchie e adoperare espressioni non ascoltate dai Cetegi, che vestivano il cinto, avrai Licenza, di cui non devi abusare, e le nuove parole, coniate di fresco, entreranno a far parte della Lingua, se derivate da fonte greca. Perché si dovrebbe dare a Cecilio e Plauto ciò che è negato a Virgilio e Vario? Perché io dovrei essere invidiato per quel poco che sono in grado di dare, mentre il linguaggio di Catone e di Ennio arricchì la nostra espressione e creò neologisrni? È concesso, e sempre lo sarà, coniare vocaboli col segno del presente.
Come il bosco, col variare degli anni, muta le foglie e cadono le prime, così muore la vecchia stagione delle parole, e per l’energia giovanile fioriscono e acquistano vigore le ultime bocciate. Siamo debitori della morte, noi e le vicende della nostra vita.
O il mare, rientrando sulla terra ferma, difende la flotta dai venti del nord, compiendo opera da re, o la palude sterile da tempo, e diventata navigabile, dà alimento alle città vicine e patisce la ferita dell’aratro, o il fiume lascia il suo corso, che danneggiava le messi, perché ha appreso altro migliore, così finiranno i fatti degli uomini e, a maggior ragione, non potrà vivere per lungo periodo l’identità e la bellezza della nostra Lingua. Molti vocaboli, disusati, rifioriranno e cadranno quelli ora in onore, quando lo chiederà l’uso, che è pressoché arbitrio, il diritto e la regola di dire.
Omero indicò in quale metro possono essere narrate le imprese dei re e dei condottieri e le sconcezze della guerra. L’ unione di versi disuguali racchiude dapprima il lamento, poi il senso d’una brama composta; però, sull’autore del leggero metro elegiaco discutono i critici e la questione non può dirsi chiusa.
Il giambo armò Archiloco e propriamente la sua ira; esso fu rilevato dalla commedia e dalla tragedia, perché idoneo ad esprimere e superare lo strepito della folla, destinato ad azioni quotidiane. La lirica ebbe il compito di cantare gli dei e i figli degli dei, la vittoria dei pugili e i cavalli vincitori di gare, gli affanni giovanili e la libertà assicurata dal vino. Se non posso o non so rispettare le leggi e la figura dell’opera, come posso poi salutarmi poeta? E come posso, con falso pudore, preferire di non sapere anziché tentare d’imparare? Un argomento comico non va esposto in versi tragici, come la cena di Tieste si ribella a essere trattata con versi comuni quasi da commedia, e non con quelli adatti.
Tenga ogni cosa il suo posto con onore.
Tuttavia, certe volte, la commedia alza la voce e l’adirato Cremete attacca brighe mediante discorso retorico e chi è in modo tragico frustato si duole spesso con linguaggio pedestre, come quando, o Tèlefo e Pelèo, ambedue esuli e poveri, usaste parole ampollose e altisonanti, per chi voglia con la sua lamentela giungere al cuore di chi ascolta.
Non è sufficiente che la poesia sia bella; piaccia anche e porti, ove crede, l’animo di chi sente. Come chi sorride a chi ride, così la pietà umana sia vicina a chi piange; se vuoi ch’io pianga, devi essere in grado di farmi piangere. In questo caso, o Tèlefo e Pelèo, le vostre sventure mi feriranno, ma se riferite male le vostre vicende, io o dormirò o comincerò a ridere.
Le parole tristi si confanno a un volto mesto, quelle minacciose a uno adirato, le facete a uno scherzoso, le gravi a uno austero.
Per le varie condizioni dell’uomo, ci forma dentro prima la natura, che aiuta, spinge all’ira, gravemente abbatte e tormenta, infine, esterna col linguaggio i sentimenti. Se le parole non traducono le vicende di chi parla, in Roma, popolo e cavalieri lanceranno una risata. Troppo distanti sono i linguaggi degli eroi e degli dei, di un vecchio maturo e di un giovane fervido ancora in fiore, della matrona imperiosa e della nutrice attenta, di un mercante vagante e di chi è assiduo nel suo verde campicello, del popolo della Còlchide o dell’ Assiria, di Argo o di Tebe.
Lo scrittore o segua la tradizione o inventi situazioni convenienti. Se, per caso, scrivi d’un Achille che si rispetti, questi sarà vivo, rabbioso, inesorabile e selvatico, senza alcuna norma che non sia quella delle armi. Medea sia feroce e implacabile, debole Ino, infido Issione, vagante Io e tenebroso Oreste. Se affidi alla scena alcunchè di non provato, e osi dar vita a un personaggio nuovo, sostienilo fino in fondo, come si è mostrato fin dall’inizio, e sia costantemente eguale a se stesso. Difficile è dire propriamente il comune che c’è in noi, ma tu, più rettamente, porta sulla scena un canto della lliade, piuttosto che esporti per primo a un’esperienza non tua.
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