Un racconto di Cesare MONACO “Il rifugio dell’orto della Saracena”
Cesare Monaco racconta la fuga della sua famiglia verso un sicuro rifugio nell’orto della Saracena di loro proprietà, una sera dopo l’8 settembre 1943, mentre una colonna autoblindata tedesca avanzava minacciosamente sulla statale ed era già arrivata alla “Preta”. Cesare aveva tre anni. A quella tenera età, serenamente vissuta, non restano i ricordi, salvo qualche flash choccante. Dei miei tre anni, per esempio, ricordo solo la morte della mia ultima nonna. I nonni e l’altra nonna erano premorti. Ma ricordo che non capii cosa fosse accaduto e non capii cosa fosse la morte. Cesare rivive quel ricordo infantile e, volendosene dare una ragione, lo inquina con le conoscenze acquisite nell’età adulta. In realtà egli visse quella sera come un gioco, con l’eccitazione di doversi rifugiare (lui e la sua famiglia, a cui altri si aggiunsero) in quell’antro pauroso, e perciò ancora più eccitante, scavato nella roccia dell’orto di famiglia alla Saracena.
L’eccitazione di uno straordinario gioco infantile domina ancora il racconto di Cesare, se egli ha sentito il bisogno di intitolare il racconto all’orto della Saracena, di fotografarlo e spedirmi la fotografia, che mi dispiace non poter pubblicare, perché confusa e di cattiva qualità.
Della guerra e del dopo 8 settembre ha scritto Rocco Scotellaro nella seconda parte dell’Uva puttanella, che Rabatana ha riportato col mio commento, dove riferisco ampiamente il commento di Rosalma Salina Borello, secondo cui, insistendo sulla estraneità dei contadini, che è il cuore del racconto di Scotellaro, la guerra è rivissuta in chiave strapeasana e la liberazione, che si svolge tutta in chiave comico-farsesca nell’arco di una diecina di giorni, che vanno dall’8 settembre all’ingresso a Tricarico di due giovani militari canadesi “liberatori” è rivissuta in chiave eroicomica come gioco. Il ricordo di un bambino di tre anni, che ci consegna il rifugio nell’antro dell’orco e la scena comica della contesa del papero tra l’anziano padre del massaro delle mucche di proprietà della famiglia Monaco e un militare tedesco aggiunge, quindi, un elemento coerente. Come coerente fu il comportamento in generale dei tricaricesi.
L’8 settembre 1943, cosa accadde quel giorno e cosa era cambiato, ha infinite memorie e interpretazioni. Alla visione di Scotellaro ho or ora accennato. Forse nella mente degli italiani cosa accadde quel giorno e cosa cambiava è principalmente rappresentato dalla scena, in un film di Comencini, di una stralunata telefonata a gettoni, in un posto telefonico pubblico, di un sottotenente (Alberto Sordi) in preda al panico, che dice: «È accaduta una cosa incredibile … i tedeschi si sono alleati con gli americani». Ma l’8 settembre non fu solo questo, come sappiamo.
Tricarico fu ‘solo’ colpita dai tragici eventi di quei giorni dalla inenarrabile tragedia dei fratelli Peppino e Maria Carmela Nido. Dei feroci bombardamenti e dei morti giungevano confuse e scarne notizie; come giunse notizia di una bomba lanciata su un ponte alla stazione di Grassano, e si assistette a una mitragliata tra due aerei nemici proprio sulla piazza di Tricarico. E una bomba caduta casualmente nella zona della Serra indusse i tricaricesi a sfollare e a trovare rifugio nei loro casini di campagna o nei pagliai o dovunque fosse stato possibile. Il ricordo di Cesare Monaco è dunque un episodio di quest’esodo comico
Ma è il momento che chieda scusa a Cesare per lo spazio che gli ho rubato e pubblichi il suo racconto.
IL RIFUGIO DELL’ORTO DELLA SARACENA
di Cesare Monaco
Con l’armistizio dell’8 settembre 1943 Badoglio proclamò la fine della guerra, ma le sofferenze degli italiani non cessarono in quella data.
I Tedeschi, sospinti dagli alleati, sbarcati in Sicilia,risalivano rapidamente la penisola percorrendo il sud, compreso la Basilicata, lasciandosi dietro l’eccidio di Matera, la quale insorse contro i tedeschi che l’abbandonarono il 20 settembre. La Basilicata subì anche i bombardamenti degli alleati del 9 settembre di Potenza, Pisticci, la ferrovia Foggia –Potenza e il mitragliamento di un treno proveniente da Napoli e diretto a Taranto, tra lo scalo ferroviario di Grassano e Grottole. Tricarico fortunatamente ne uscì indenne al passaggio dei tedeschi e degli alleati.
Una testimone diretta, di quei tempi, ancora vivente, moglie di un salariato della nostra masseria, ricorda bene quegli eventi ; quando i tedeschi si accamparono con una compagnia di fanteria motorizzata, con quasi 20 automezzi, nei pressi della Pantana, su un pianoro contornato da alberi di querce, molto vicino alla nostra masseria. Si fermarono per diverso tempo, fino all’arrivo degli alleati inglesi.
Per la vicinanza dell’accampamento, erano frequenti le visite dei tedeschi alla masseria, alla ricerca di derrate alimentari: vino, fichi secchi, ortaggi ,capretti ed agnelli.
Un giorno si presentò alla masseria un drappello di tedeschi che cercavano vettovaglie. Individuarono un grosso papero, che i tedeschi volevano portar via. L’anziano padre del massaro delle mucche, tentò di opporsi riferendo ai tedeschi, nel suo dialetto tricaricese: che per ordini categorici del padrone, il paparone non poteva essere toccato perchè destinato alla “summenta” (seme, riproduzione) .Per tutta risposta i tedeschi gli spianarono contro il fucile e nonostante la inefficace e debole “difesa d’ufficio” del vecchio massaro, il paparone fu tramortito con un colpo di rivoltella, finendo in una grossa pentola che fu sottratta all’anziano massaro.
Girarono per i locali dell’azienda che erano tutti chiusi, tentando di scassinare a colpi di ascia, senza molta convinzione, la porta della piccola cappella e un deposito (ferite ancor oggi visibili).
La stessa testimone, allora di circa 10 anni, di bello aspetto, bionda, racconta che i tedeschi furono colpiti dalla sua bellezza e la volevano portare via per i suoi spiccati tratti nordici. La ferma opposizione del padre e del fratello della bambina scongiurarono questo tragico evento.
Oltre agli eventi citati, non si registrarono altri episodi gravi; per cui, la convivenza con i vicini militari tedeschi, ed il personale della masseria, scorse più o meno tranquilla.
Mio padre veniva costantemente informato di quanto accadeva in azienda. Seppe così in anticipo che i tedeschi stavano smantellando il campo ed erano pronti per partire, probabilmente per l’arrivo degli alleati.
Mio padre, unico maschio di numerosa famiglia di 6 persone, aveva predisposto un piano di evacuazione in caso i tedeschi fossero entrati in paese.
Nessuno quella sera andò a letto. Noi piccoli: mia sorella di 6anni , io di tre, e l’altra sorella di 6 mesi, fummo vestiti da nostra madre con indumenti pesanti e con una coperta di lana, sistemati su un divano di legno nel soggiorno, pronti a fuggire in caso di bisogno, sperando, frattanto, che il sonno prendesse il sopravvento ,ma invano.
Furono spente tutte le luci di casa, restò acceso solo il lumicino votivo del Cuore di Gesù, che mia madre, molto devota ,teneva sempre acceso; il buio era rischiarato da una flebile candela che mostrava sinistramente i volti preoccupati degli adulti. La zia Gaetana, piccola e fragile sorella di mio padre, che viveva con noi, recitava sottovoce le preghiere, implorando il Cuore di Gesù che ci proteggesse.
Mio padre, che sopraintendeva con autorità e calma a tutto, faceva la spola come vedetta dietro i vetri di una finestra che si affacciava a est sulla valle e sulla collina del “tuppo (sommità) della Serra” alle cui falde scorreva la via Appia, che portava a Tricarico e dalla quale obbligatoriamente avrebbero dovuto passare i tedeschi .
Era ormai sera inoltrata, credo intorno alle 21, quando mio padre ci informò che stavano arrivando i tedeschi, vedendo i fanali di diverse macchine in carovana che provenivano da sud e progredivano lentamente dirigendosi verso il paese. Non potevano essere che i tedeschi per i numerosi automezzi in fila e perché in quel periodo il traffico automobilistico civile era pressoché assente. Da quel punto occorrevano circa 15’ con quella velocità, per giungere in paese.
A questo annunzio il mio cuore cominciò a battere a mille e la paura prese il sopravvento. Nonostante il timore, volli vedere quelle luci, che sono rimaste indelebilmente impresse nella mia memoria, per tutto quanto di nefasto avevo sentito dagli adulti. Mio padre invitò tutti alla calma e ad abbandonare la casa per dirigerci verso il rifugio nell’orto alla luce di un lume a petrolio .
Scendemmo le scale con tanta palpitazione e paura, stretti a nostra madre, che portava il braccio la mia piccola sorellina, e a zia Gaetana. Il portone, che normalmente era sempre aperto, venne chiuso da mio padre con il chiavistello e ciò per me, fu un brutto presagio e mi indusse alla tristezza.
Per strada incontrammo allarmati buona parte dei vicini, approssimativamente 15 persone, facenti parte delle famiglie: Stasi (Campanar) ,Pignone, Patess, Scardalane, Santfecent (Zotta), Pupar, Schinodde, che avevano chiesto a mio padre il permesso di unirsi a noi per raggiugere il rifugio nell’orto. Ciò fu accolto da tutti noi di famiglia con grande piacere perché la loro presenza ci confortava ed alleviava le nostre paure (l’unione fa la forza !!!)
L’orto, di nostra proprietà, era ed è un appezzamento di terreno scosceso a terrazzamento, come gli altri orti saraceni della parte ovest del paese. Si accedeva, e si accede, da una porta in fondo al vicolo cieco detto “Vico Viole”, che si trova quasi di fronte al nostro portone . E’ confinante a sinistra con Palazzo Lizzadri e con altra costruzione, molto simile, addossata alla prima, di proprietà delle famiglie Pignone e Patess , probabilmente in origine facente parte di palazzo Lizzadri a sua volta vicinissimi alla “torretta della Saracena” A destra confina con gli orti di Ronchi, oggi Pinto e quello di Monsignore.
Varcata la porta, ci si trova davanti ad un piccolo pianoro dalla cui sinistra si diparte un minuscolo sentiero pedonale, scosceso ed impervio, a tornanti, che scende ai tre livelli, relativamente piani ,ristretti dove si effettuavano le colture.
Dopo una piccola curva a gomito verso sinistra, dove cresceva un favoloso albero di fichi detti “fichi frazzoli” piccoli, di colorito marrone chiaro, saporitissimi che veniva preso d’assalto da noi ragazzi, si giungeva al secondo livello, dove a destra, si apriva, relativamente nascosto dalla vegetazione, (ora del tutto), un anfratto naturale abbastanza accogliente, con un piano calpestabile fatto di sabbia molto fine, da noi chiamata “rena”, che veniva utilizzata per le malte da costruzione. La grotta era scavata nella roccia arenaria misurava circa 6-8 metri di lunghezza per 3mt di profondità, ed era utilizzata dai contadini per ripararsi dagli scrosci improvvisi di pioggia e deporre talora i loro attrezzi, nonché come cava per prelevare la “rena “.
Raggiungemmo rapidamente, ma con molta circospezione la grotta in fila indiana, facendoci luce con qualche lume a petrolio, come in processione, con le varie masserizie, compreso una culla di legno, detta “naca”, per la mia sorellina di 6 mesi.
Appena giunti nella grotta, ci sentimmo subito al sicuro, nonostante vedessimo le ultime luci del convoglio che stavano superando “la preta” ( sperone di roccia alta e sporgente che a quei tempi era tagliata in due essendo attraversata dalla strada rotabile distante dall’ingresso del paese circa 2Km. Oggi frantumata. Allora punto di riferimento e quasi una porta di ingresso virtuale al paese , campo di battaglia di scontri epici, tra tifoserie opposte calcistiche di tricaricesi e grassanesi negli anni 60, che iniziavano nel corso del derby con la classica minaccia, rivolta ai grassanesi “ne verime alla pret”).
Impauriti ci sistemammo alla men peggio ed attendemmo il trascorrere della notte in silenzio, rotto dal pianto incessante della mia sorellina nella “naca”, che ci procurava ulteriore ansia, per il timore che quel pianto potesse attirare l’attenzione di qualche pattuglia di tedeschi in perlustrazione, che avrebbero scoperto il nostro nascondiglio. Dopo poco, il pianto cessò, tranquillizzando tutti.
Alle prime luci dell’alba uscì dal rifugio un coraggioso occupante in avanscoperta, per andare a valutare la situazione in paese.
A questo punto i ricordi si interrompono bruscamente e non ho cognizione di ulteriori eventi. Presumo che l’esploratore non avesse trovato niente di cui preoccuparci e che i tedeschi avessero tirato dritto verso Potenza . Anche Il ritorno a casa è cancellato inspiegabilmente dalla mia memoria.
18 Responses to Un racconto di Cesare MONACO “Il rifugio dell’orto della Saracena”
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Carissimo Antonio,
gli orti e le grotte di cui parla il dr. Cesare Monaco, mio padrino di cresima, sono nei miei ricordi e anche dei tanti miei coetanei perché utilizzati come ‘parco giochi’ dell’intero borgo saraceno. Infatti a parte la possibilità di poter far merenda con qualche fico ‘frazzólë’ o altri frutti, utilizzavamo i polloni degli alberi non fruttiferi per fare le capanne a imitazione delle tende degli indiani come quelli che vedevamo nei telefilm di Rin-Tin-Tin. Nel mio dizionario puoi trovare un riferimento alla voce “Rè”; “a_mazzë u_rè” erano i polloni (ricacci) dell’alianto con i quali facevamo le capanne nell’orto di don Mario Monaco.
Utilizzavamo anche le grotte non solo per ‘scamparci’ in caso di improvvisa pioggia ma anche per qualche iniziazione di tipo sessuale che sempre nel dizionario poi leggere alla voce ” ‘ngìnzë “.
Se non ti annoio vorrei ricordare un altro spazio e ‘attrezzo’ della famiglia Monaco che noi bambini della saracena utilizzavamo come ‘palesta’ e lo puoi trovare sempre nel mio dizionario alla voce “Përtónë” che in parte quì trascrivo
Un abbraccio a te e a Cesare
Mimmo
Carissimi Mimì e Tonino,
sono molto felice che il mio racconto ha trovato la vostra approvazione, essendo molto legato affettivamente a questo ricordo che rimane vivido nella mia mente, non sapendo finora il perché. Il saggio Tonino ha provveduto a darmi l’input per far partire in me una specie di analisi introspettiva, che mi ha portato a trovare la soluzione. GRAZIE grande Tonino!!Grazie per avermi spalancato le porte della Tua accogliente e stimolante casa “Rabatana” che ho imparato a conoscere ed apprezzare solo in questi ultimi anni. Essa costituisce una fonte inesauribile ,uno scrigno di tesori di cultura e di storia inestimabile al quale ogni tricaricese dovrebbe attingere. Come dice una nota canzone “Grazie di esistere” Caro Tonino.
Al mio comparello Mimì dico che l’ho sempre sospettato come uno degli artefici maggiori, delle discolerie giovanili, perpetrate nel portone di casa (sempre aperto). Era una accogliente palestra estiva per i bambini che sfuggivano alla canicola estiva per il fresco proveniente dalle cantine, scavate nella roccia arenaria e che attraversavano l’allora via Savoia, per sbucare nell’orto della Saracena. La “caciara” che facevate era talora insopportabile, scatenando le urla di mio padre. Quando mi sostituivo alle sue urla e scendevo di corsa nel portone per sorprendervi e scacciarvi, voi non scappavate ma mi “spernacchiavate” e volavano verso me gli insulti più pesanti che scatenavano la mia violenta reazione verbale, talora con tentativi di contatti fisici. Bhe ora sei perdonato anche perché tanto tempo fa ti ho anche Cresimato!!! .Arrivederci amici carissimi e grazie per la vostra accoglienza. Cesare.
“Molto articolato il meccanismo del portone per la tenuta delle due ante dall’interno, leve e controleve di legno che governavano la tenuta sia superiore che inferiore. Quella del portone della famiglia Monaco era per noi ragazzini una vera e propria parete da scalare, con quegli appigli di legno antesignani di quelli coloratissimi di resina che ornano le odierne arrampicate all’interno delle palestre.
La nostra fantasia trasformava ogni oggetto o situazione in gioco, mettendoci a rischio per la reazione degli adulti.”
Ma, a parte qualche sua potente urlata baritonale, don Mario non ci ha mai toccato anche perché al solo suo apparire era un fuggi fuggi generale
Mi fa piacere, caro Mimmo, e forse farà più piacere a Cesare che il suo racconto ti abbia tanto interessato e divertito. Io ne sono contento, perché lo scopo di Rabatana è proprio quello di risvegliare ricordi dell’antica Tricarico. Approfitto delle tue indicazioni e consulterò il tuo dizionario.
Saltanto di palo in frasca ho letto che santa Teresa, non ricordo dove, l’altro giorno ha fatto cadere uno scroscio di pioggia per risolvere una situazione.La collera di san Rocco fu un miscuglio di paganesimo e ironia. Può darsi che l’avv. DE Maria abbia inventato qualcosa per fare quadrare meglio la storia, e ho avuto l’impressione leggendo il suo scritto su un quaderno di quarta elementare, con l’inchiostro, che avesse l’intenzione di aggiungere altre cose. Dispiace per il morto (io vidi la bomba cadergli addosso), ma credo che questa della collera di san Rocco sia una storia che è meglio far rivivere.
Un abbraccio
Antonio
Appendice al mio precedente commento.
Via Savoia,la Saracena ed il suo orto ora son muti!.
E’ sceso un silenzio insopportabile, non si sente più il lieto “garrire” delle voci dei bambini festosi, nè i richiami delle madri. Il portone è chiuso. Non ci sono più discoli che scalano i suoi meccanismi, non c’è più la voce baritonale di un burbero benefico che scaccia i bambini. C’è solo una grande tristezza che ti invoglia al pianto.
Mario Trufelli, nel suo bellissimo romanzo «Quando i galli si davano voce», ricorda quel «rumore sordo, prolungato e ossessivamente uniforme» provocato da un ordigno sganciato per errore da un aereo inglese sul tuppo della Sera e lo descrive come segnale d’annuncio dell’armistizio, per togliere l’illusione che la guerra fosse finita. . Nel paese seminò il terrore. «Urla e pianti, richiami accorati: fuggivano tutti dalla piazza e dalle strade vicine, si cercava una via di scampo verso la campagna, anche tra le grotte e i burroni…. Per più di un’ora la piazza si raggelò in un silenzio cupo e allucinato. Si erano zittiti pure gli uccelli. I! canonico e il professore, superato lo spavento, guardarono intorno e videro bruciare gli alberi sulla cima del monte di fronte al paese. Non ci volle molto per capire che una bomba era stata sganciata da un aereo inglese, presto scomparso con una scia nel cielo azzurro di quella mattina. Era il giorno dell’armistizio. Quell’ordigno, caduto probabilmente per errore, tolse l’illusione che la guerra fosse davvero finita.»
non sono ancora riuscito a leggere sia il libro di Mario Trufelli che quello di Concetto Valente da te segnalato, in quanto introvabile. Ma non mi arrendo!
Leggo sempre con molto interesse questo blog. Questa volta si tratta di un vero piacere perché io appartengo ad una famiglia citata da Cesare Monaco (Schinodde) di Vico Viole. Infatti ricordo che quando gli adulti del vicinato parlavano della guerra mia madre raccontava sempre gli episodi delle corse che facevano per andare nel rifugio dell’orto con la famiglia Monaco.
Anch’io come Mimì (abbiamo la stessa età) ho giocato nel portone di Monaco. Noi bambine giocavamo a nascondino, ma sempre col timore che venisse qualcuno, anche se non ricordo che ci avessero mai mandato via. Anzi a volte c’erano anche Laura e Gaetano che ci osservavano divertiti.
Ricordo invece molto bene l’episodio della morte di un cavallo di Monaco che trasportarono, trascinandolo lungo il mio Vico Viole, nell’orto. Noi bambini eravamo molto spaventati e di sera temevamo addirittura la comparsa del fantasma del cavallo! Non so se Cesare lo ricorda. Sono tornata a Tricarico dopo molti anni però mi piace molto rivedere i posti dell’infanzia.
Saluti a tutti!
Gentile TeresaMestice,
è con grande piacere che leggo e rispondo al tuo commento del mio ricordo ospitato da Rabatana.
Anzitutto mi scuso per aver citato il soprannome della vostra famiglia e non il cognome, che in quel momento non ricordavo. Come Invece ricordo molto bene la tua famiglia ,molto riservata, taciturna come tuo padre e tuo fratello molto simili tra loro nel fisico e nel carattere: con capelli castani sempre ben pettinati . Tuo padre era un po’ ricurvo e credo mori abbastanza giovane. La tua mamma Rosina, frequentava spesso la mia casa. La ricordo come una bella donna, magra, alta, occhi chiari ,molto buona,gentile, sempre ben curata ,grande lavoratrice ,che alla morte di tuo padre si accollò, il peso della famiglia .Mi è rimasto impresso che durante il periodo giusto, portava a regalare a mia madre un panierino (allora non esistevano le buste di plastica) di piselli che “andavano per nominati”essendo piccoli e di una dolcezza che raramente ho trovato simili. Quando si cucinavano,mia madre diceva con soddisfazione questi sono i piselli di Rosina. Che non bastavano mai. Rosina a sua volta diceva che il merito fosse tutto del suo piccolo orto che non so dove fosse. L a vostra casa era l’ultima sulla sinistra del vico Viole, addossata alla porta del nostro orto. Era piccola ed accogliente con le camere da letto al piano superiore,mentre il pianterreno era destinato a soggiorno cucina e un bel caminetto. Se non ricordo male in un angolo c’era il “cestone” che custodiva il grano.
Di te, invece ho un vaghissimo ricordo, completamente sfumato.
L’episodio della morte del cavallo,chiamato “Nino”lo ricordo bene, perche eravamo tutti affezionati a questo animale. Mio padre l’ aveva acquistato da un Circo ambulante era quindi addestrato. Era un baio pezzato con una macchia bianca sul viso,docile, posssente. Mio padre lo usava per sella o sotto il carrozzino per andare tutta la famiglia in campagna. Il carrozzino è ancora nel portone. Quando mori Nino noi ragazzi fummo tenuti lontani dalla scena, abbastanza traumatica del suo”funerale” . Come ricordi bene fu trascinato e buttato dal dirupo dell’orto, credo dato in pasto ai cani. Anche se ho sentito un’altra versione, che le sue carni molto muscolose, fossero state divise tra amici falegnami.
L’ho fatta molto lunga,,ma credo di averti fatto piacere! Ti saluto Cesare
Ps Dove vivi ora ?
E’ incredibile come certi ricordi lontanissimi tornino così vividi solo ad accennarli. Anch’io ho un ricordo sfumato di te e anche di Felicetta, perché voi due eravate più grandi, invece con Giovanna e Laura abbiamo sempre parlato. Da qualche anno ho ripreso ad andare a Tricarico perché ho voluto tenere la nostra piccola casa. Non potevo rinunciare alla magnifica vista che si gode dalla nostra finestra sul vostro famoso orto e su tutto il panorama del cupone e altro. Incontro sempre Laura Gaetanino e qualche volta anche Giovanna.
Purtroppo di mio padre non ho alcun ricordo perché morì giovane (aveva 40 anni) per essere andato a salvare suo fratello (Avv.Giuseppe Mestice); non so se hai mai sentito questa storia.
I famosi piselli mamma li coltivava in una tenuta all’Alvanello, dove c’erano anche seminativi e vigna.
Di tua mamma io invece ricordo il sorriso dolcissimo che aveva sempre.
Dal 1965 abito a Milano – con tutti i miei fratelli – e da qualche anno esattamente a Gorgonzola, una cittadina a 10 km., un po’ più tranquilla della grande Milano. Ormai sono in pensione e mi godo la nipotina.
Ti ringrazio molto del tuo scritto e spero di poterti vedere qualche volta a Tricarico. Tantissimi saluti.
p.s. Quando morì mio padre io avevo un anno e mezzo. Mia madre raccontava che nel momento che vennero a darle questa tremenda notizia a casa nostra c’erano tua mamma e tua zia Gaetana e mamma mi buttò letteralmente in braccio a loro per correre da mio padre.
Grazie per l’interesse che ha per questo blog.
Cordiali saluti, Antonio Martino
Leggo con piacere i vostri racconti. In quei giorni non ero a Tricarico.
…Quando la radio annunciò l’armistizio, io ero dai nonni. Fu un annuncio a sorpresa, perché non ci fu l’adunata in piazza. La notizia captata dall’altoparlante al belvedere, passò di bocca in bocca. La guerra era finita!
Le persone, in maggior parte donne, si riversarono in chiesa e organizzarono una processione alla Cappella della Madonna delle Grazie. Tutti scalzi: adulti e bambini. Io, mano nella mano, con la nonna e la zia. Si procedeva recitando il Rosario intercalato da inni alla Madonna. Nella cappella non c’era spazio per tutti. Si entrava in ginocchio, si passava davanti all’altare della Vergine in un coro di preghiere e pianto e si usciva per far posto agli altri. La commozione prendeva tutti, piangevano anche i pochi uomini che erano lì solo perché non più abili alla guerra. Nel piccolo piazzale si accese un fuoco con legna raccolta sul posto e con i tizzoni accesi ad illuminare il cammino si fece ritorno al paese. Mia zia mi mise le scarpe per paura che mi potessi scottare i piedi con le scintille che cadevano dalle improvvisate fiaccole. Purtroppo le scarpe avevano le suole bucate, ma la Madonna fece sì che non mi scottassi.
Ti ritrovo e ti leggo con piacere, cara Mery Carol. Ecco il mio ricordo di quel giorno cruciale, un copia e incolla dai tanti lasciati su questo blog, quello più vicino all’evento, quando non conoscevamo ancora la parola “armistizio”. Se l’armistizio non sapevamo cosa fosse e che ci fosse, di che altro poteva trattarsi se non della fine della guerra?
“L’8 settembre 1943 – data fondamentale nella nostra storia – fu un giorno molto caldo, di piena estate, si sentivano le cicale frinire sulle siepi e il silenzio inondava la piazza, perché mancava la corrente e i due bar erano impossibilitati a trasmettere canzonette dai loro altoparlanti. Verso il tardo pomeriggio si diffuse improvvisamente la notizia che «la guerra era finita, la parola «armistizio » non fu pronunciata, nel giorno dell’armistizio fu parola sconosciuta. Mia madre piangeva, la gente si interrogava, cercava di capire cosa non era dato di capire; esplose la gioia.
Dopo dieci giorni, il 18 settembre, fecero il loro ingresso a Tricarico, su una jeep, un giovanissimo capitano, non ancora trentenne, e un soldatino canadesi. La tragedia delle stragi naziste e della lotta di liberazione ci fu risparmiata.”
I tuoi ricordi sono infiniti e ne hai per tutti
A proposito del cavallo di don Mario Monaco, ho chiesto alla “memoria storica” della mia famiglia. Ella sostiene che se lo spartirono in molti, ufficialmente , per farne sapone con la soda caustica. Non esclude che qualche bisteccha finì sulla brace.
Il cavallo di don Mario Monaco fu mangiato, la carne equina si mangiava, ma di nascosto, facendo la massima attenzione perché non si sapesse. I mangiatori di carne equina erano considerati quasi estranei al consorzio umano, una “razza” con cui non si dovevano avere rapporti.