Rabatana legge “Quando i galli si davano voce” di Mario Trufelli
Prologo (a.m.)
Due link a scalare o a saltare. Il primo è il testo completo della copia 611 del libro di Mario Trufelli «Quando i galli si davano voce», edizione della Cometa, Roma MMXIII. L’ho digitalizzato personalmente con non lieve fatica e se il lettore di Rabatana lo leggesse, e leggesse solo questo, ripagherebbe la mia fatica. Il link, su cui bisogna cliccare è: MARIO TRUFELLI – QUANDO I GALLI SI DAVANO VOCE
Se il lettore è tricaricese, farebbe però bene ad aprire anche il secondo link, perché Mario Trufelli è tricaricese, e io, che ho tanto faticato a digitalizzare il testo, sono pure tricaricese. Mario e io eravamo due compagni inseparabili e abitavamo proprio in quella piazza che, come si vedrà, fa da scenario alla narrazione. Io, poi, leggendo il libro, uno a uno ho strappato i sette veli di Salomé, che mostrerò nella sua affascinante nudità ai lettori tricaricesi che faranno clic sul seguente link: RABATANA LEGGE QUANDO I GALL SI DAVANO VOCE
Al lettore diligente che ha letto il libro e assistito allo spettacolo dello strappo dei veli di Salomé, non saprei proprio cosa dire per invogliarlo a leggere la postfazione che segue. Faccia lui.
Postfazione di Rabatana
«Quando i galli si davano voce» è un mondo che Rocco Mazzarone ha voluto che fosse narrato e Mario Trufelli ha narrato. Non è un romanzo, né un racconto: è una narrazione che, con una qualità musicale lirica, evoca compattamente come un invito a leggere d’un fiato storie di tempi lontani in ambienti rurali: quando il gallo annunciava il sorgere del sole o il trionfo d’amore celebrato con una sempre paziente gallina, dalla finta aria rassegnata: tutti i galli del contado, dandosi voce, partecipavano al trionfo del sorgere del nuovo giorno e dell’amore e lanciavano il festoso annuncio. E’ una narrazione che scava le radici. «Coloro che non hanno radici – scrive Ernesto De Martino in un pensiero che Trufelli riporta dopo la dedica a Mazzarone -, che sono cosmopoliti, si avviano alla morte della passione e dell’umano: per non essere provinciali occorre possedere un villaggio vivente nella memoria, a cui l’immagine e il cuore tornano sempre di nuovo, e che l’opera di scienza o di poesia riplasma in voce universale”.
La narrazione intreccia storie a margine della seconda guerra mondiale, dal mese di giugno 1939 alle elezioni dell’Assemblea costituente, sullo scenario della piazza di un paese del Sud Italia, che è sede vescovile e con lo sfondo della “grande” storia del regime fascista con le guerre, gli eccessi delle repressioni, la libertà negata e soppressa e l’antisemitismo e la mafia.
La “grande” storia si riflette in piccolo in un qualsiasi paese meridionale (potrebbe anche essere Tricarico) nella sua piazza, in un arco di anni in cui io e Mario Trufelli eravamo due ragazzi coetanei, compagni inseparabili, e in quella piazza abitavamo fronte a fronte, in case distanti non più di tre metri. Mi propongo, quindi, di mettere in luce i puntuali e per certi versi sorprendenti riferimenti alla grande storia e, d’altra parte, di sollevare il velo dal volto di personaggi e fatti, che costituiscono, nel racconto, autobiografia di Mario e mia.
In tutta la storia ritornano spesso i canonici della Cattedrale di Tricarico, nominati col don che precede il nome di battesimo. Sono effettivamente i nomi di alcuni canonici ad eccezione, giacché a lui si assegna un ruolo-chiave, di don Armando che va identificato in don Peppe Uricchio. Mancano don Tommaso (Aragiusto), don Francescantonio (Sanseverino), don Mauro (Dente) e don Rocchino (Benevento), che per varie e diverse ragioni spiccavano significativamente nel Capitolo della Cattedrale, e invece spicca don Giacinto, al quale è assegnato un ruolo di antagonista di posizioni aperte o meno grette. Mi chiedo se Mario non avesse avuto a mente, nel delineare il personaggio, la mano pesante che Rocco Scotellaro ha nei confronti di don Giacinto nell’ultimo capitolo dell’Uva puttanella. Scotellaro riferisce che lo zio sagrestano (Innocenzo Scotellaro, padre della professoressa Carmela), così si lamenta con Gesù: «O Gesù Cristo mio, tu mi castighi o mi perdoni, ma questo santo tuo prete, don Giacinto, che vuole ogni mattina tutti i soldi contati nella guantiera, non entra in sagrestia se prima non ho finito il giro, e vuole sapere da me chi ha dato e chi no, e la piglia alla lunga e non mi da mai un soldo se non fa più di una lira, può essere benissimo un diavolo vestito da cristiano».
Non so se per costruire il personaggio di Anna, Mario si sia ispirato a un personaggio reale. Non glielo chiedo, perché, giustamente, non me lo direbbe, né io riesco a immaginarne uno.
Dal primo mattino, quando in paese si diffonde la voce del suicidio di Samuele Hanau, alla delicata storia del fugace amore tra Samuele e Anna, si dipana la piccola storia e sfilano personaggi che, chi ha oltrepassato gli ottant’anni, può riconoscere e ricordare.
Scoperto il corpo esanime di Samuele Hanau, Caterina, la padrona della pensione, se ne sta con la testa tra le mani accanto al camino. Trufelli aveva verosimilmente in mente l’albergo Cutolo, con portoncino d’ingresso a fianco del caffè Scardillo. Il barista che mette in pressione la macchina del caffè, superstizioso, che con la scopa scaccia i pipistrelli, mai così numerosi, non può che essere Innocenzo Scardillo. La vicinanza del suo bar alla pensione che aveva ospitato il confinato ebreo impone questa identificazione.
Tornando dove il discorso è stato interrotto, nella pensione entrano i più mattinieri. Per primo il fruttivendolo (non c’era un fruttivendolo in piazza, ma banchi per la vendita di frutta e verdura in viale Regina Margherita, sotto il muraglione del palazzo ducale). Sul riquadro della porta intanto erano apparsi l’anziano usciere giudiziario, notoriamente mattiniero (don Michele Valinotti, nonno di Mario Trufelli), il giornalaio che era stato svegliato dall’abbaiare dei cani (Vincenzo Carolillo), il falegname che aveva casa e bottega nella piazza (Michele Sellitti, detto mast Michel Sturn, suocero dell’ufficiale giudiziario Rocco Picardi) e il farmacista (don Giovanni Carbone), che non aveva chiuso occhio per un certo via vai, una sorta di tramestio che arrivava dalla strada.
Vado a un’altra pagina del libro, dove si racconta dell’arrivo in piazza, l’indomani mattina, di una Lancia Augusta di lusso color amaranto, con due uomini a bordo, oltre l’autista. Chiedono dov’è la caserma, ma mantengono un contegno riservatissimo. E’ nello stile degli uomini del prefetto Arturo Bocchini, il potente capo della polizia che lavorò al rafforzamento della polizia secondo le direttive del regime fascista, in particolare attraverso l’organizzazione di squadre speciali e di una capillare rete di controllo sull’attività degli antifascisti. Nel 1927 Bocchini costituì un nuovo apparato poliziesco alle sue dirette dipendenze, che Mussolini decise poi di diffondere in tutto il territorio nazionale; venne così creata l’OVRA (sigla di Opera Vigilanza Repressione Antifascista), che indicava il complesso dei servizi segreti di polizia politica durante il regime fascista. Nata nel 1926 per iniziativa di Mussolini, raccoglieva anche i servizi informativi dei vari corpi aventi funzioni di pubblica sicurezza e proponeva la denuncia degli indiziati al Tribunale speciale per la difesa dello Stato o alle commissioni per il confino.
Bocchini, come capo della Polizia per quattordici anni, sarà l’uomo della sicurezza di Mussolini; l’8 novembre 1926 (appena due giorni dopo l’entrata in vigore delle leggi speciali di sicurezza) farà arrestare deputati antifascisti, o semplici sospettati di dissidenza, tant’è che la stessa sera fece arrestare anche Antonio Gramsci. Sarà ancora Bocchini a rifiutare il ricovero in sanatorio di Sandro Pertini malato al confino a Ponza. Sarà Bocchini, ancora, che farà arrestare Alcide De Gasperi.
Bocchini, dunque, nella finzione letteraria, si interessa anche di Samuele Hanau, e lo sospetta di far parte di una cricca di congiurati che progettano l’uccisione di Mussolini. Hanau teme l’arresto e si uccide. Qual è la ragione vera dell’interesse di Bocchini per Hanau? Trufelli insinua l’ipotesi, che mette in bocca a don Armando che il motivo vero sia il suo essere ebreo, aprendo così la pagina del più efferato crimine della Storia.
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Ero in attesa impaziente della pubblicazione di “Quando i galli si davano voce ” di Mario Trufelli. Mi sono concentrato immediatamente suo tuo “Prologo e Postfazione” che ho divorato con rara cupidigia mentre ero impegnato al lavoro. E’ stato un preludio piacevolissimo come un “antipasto stimolante prima del pranzo” che mi accingo a gustare, dopo aver scaricato il libro, che si annunzia piacevolissimo e stimolante. Mi sono tornati alla memoria alcuni personaggi come don Peppe Uricchio (era il Direttore didattico “Pizzilone” a noi noto per le sue “carocchie”?), don Mauro Dente ecc,il barista Innocenzo Scardillo (e le sue cassate Siciliane)il mercato coperto di viale Regina Margherita ecc.ecc. Le premesse sono ottime per godere la “narrazzione del GRANDE Mario Trufelli. Arrivederci al termine della lettura. Ringraziandoti per le tue “fatiche” ti abbraccio Cesare
Ottimi Prologo e Postafazione!
Rileggo volentieri i galli( 🙂 ) di Mario Trufelli anche perché non ritrovo il libro. Devo averlo prestato. Grazie, Antonio!
Grazie a te, Mery, sempre gentilissima!