Rabatana pubblica sei racconti e due poesie di Enrico Buono, a cui si accede facendo clic sul link SEI RACCONTI NELLA SINTESI DI RABATANA E DUE POESIE DI ENRICO BUONO

Immagino la sorpresa degna dell’ironia manzoniana.

– Enrico Buono? Chi era costui? –

– Era figlio di don Giulio Buono! –

– E don Giulio Buono chi era? –

    Gli anziani come me ricordano con simpatia e affetto don Giulio. Io ho avuto anche una conoscenza personale relativa col figlio Enrico e, per le circostanze che riferirò più avanti, di lui ho avuto indirettamente una conoscenza più approfondita.

       Per gli under 80 domina la manzoniana ironia, da cui una piccola catena di personaggi che hanno voluto e vogliono bene a Tricarico, alle sue tradizioni e ai suoi ricordi, rappresentata da don Benì Perrone, Maurizio Spano e dalla sorella Enza hanno tratto Enrico Buono.

       Presento entrambi con le parole pronunciate da don Benì nella lezione che tenne su Enrico Buono nel marzo 2002  al Corso di letteratura locale delle sezione di Tricarico dell’Università delle tre età:

       «Qualche anno fa sono venuto in possesso di alcuni lavori di Enrico Buono rimasti inediti, che ho custodito gelosamente e affettuosamente. Devo subito dire che la mia conoscenza di lui è rimasta molto relativa e ne conservo una vaga e sfocata immagine. Mi viene fatto però di associare a lui immediatamente la fisionomia e il ricordo del padre che fu mio maestro in V elementare: don Giulio Buono, un galantuomo d’altri tempi, irripetibile per la sua serietà professionale, la capacità e l’impegno educativo».

       Don Pancrazio Perrone affidò i dattiloscritti a Maurizio Spano, che li consegnò alla sorella Enza, che infine li ha editati con la Prefazione del prof. Enzo Vinicio Alliegro, la Postfazione di Gerardo Corrado e l’Introduzione della stessa Enza Spano. Nel volume, intitolato «Echi e ricordi. I racconti di Enrico Buono», SMDR Edizioni, Calciano (MT), 2009, pagg. 187, € 10 – in copertina «L’Estate», dipinto olio su tela  di Michele Picardi, sono pubblicati cinque racconti («Femia e Cristina», «L’abito nuovo», «Estate», «Tempo d’inverno», «La scuola e il maestro»); ad essi va aggiunto un sesto racconto «Il viaggio», (curiosamente o per altra non chiara ragione, a cui, petraltro, Gerardo Corrado, sembra aver voluto dare un senso) pubblicato in Appendice come «Un omaggio a Enrico Buono».

       Alle parole di don Benì Perrone aggiungo essenziali dati biografici: Enrico Buono nasce a Tricarico il 26 gennaio 1906 e muore a Cremona l’8 gennaio 1970. Si allontana da Tricarico dopo le elementari per compiere i suoi studi, si laurea in giurisprudenza a intraprende una carriera amministrativa presso il ministero dell’Interno.

       Enza Spano afferma che «nei lunghi anni della sua carriera ministeriale, Enrico Buono ha fatto spesso ritorno a Tricarico, suo paese nativo, per un rapporto d’amore e di richiamo affettivo, che non è mai cessato nel tempo. Dai suoi scritti affiora un trasporto che costituisce un feeling tra lui e la sua terra».

       Più avanti testimonierò l’amore di Enrico Buono per Tricarico, ma non ricordo che egli avesse fatto spesso ritorno a Tricarico, come afferma la Spano. Se la mia personale conoscenza di lui è stata molto relativa si deve anche al fatto che egli a Tricarico non tornava spesso. (Trovavi lavoro in una città lontana, ti sposavi con una donna di altra città, arrivavano i figli che bisognava portare al mare, avevi trenta giorni netti netti di ferie, il ritorno a Tricarico richiedeva almeno quattro giorni tra andata e ritorno, e il ritorno al paese natio diventava impresa impossibile, al massimo ti potevi concedere qualche volta una toccata e fuga).  Con Enrico Buono ho avuto non più di tre o quattro incontri e non so dire se qualche volta fosse tornato a Tricarico con la famiglia.

       Rabatana, in attesa dell’autorizzazione a pubblicare integralmente i testi dei racconti, per ora ne fa dei rapidi cenni e pubblica in appendice due poesie, la prima in tema col racconto Tempo d’inverno. I racconti sono una personale biografia dell’adolescenza di Enrico Buono e costituiscono l’unica documentazione per la conoscenza delle condizioni di vita, dei bisogni e problemi e di personaggi della Tricarico di un secolo fa. La loro pubblicazione ha per ora quasi uno scopo pubblicitario, per richiamare il ricordo dei detti racconti e invitare a leggerli integralmente, sperando di poter presto contribuire alla lettura pubblicandoli online.

       Ora consentitemi una della solite divagazioni cui mi lascio andare qualche volta su Rabatana.

       Ai racconti sono allegate cinque fotografie di Enrico Buono in borghese e in divisa, di lui con la moglie, con la moglie e il figlioletto Giulio. Non è la divisa del servizio militare di complemento. Di che divisa, allora, si tratta?

       Inoltre, se la mia conoscenza personale di Enrico Buono è stata relativa, di lui ho però sentito parlare molto. Concludo, quindi, parlando di questi due aspetti.

       La domanda sulla divisa ha senso perché (la cosa oggi appare incredibile e inimmaginabile) si tratta della divisa che in regime fascista gli impiegati dello stato erano tenuti ad indossare. In ufficio si andava in divisa, i superiori si salutavano col saluto fascista e con loro si conferiva battendo i tacchi e rimanendo sull’attenti.

       L’ordinamento fascista degli impiegati civili dello stato del 1923 era modellato sull’organizzazione delle forze armate. I funzionari e impiegati statali, divisi in tre gruppi (A, B e C), corrispondenti, rispettivamente, agli ufficiali, ai sottufficiali e agli uomini di truppa, ordinati gerarchicamente in base a 13 gradi, erano tenuti ad osservare le regole della disciplina militare. L’obbligo di indossare la divisa e le sovrastrutture di tipo militaresco furono revocate con la caduta del fascismo e l’ordinamento degli impiegati del 1923 fu sostituito da uno statuto del 1957. Nel linguaggio corrente degli impiegati, tuttavia, a lungo si continuò a parlare di gradi e a nutrire nostalgia per la divisa.

       Il mio primo capo ufficio osservava che, se avessimo portato la divisa, si sarebbe vista la differenza di grado tra lui e me, come la differenza si vedeva tra lui, che fu pure assegnato a Modena come prima sede di servizio, e il suo capo. – La differenza di grado si vede dall’età, dal rispetto che le porto … -, cercavo di consolarlo, e lui, di rimando – Ma l’età gioca a tuo favore -.

       Un giorno, sventolando un telegramma, mi disse: – È per te! Complimenti. Sei stato promosso maggiore -. Inutile tentare di fargli capire che i gradi erano finiti quando io ero un ragazzino della scuola media.

       Dalla divisa indossata da Enrico Buono, arguisco, se non sbaglio, che egli rivestisse  il grado sesto, corrispondente a colonnello. I gradi del gruppo A terminavano di fatto al quarto quinto (corrispondente al grado di generale di brigata), essendo i gradi superiori (quarto e terzo) riservati a un ristretto numero di funzionari I prefetti erano suddivisi in due gradi: prefetti di seconda classe  (grado quarto) e di prima classe (grado terzo). Buono si fermò all’ex grado quinto.

        Egli non raggiunse l’apice della carriera con la nomina a prefetto (nomina di carattere politico, concessa con provvedimento del consiglio dei ministri), con grande cruccio suo e, ancor più, del padre. Fu vittima, senza alcuna responsabilità personale, ma per una sorta di responsabilità oggettiva, come tantissimi suoi colleghi all’apice, alla caduta del fascismo nel 1943 e durante il biennio della guerra civile, nella carriera amministrativa delle prefetture, amministrazioni alle più dirette e strette dipendenze dal potere politico. Buono, per di più, era stato in servizio presso una prefettura del Nord, ossia della Repubblica sociale. La speranza che quella sorta di ostracismo, prima o poi, avrebbe avuto termine, non li abbandonava, aggravando il loro disagio psicologico. Ricordo il cruccio di don Giulio Buono, che talvolta si è sfogato anche con me.

       Non ho rivisto Enrico dagli anni Cinquanta, ma di lui ho molto sentito parlare e ho molto parlato quando emigrai: a Modena, mia prima sede di servizio e, quindi, a Ferrara.

   Mi era assegnato, tra altri compiti di minore importanza, quello di istruire le pratiche per il controllo dell’amministrazione degli ospedali e, quindi, anche del policlinico di Modena, la cui gestione, per una crisi dell’amministrazione, fino a poco tempo prima che io prendessi servizio, era stata affidata a un commissario straordinario di nomina ministeriale, che fu, per l’appunto, Enrico Buono.

       La crisi dell’amministrazione del policlinico aveva avuto uno strascico di contenziosi al consiglio di stato ed ebbi la sorpresa di apprendere che il patrocinatore di una delle parti (le cause erano ancora in corso) era l’avv. Domenico Schiavone, che allora era senatore eletto nel collegio di Tricarico. Schiavone era un avvocato amministrativista di fama, aveva un modesto e stentato eloquio, ma le sue comparse e memorie, redatte con logica geometrica, mostravano profonda cultura giuridica ed aggiornatissima competenza nel campo del diritto amministrativo.

       Il direttore e il vice direttore amministrativo del policlinico, coi quali,  per ragioni di ufficio, avevo frequenti rapporti,  avevano un ottimo ricordo di Buono e mi esprimevano la loro ammirazione e riconoscenza per il suo lavoro, svolto in condizioni non agevoli. Modena era un città a forte maggioranza comunista e, sebbene il consiglio di amministrazione del policlinico non fosse emanazione degli enti locali in mano comunista, la gestione commissariale dai comunisti era guardata di malocchio per principio ideologico e ragione politica. I commissari non erano tollerati in terra comunista. Ebbi testimonianze che Buono seppe abilmente barcamenarsi e si rivelò valente funzionario e intelligente diplomatico.

       Trasferitomi dopo alcuni anni a Ferrara, qui conobbi un funzionario di prefettura che aveva avuto Buono come suo primo capo ufficio. Era ancora letteralmente incantato della signorilità e cultura di Buono, che considerava il suo Maestro, che gli aveva insegnato tutto della tecnica e della strategia del mestiere. Buono l’aveva trattato amichevolmente – cosa pressoché inconcepibile nelle prefetture di quel tempo dove il principio gerarchico dominava con rigore e formalismo – e gli parlava con nostalgia di Tricarico e dei ricordi della sua infanzia e giovinezza. Questo funzionario mi parlò di Femia e di Cristina, del maestro delle elementari di Buono, mi parlò della scuola a Santa Chiara: che ritrovo nei racconti. Non era più in contatto con Buono, ma era informato sulle sue vicissitudini e fu informato subito della morte del suo ex capo.

 

2 Responses to Sei racconti nella sintesi di Rabatana e due poesie di Enrico Buono

  1. Antonio Zasa ha detto:

    Nella storia di don Giulio Buono manca un tassello per avere un quadro completo della famiglia. Maria Buono nata il 1902 è la primogenita della famiglia e sorella di Enrico. Maria di forte personalità,insegnante elementare, sposa Silvio Onorato, geometra; dalla loro unione nasce Giancarlo, mio compagno di giochi, laureato in legge;costui vince un concorso all’INPS e da funzionario è destinato alla sede di Pesaro dove sposa una collega ed ha tre figlie. Muore a Pesaro nel 2011

    • Antonio Martino ha detto:

      Per completare davvero. Maria Buono muore a poco più di 50 anni e Silvio Onorato sposa in seconde nozze Lina Cavalieri, sorella di Ciccio Cavalieri a lungo cancelliere della Pretura di Tricarico. Non sapevo della scomparso di Giancarlo, non sapevo più nulla di lui. L’ultima volta che lo vidi che si stava preparando per l’esame orale di un concorso (all’INPS), a cui era stato ammesso.

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