Ringrazio Mery Carol di avere acconsentito alla mia richiesta di pubblicare su Rabatana questo suo bellissimo racconto. Mery Carol è una tricaricese, che come tanti ha lasciato Tricarico e ha deciso di non tornarci, nascondendo la sua identità dietro la maschera dello pseudonimo adottato per la sua intelligente e interessante presenza su FB. Ci uniscono l’appartenenza, quando eravamo giovani, alla comunità tricaricese, anche se lei sa qual è stata la mia prima vita e io, rispettando la sua riservatezza, ignoro quale sia stata la sua; e ci uniscono, soprattutto, l’amore e la nostalgia per Tricarico, così grandi e così simili in lei, che pare abbia deciso di non tornare, e in me, che la vita ha deciso di non farmi tornare. (a.m.)

Il carrettiere

 

Quella mattina, verso mezzogiorno, arrivò il nonno, a piedi come sempre. Io ero pronta per ripartire con lui l’indomani all’alba approfittando del traino di Fruntone diretto ad Albate con un carico di vino. Quella volta mi portai dentro anche il rimpianto di lasciare la sorellina, che, dopo l’iniziale incertezza, aveva imparato a fidarsi di me e mi gratificava con allegre risatine e bacetti.

 I regali della Befana? Guanti di lana per tutti sferruzzati dalla mamma.

Durante il viaggio mi ero addormentata tra le braccia del nonno, sotto la sua magica mantella e mi svegliai mentre il cavallo tirava su per la salita all’entrata del paese.

Scendemmo dal traino congelati e il nonno voleva portarmi in braccio, ma io salii di corsa la scala di casa, asciugandomi le lacrime con il dorso delle mani, mentre Fruntone mi salutava sbracciandosi allegramente.

La nonna mi aveva preparato la zuppa calda di orzo e pane. Il tempo di fare la pipì e poi subito a scuola con il nonno che mi giustificò per il ritardo.

L’aula della quinta, la mia classe, era un locale con porta-finestra al piano rialzato del castello, proprio di fianco al portone principale. All’interno del palazzo era allocata la caserma dei Carabinieri con l’alloggio del maresciallo che io conoscevo benissimo.

La mia scuola era priva di gabinetto e di focolare. Ci riscaldavamo con un braciere colmo di carbonella che portavamo a turno da casa. A volte i compagni più grandi andavano al forno, non lontano dalla scuola, per farsi riempire il braciere di tizzoni accesi. Qualche volta veniva la domestica del maestro a portare un secchio di fuoco. Noi le facevamo festa come se ci avesse portato una torta con la crema.

Per fare la pipì, i maschi andavano liberamente all’aperto, per noi femminucce c’era un angoletto riservato tra il palazzo e la cappella delle Anime del Purgatorio.

Io cercavo di mantenerla allo stremo per non dovermi abbassare le mutande (ne indossavo due: una sgambata di tela bianca, l’altra di lana, lunga fino al ginocchio) con quel freddo tremendo. Una compagna se la faceva continuamente sotto, goccia dopo goccia, e le avevamo affibbiato il nomignolo di “pisciarella”.

Tutti stavamo a scuola con addosso il cappotto o scialle o mantello che fosse. In testa avevamo la sciarpa cucita a cappuccio e, chi li aveva, i guanti a sacchetto con un dito solo. Io quella mattina sfoggiai i guanti di lana a cinque dita che mi aveva fatto la mamma.

Era passata poco più di un’ora dall’arrivo a scuola, quando sentimmo tintinnare la campanella del portone e un uomo gridare: «Aprite…aprite!»

Era Fruntone che gridava e picchiava il batacchio che pendeva dalla bocca del leone di bronzo:

«Aprite…aprite!»

Il maestro si affacciò e chiese: «Frntó, ch t’è success?»

Lui s’infilò dentro il portone senza rispondere.

Di lì a poco sentimmo dei passi concitati: Fruntone, il maresciallo e il carabiniere si precipitavano giù per la discesa fino al belvedere, dove presumibilmente il carrettiere aveva lasciato il traino.

 All’uscita dalla scuola già si era diffusa la brutta notizia: un terribile fatto di sangue, che sconvolse il nostro paese e quelli vicini.

Fruntone, scaricato il vino e mangiato un tozzo di pane con una fetta di ventresca, partì per il viaggio di ritorno verso casa, ma, giunto al ponte della fontana vecchia, ad un chilometro circa da Albate, fermò il cavallo e scese per un improvviso bisogno corporale.

La fontana vecchia era detta anche fontana arsa perché secca da qualche decennio. Era una specie di grotta, in parte, naturale e, in parte, opera dell’uomo, situata proprio sotto un piccolo ponte della provinciale. I viandanti spesso vi trovavano rifugio durante le intemperie e vi accendevano un fuoco di frasche per rifocillarsi.

Fruntone fece un salto dalla scarpata per accedere alla grotta, ma trovò l’accesso ostruito da alcuni rami d’albero e da un calesse sconquassato. Rimosse parte del materiale per entrare, ma ciò che vide all’interno lo terrorizzò a tal punto che si fece la diarrea nei pantaloni.

Due commercianti di bestiame, padre e figlio, conosciuti in paese e dintorni come brave persone, erano lì, sgozzati, in un mare di sangue.

Il povero Fruntone scartò subito il primo pensiero che era quello di darsela a gambe e tornare a casa. Decise di tornare sui suoi passi, o meglio sui passi del cavallo, e avvisare i carabinieri. Il maresciallo, dopo il sopralluogo, interrogò a lungo il carrettiere e volle sentire anche mio nonno. Nessuno dei due aveva visto o notato persone o movimenti strani, anzi, mentre io dormivo, non avevano incontrato anima viva per tutto il viaggio. Nonno si rese conto dello stato in cui si trovava l’amico e, dopo aver avuto via libera dal maresciallo, lo condusse a casa per fargli cambiare i pantaloni. Un vecchio pantalone di mio zio gli andava stretto ma servì a risolvere la situazione dopo un sommario lavaggio intimo.

Quel duplice omicidio rimase impunito ed anche per questo destò grande impressione e scosse l’emotività della gente di tutto il circondario.

Riemersero le ancestrali paure dei demoni, degli orchi e dei briganti.

Sì. La mia Lucania fu territorio di briganti, i più feroci e sanguinari. L’elenco dei capibanda è lungo: Carmine Crocco, Ninco Nanco, Malacarne, Coppolone, Chitarridd, Cipriano detto il cannibale e, fra molti altri, Paolo Serravalle. Tutti figli delle ingiustizie e dell’estrema miseria, ma nessuno dei delitti da essi compiuti può trovare giustificazioni di sorta. La loro crudeltà fu pari solo all’asprezza del territorio montuoso, ricco di anfratti, grotte e rifugi desolati e impervi, dove era facile rimanere nascosti a lungo. Alcuni di quei luoghi, già dai nomi, evocavano le bolge infernali come la “Seggia del Diavolo” o la “Rocca del Cappello”che pare proprio opera di un demonio.

A proposito di Paolo Serravalle, quando mio nonno faceva arrabbiare la nonna, lei lo chiamava “ Paul Saravall” e di solito succedeva quando lui usciva e tardava a rincasare. La nonna guardava continuamente fuori dal balconcino e, preoccupata, diceva: «Ma quann ven Paul Saravall?».

Quell’espressione offendeva più me che lui.

Le mamme, atterrite da presenze negative, reali o immaginarie, riversavano sui figli le loro paure inventando ulteriori nemici per spaventarli e ottenere che stessero buoni.

Invocavano “ u munacidd” per bloccare un bambino temerario o uno che non voleva dormire e faceva capricci. Non ho mai capito cosa facesse di male quel monachello ad un bambino disubbidiente: non era assolutamente chiaro. Forse aveva un aspetto talmente repellente che il solo vederlo era un castigo di Dio. Chissà!

Era appena scemata la paura dei bombardamenti e il fronte di guerra si era spostato al centro nord, che aumentarono altre paure, irrazionali ma altrettanto terrificanti.

Il malocchio, il lupo mannaro, la carestia e, sopra ogni altra cosa, la morte.

La morte era e doveva essere un evento riservato ai vecchi. La morte di un giovane o di un bambino era opera del Maligno e per contrastarlo si ricorreva a riti stregoneschi.

C’erano riti speciali per ogni avversità. Contro il tradimento in amore o contro la sterilità; contro le malattie, contro l’invidia e via discorrendo. C’erano anche i riti del buon auspicio per propiziare un buon matrimonio, un parto facile, il buon esito di un affare, una buona lievitazione del pane, un buon raccolto.

Mia nonna aveva una formula che andava bene per tutto: imponeva una mano sul capo e con l’altra faceva tre segni di croce sulla fronte (la mia)  recitando per tre volte:

«Uno ti offende e tre ti difendono. Padre, Figlio e Spirito Santo».

Di solito funzionava.

Per i raccolti, purtroppo, niente era più forte della tempesta. Quando si abbatteva sui campi, tutto il lavoro di un anno veniva spazzato via e non esisteva rito magico o religioso che potesse evitare il disastro.

Dopo quella terribile scoperta, Fruntone si ammalò e stette fermo una decina di giorni, poi riprese a viaggiare munito di una spranga di ferro che teneva sempre a portata di mano.

 Io avevo imparato a riconoscere il rumore degli zoccoli del suo cavallo e dei cerchioni di ferro delle ruote e mi affacciavo alla finestra per salutarlo.

Mery Carol

 

 

3 Responses to IL CARRETTIERE (Racconto di Mery Carol)

  1. Mery Carol ha detto:

    Ti ringrazio, Antonio, per la pubblicazione che dà lustro al mio racconto. Grazie per i generosi apprezzamenti per la mia persona!
    Negli ultimi dieci anni sono tornata “a casa” solo in occasione di funerali. Spero di non dover partecipare ad altri.
    Buona vita a te ed ai numerosi amici tricaricesi sparsi per il mondo. Mery

  2. Antonio ha detto:

    Sono nipote di fruntone

    • antonio-martino ha detto:

      Su suo nonno pubblicai il racconto di una grande nevicata, di cui egli fu protagonista. Alla sua morte Mario Trufelli scrisse una bellissima poesia, che ho riprodotto nel detto racconto, del quale questo è il link, se volesse leggerlo https://www.rabatana.it/?s=frunton

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