U MUNACIDD

Nel racconto «Il carrettiere» Mery Carol sostiene di non aver mai capito cosa il “monachello” facesse di male ad un bambino disubbidiente e immagina che avesse un aspetto talmente repellente che il solo vederlo era un castigo di Dio. Testimonia così l’affermazione in sede scientifica di Luigi Volpe (nel «Cristo oltre Eboli», Besa Editrice, Nardò (LE), p. 241) che, mentre la credenza negli altri spiriti è viva e diffusa, quella dei monachicchi è in netto declino e, per quello  che gli è dato conoscere, è difficile trovare oggi qualche persona che veramente crede a questi spiritelli giocosi. Altro è credere, altro sapere: ahilei! la mia cara misteriosa amica, privata della fantasia del munacidd, peredette gran parte della sua infanzia.

Quando io ero bambino, invece, ho sempre atteso tutte le sere al braciere o al focolare che il munacidd venisse a farmi dispetto, sperando di riuscire a strappargli il berretto rosso, che avrebbe fatto la mia fortuna. Il dispetto che il munacidd mi fece fu di non apparirmi mai.

Spiritello giocoso, folletto che si va a mettere “sulla bocca dello stomaco”, secondo altra rappresentazione di Luigi Volpe, mostricciattolo dall’aspetto repellente come un castigo di Dio, secondo l’immaginazione di Mery Carol: chi era il munacidd ?

Il munacidd era questo e molto, molto altro ancora. Detto il monachicchio nella forma italianizzata, è un personaggio del folclore lucano con una sua precisa identità, sebbene le sue descrizioni variano da zona a zona della Basilicata e l’origine e l’aspetto del mito abbiano molto in comune con quelli della scazzarello (mulinello di una certa potenza tanto da strappare dal terreno e far volteggiare erbe secche, foglie, ecc., in cui usano apparire le anime dei trapassati di “mala morte”: v. Luigi Volpe, op. cit. p. 233). La precisa identità del monachicchio lucano non esclude i moltissimi caratteri comuni col munaciello napoletano. Spiritello leggendario l’uno e l’altro, di natura sia benefica, sia dispettosa (“O munaciello – dice un proverbio napoletano – a chi arricchisce e a chi appezzantisce”), il munaciello napoletano ha origini plurisecolari  e gli scrittori di tradizioni popolari accreditano due ipotesi particolari, che non è possibile descrivere qui, data la loro ricca fantasiosa complessità. Accenno solo alla tradizione riportata da Matilde Serao nel suo Leggende napoletane, secondo cui il munaciello sarebbe un personaggio realmente esistente.

Con caratteristiche e manifestazioni diverse il munaciello sarebbe ancora presente in varie zone di Napoli e, nel corso dei secoli, ha guadagnato numerose citazioni letterarie, soprattutto in campo teatrale. Tra le più importanti si ricordano quella di Eduardo De Filippo in Questi fantasmi!, in cui la commistione tra la leggenda del visitatore soprannaturale ed il grottesco della vita quotidiana viene espressa attraverso il personaggio dell’amante della moglie, che Eduardo scambia per un munaciello. Più antica è Nu munaciello dint’a casa ‘e Pullecenella (1901), commedia fantastica di Antonio Petito. In epoca contemporanea, il munaciello compare nell’opera La gatta Cenerentola di Roberto De Simone con La canzone del monaciello.

Torniamo al munacidd (monachicchio) lucano. Ho già detto che in Basilicata si hanno diverse tradizioni. Seconda quella attribuita a Grassano, diffusa nella vicina Tricarico e nell’Alto materano, il manachicchio è lo spirito di un bambino morto prima di ricevere il battesimo. Di bell’aspetto e di carattere gentile, porta in testa un berrettino di color rosso.

Carlo Levi, nel «Cristo si è fermato a Eboli» raccoglie tale tradizione in alcune stupende pagine, di cui riporto ampi passi (tratti dall’edizione che dispongo, la quinta, 1947, pp. 134-140) secondo la seguente tripartizione: a) la descrizione del mito; b) la fantasia nata dalla grande quantità di materiale archeologico presente nel sottosuolo lucano porta l’immaginario popolare lucano a pensare ai monachicchi quali custodi dei tesori sotterrati; c) il monachicchio è invulnerabile ai colpi d’arma da fuoco.

il manachicchio: chi è

« I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solletico sotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d’aria e fanno volare le carte e cadere i panni stesi in modo che si insudicino, tolgono la sedia di sotto alla donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il latte, danno pizzicotti, tirano i capelli, pungono e fischiano come zanzare. Ma sono innocenti: i loro malanni non sono mai seri, hanno sempre l’aspetto di un gioco, e, per quanto fastidiosi, non ne nasce mai nulla di grave. Il loro carattere è una saltellante e giocosa bizzarria, e sono quasi inafferrabili. Portano in capo un cappuccio rosso più grande di loro: e guai se lo perdono. Tutta la loro allegria sparisce ed essi non cessano di piangere e di desolarsi finché non l’abbiano ritrovato. Il solo modo di difendersi dai loro scherzi è appunto di cercarli di afferrarli per il cappuccio: se tu riesci a prenderglielo, il povero monachicchio scappucciato ti si butterà ai piedi, in lacrime, scongiurando di restituirglielo. Ora i monachicchi, sotto i loro estri e la loro giocondità infantile, nascondono una grande sapienza: essi conoscono tutto quello che c’è sottoterra, sanno i luoghi nascosti dei tesori. Per riavere il suo cappuccio rosso, senza cui non può vivere, il monachicchio ti prometterà di svelarti il nascondiglio di un tesoro. Ma tu non devi accontentarlo fino a che non ti abbia accontentato; finché il cappuccio è nelle tue mani, il monachicchio ti servirà. Ma appena riavrà il suo prezioso copricapo, fuggirà con un gran balzo, facendo sberleffi e salti di gioia, e non manterrà la sua promessa».

Il monachicchio custode dei tesori sotterranei

« Tante genti sono passate su queste terre, che qualcosa si trova davvero, e dappertutto, scavando con l’arato antichi vasi, statuette e monete escono al sole, sotto la vanga, da qualche antica tomba. Anche don Luigino ne possedeva, trovati in un suo campo, verso il Sauro: monete corrose, che non potei stabilire se fossero greche o romane, e alcuni vasetti neri, non figurati, di forme elegantissime.

Di tesori dei briganti, ne vidi uno io stesso, assai modesto. L’aveva trovato per caso il falegname Lasala che me lo mostrò. Aveva messo una sera un grosso ceppo nel focolare, e al chiarore delle fiamme s’era accorto di qualcosa che luccicava nel legno. Erano pochi scudi borbonici d’argento, nascosti in un buco di quel vecchio tronco.
Ma, per i contadini, queste non sono che briciole degli immensi tesori celati nelle viscere della terra. Per loro i fianchi dei monti, il fondo delle grotte, il fitto delle foreste sono pieni di oro lucente, che aspetta il fortunato scopritore. Soltanto, la ricerca dei tesori non va senza pericoli perché è opera diabolica, e si toccano delle potenze e spaventose. È inutile frugare a caso la terra: i tesori non compaiono che a colui che deve trovarli. E per sapere dove sono, non ci sono che le ispirazioni dei sogni, se non si ha avuto la fortuna di essere guidati da uno degli spiriti della terra che li custodiscono, da un monachicchio.

Il tesoro appare in sogno, al contadino addormentato in tutto il suo sfolgorio. Lo si vede, una catasta d’oro, e vede il luogo preciso, là nel bosco, vicino a quell’albero d’ilice con quel segno sul tronco, sotto quella gran pietra quadrata. Non c’è che andare e prenderlo. Ma bisogna andare di notte: di giorno il tesoro sfumerebbe. Bisogna andarci soli, e non confidarsi con anima viva: se sfugge una sola parola, il tesoro si perde. I pericoli sono spaventosi, nel bosco si aggirano gli spiriti dei morti: ben pochi animi sono così arditi da mettersi al cimento, e da portarlo, senza vacillare, a buon fine. Un contadino di Gagliano, che abitava non lontano da casa mia, aveva visto in sogno un tesoro. Era nella foresta di Accettura, poco sotto Stiglino. Si fece coraggio e partì nella notte: ma quando fu circondato dagli spiriti, nell’ombra nera, il cuore gli tremò nel petto. Vide fra gli alberi un lume lontano: era un carbonaio, un uomo senza paura, come tutti i carbonai, e calabrese: passava la notte nel bosco vicino alle sue fosse da carbone. La tentazione, per il povero contadino atterrito, fu troppo forte: egli non poté fare a meno di raccontare al carbonaio il suo sogno, e di pregarlo di assisterlo nella ricerca. Si misero dunque insieme a cercare la pietra vista in sogno, il contadino un po’ rinfrancato dalla compagnia, e il calabrese pieno di coraggio, e armato della sua roncola. Trovarono la pietra: tutto era esattamente come in sogno. Per fortuna erano in due: il masso era pesantissimo, e a fatica potevano smuoverlo. Quando furono riusciti ad alzarlo, apparve una grossa buca nella terra: il contadino si affacciò, e vide nel fondo luccicare l’oro, una straordinaria quantità di oro. Le pietruzze smosse del terreno battevano cadendo sulle monete, con un suono metallico che riempiva di delizia il suo cuore. Si trattava ora di calarsi nella fossa profonda e di prendere il tesoro, ma qui al contadino mancò di nuovo il coraggio, e disse al suo compagno di scendere e di porgergli il denaro, che lui, di sopra, avrebbe messo nel suo sacco: poi l’avrebbero spartito. Il carbonaio, che non temeva né diavoli né spiriti, scese nella fossa: ma ecco, tutto quel giallo lucente si era fatto nero ed opaco, tutto l’oro, d’un tratto, s’era mutato in carbone. »

il monachicchio invulnerabile ai colpi d’arma da fuoco

« In quei giorni, Carmelo lavorava, con una squadra di operai, a riattare la strada che porta ad Irsina, lungo il Bilioso, un torrentaccio malarico che corre fra le pietre per buttarsi più lontano dopo Grottole, nel Basento. I badilanti usavano, nelle ore del maggior caldo, quando era impossibile lavorare, ritirarsi a dormire in una grotta naturale, una delle molte che bucano, in quel vallone, tutto il terreno, e che erano state, un tempo, il rifugio preferito dei briganti. Ma nella grotta c’era un monachicchio: lo spiritello bizzarro cominciò a fare i suoi dispettucci a Carmelo e ai suoi compagni: appena si erano appisolati, mezzi morti di fatica e di caldo, li tirava per il naso, li solleticava con delle pagliuzze, buttava dei sassi, li spruzzava con dell’acqua fredda, nascondeva le loro giacche o le loro scarpe, non li lasciava dormire, fischiava, saltellava dappertutto: era un tormento. Gli operai lo vedevano comparire fulmineo qua e là per la grotta, col suo grande cappuccio rosso, e cercavano in tutti i modi di prenderlo: ma quello era più svelto di un gatto e più furbo di una volpe: si persuasero presto che rubargli il cappuccio era cosa impossibile. Decisero allora, per poter in qualche modo difendersi dai suoi giochi fastidiosi, e prendere un po’ di riposo, e lasciare a turno uno di loro di sentinella mentre gli altri dormivano, con l’incarico di tenere almeno lontano il monachicchio, se la fortuna non consentiva di afferrarlo. Tutto fu inutile: quell’inafferrabile folletto continuava i suoi dispetti come prima, ridendo allegramente della rabbia impotente degli operai. Disperati, essi ricorsero allora all’ingegnere che dirigeva i lavori: era un signore istruito, e forse sarebbe riuscito meglio di loro a domare il monachicchio scatenato. L’ingegnere venne, accompagnato dal suo assistente, un capomastro: tutti e due armati col fucile da caccia a due canne. Al loro arrivo il monachicchio si mise a fare sberleffi e risate, dal fondo della grotta, dove tutti lo vedevano benissimo, e saltava come un capretto. L’ingegnere imbracciò il fucile, che aveva caricato a palla, e lasciò partire un colpo. La palla colpì il monachicchio, e rimbalzò indietro verso quello che l’aveva tirata, e gli sfiorò il capo con un fischio pauroso, mentre lo spiritello saltava sempre più in alto, in preda a una folle gioia. L’ingegnere non tirò il secondo colpo: ma si lasciò cadere il fucile di mano: e lui, il capomastro, gli operai e Carmelo, senza aspettar altro, fuggirono terrorizzati. Da allora quei manovali si riposano all’aperto, sotto il sole, coprendosi il viso col cappello: anche tutte le altre grotte dei briganti, in quei dintorni di Irsina, erano piene di monachicchi, ed essi non osarono più metterci piede».

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9 Responses to U MUNACIDD

  1. Pietro ha detto:

    nell’articolo il ” monachicchio invulnerabile ” aggiungo solo per semplice informazione ,che il Bilioso “u vlius” non si versa nel Basento,ma è affluente del Bradano.
    Grazie per tutto il resto dei racconti.
    pietro mazzarella

  2. Antonio Martino ha detto:

    Grazie per l’informazione. Si tratta di un “errore geografico” di Levi (p. 137 dell’edizione del 1947)

  3. Mery Carol ha detto:

    Tutto bello ed esauriente. Grazie, Antonio! Oggi è facile conoscere quello che si cerca. Si pigia il pulsante del mouse e si aprono infiniti mondi. Avessimo avuto questa possibilità ai nostri tempi! Tu sei uno che le NOTIZIE le dà e non le attinge solamente. Hai un grande merito.
    Mia suocera spaventava i nipotini con il classico “Viene il lupo!”, io li rassicuravo traducendo che con il pianto o il baccano avrebbero svegliato il lupo e, una volta sveglio, quel gran cattivone avrebbe divorato qualche innocente pecorella. Adesso basta l’Isis. Mery

  4. Cesare monaco ha detto:

    Come sempre ,caro Tonino, sei un pozzo di sapere di cose appartenute al nostro passato. Personalmente non ho molta competenza del monacello.in casa mia le citazioni erano rarissime e non ci veniva rappresentato come una minaccia. Le zie di Grassano ed Accettura narravano talvolta qualcosa del monacello, ma francamente non trasmettevano il timore ed una minaccia per noi bambini.ciao

  5. Antonio Martino ha detto:

    Da noi u munacidd non faceva paura: era una speranza di cambiare condizione di vita, strappandogli quel benedetto berrettino rosso. Io nu munacidd non l’ho mai visto, ma tanti dicevano il contrario e di essere stati sul punto di acciuffare il berrettino. Ci ho creduto al munacidd, mi ha deluso per essere mai comparso a me e mi fa piacere averci creduto. Peccato non averlo potuto raccontare alle mie nipotine.

  6. Antonio Carbone ha detto:

    Carissimi, grazie per questa dotta,surreale e fantasiosa ricostruzione del personaggio del “u munacidd”mi mancava. Potremmo intenderlo come un’ animazione benevola delle piccole difficoltà quotidiana che, in questo modo, venivano alleviate.Ma ,nei miei confusi ed erronei ricordi di infanzia ,ho sempre associato al monachicchio l’immagine dei bambini che venivano, per ragioni di voto a qualche santo, vestiti col saio da piccoli monaci. Per questo non ho mai colto il fascino che invece emerge dalla vostra descrizione.Grazie per questo recupero di memoria tricaricese e lucana.

  7. Pier Giorgio ha detto:

    Caro Antonio, ti leggo con piacere e mi fai risentire in Terra di Luce ogniqualvolta ricevo i tuoi post. Ora lavoro come frate missionario in Albania, esattamente a Scutari. Anche a Bari, mia zona di origine, è forte nel centro storico la tradizione della “fata della casa”, uno spirito benigno che va assolutamente salutato uscendo o rientrando. Non ti dico quante narrazioni popolari su questa presenza invisibile. Anch’io da piccolo ho avuto tanta fantasia mossa e stimolata in questo senso. Benedetti i racconti di persone come te, che continuano a diffonderne la curiosa e fantastica notizia. Nel basso Salento, come testimoniato da alcune canzoni e pizziche popolari, “u’ munacieddhr” era anche il fidanzato introdotto in casa della ragazza ammalata d’amore, vestito impunemente col saio da frate. Shalom a te e tutta Tricarico! fra Pier Giorgio ofm.cap.

  8. Antonio Martino ha detto:

    Tante grazie, carissimo fra Pier Giorgio, con i miei più affettuosi auguri per la tua missione. Grazie anche di avermi fatto conoscere la Fata della casa.

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