Il mio carissimo amico Dusco Jankovc, che mi lusinga con commenti favorevoli ai miei scritti su Rabatana, è un vegliardo dotato della forza della natura, che ha vissuto cento vite oltre quella lunghissima che sta vivendo felicemente. Ora ha aggiunto un altro anno e io gli faccio tanti auguri con un forte abbraccio e … una tiratina d’orecchi. Questa bagatella e questa tiratina di orecchi non hanno altro scopo.

Dusco parla una quantità incalcolabile di lingue apprese nei luoghi dove queste lingue si parlano. Non c’è un pezzo di questa Terra in cui egli non abbia posato il piede, fermandosi a lungo. Ognuna delle lingue che parla è la sua lingua, in qualsiasi lingua parli, egli non traduce, parla la sua lingua. E’ uno dei pochi che ha capito il salto che internet ha fatto compiere all’uomo di rendere possibile l’impossibile. Ma forse e senza forse ha capito troppo.

Io e lui colloquiamo avvalendoci, ovviamente, della posta elettronica, ma egli, obnubilato dalla sua onnipotenza, non capisce che la mia lingua madre è il lucano e, parlando o scrivendo, traduco il lucano in italiano: quell’italiano che mi hanno insegnato a scuola e ho imparato leggendo qualche libro. Non riesce a comprendere questo mio limite, che non è solo mio, ma della stragrande maggioranza degli esseri umani, e mi spedisce articoli in tutte le lingue del mondo, accompagnati da una esortazione e da un’assicurazione: – Lo legga. Troverà riflessioni molto interessanti. Il mio amico Dusco, dunque, sviato dalla fede cieca in internet, è convinto che si possa comunicare per iscritto in 95 lingue, grazie ai programmi di traduzione che offre internet. Dice che li ha contati.

Vorrei far capire al mio amico Dusco che cosa significa tradurre l’intraducibile, che è quello che egli mi chiede quando mi manda, per esempio, uno scritto in afgano e io, magari, me lo faccio tradurre da internet: ricavo, sì, un testo che si può leggere con minore difficoltà di un testo scritto in afgano, ma che è pur sempre la traduzione di un testo intraducibile. Cerco ora di farglielo capire non con mie parole, ma con un vecchio scritto di un altro mio carissimo amico, biblista ed ebraista di fama internazionale, che non conosce tante lingue quante ne conosce Dusco, ma anche lui non scherza, a cominciare dall’arabo e dall’ebraico. Dusco, che sa tutto, questo mio amico lo conosce di fama. Il suddetto scritto è intitolato: «Tradurre l’intraducibile» e sottolineo che è stato pubblicato il 4 marzo 2012.

– Legga, Dusco, e rifletta. E’ molto interessante -.

Due prigionieri si trovano in celle attigue. Uno spesso muro li separa e vieta loro di incontrarsi. Tuttavia i due carcerati comunicano reciprocamente battendo con  pugni regolari sulla parete: ciò che li separa diviene un mezzo per relazionarsi. L’immagine la si deve a Simone Weil che la impiega per profonde riflessioni mistico-metafisiche. L’efficace bellezza del paragone consente però di applicarlo a molte altre situazioni, compresa l’arte del tradurre.

Passare da lingua a lingua, da cultura a cultura non comporta abbattere muri, significa renderli comunicanti. Se cade la distanza la traducibilità è ingannevole; allora vi è solo l’illusorietà della con-fusione. Quando si traduce occorre trasmettere l’alterità dell’originale, vale a dire, bisogna comunicare proprio quanto si sta cercando di superare. Ciò è particolarmente vero allorché  lingue e culture sono, in principio, molto lontane tra loro, quando, cioè, suoni e grafie contraddistinguono universi che sembrano destinati a non toccarsi mai. Il fatto che si possano battere colpi sul muro e che quanto separa riesca a mettere in qualche modo in relazione diviene, allora, motivo di vero conforto. La volontà di comprendere e di capirsi si trasforma in un valore fondamentale. Tradurre è un compito etico. Lo è quando la distanza non annulla la comunicazione e viceversa. Allora una intraducibilità parziale diviene il baluardo contro l’illegittima volontà di impossessarsi dell’altro; ma, nel contempo, essa diventa anche denuncia dell’angustia insita in ogni pretesa di autosufficienza.

Il dialogo è arte difficile, per questo è indispensabile. Esso riguarda ogni società, ogni succedersi di generazioni, ogni decisione collettiva che non gode di unanime consenso. Se non si avverte questo pungolo si dischiude la porta alla violenza. All’inizio potrà trattarsi di una piccola fessura, alla fine tutto il portone sarà spalancato. In Italia, in questi giorni, l’esemplificazione più immediata di ciò è costituita dalla TAV di Val di Susa. Per dialogare occorre ascoltare e per ascoltare bisogna essere disposti a ridiscutere. Non è detto che alla fine si debba rimangiare la decisione presa. Quanto è richiesto è prendere in considerazione le ragioni autentiche del pro e del contro. Ciò implica che ragioni ci siano. L’apparente apertura a ogni opinione è via insidiosa. Se è  violenta la chiusura che impone, dall’alto, l’uniformità, altrettanto pericoloso è il confronto che, in linea di principio, tutti uguaglia e sul piano dei fatti fa invece prevalere chi è più forte. Pur essendo obbligati a porre le debite distinzioni, ciò ha luogo nell’ambito della repressione, delle istituzioni, della persuasione massmediatica. Lo sapeva già Platone (che non a caso espresse la sua filosofia in forma di dialoghi): dove non c’è appello alla ragione che si esplica in ragioni a prevalere è sempre e solo il più forte.

Cercare di tradurre quel che, in senso proprio, è intraducibile è un’attività culturale che ha immediate ricadute civili; essa allarga gli spazi di quella che oggi si definirebbe una «buona pratica». Per il mondo occidentale, da secoli, un riferimento qualificante in quest’ambito è costituito dall’islam. Su questo fronte, da sempre, non è possibile attuare sconti. Ciò è vero a iniziare dal riferimento fondamentale costituito dal Corano. Oggi ogni persona consapevole del tempo in cui vive è chiamata a conoscerlo; tuttavia, quando ci si accosta a esso leggendo qualche traduzione, ci si accorge subito dell’esistenza di un muro di separazione e di comunicazione posto tra noi e il testo. Anzi l’accuratezza della traduzione e del commento si potenziano quanto più comunicano la natura parafrastica del loro operato e indicano la raggiungibilità del proprio oggetto.[1] Esse devono comunicare l’incomunicabile,  vale a dire devono rendere percepibile che, secondo il suo etimo, Quran significa  recitazione.  Solo se si è partecipi, dentro e fuori se stessi, di un universo linguistico arabo si è nelle condizioni di cominciare a lambire il più autentico messaggio coranico.

Pur nell’ovvia diversità dei contesti, la portata universale del messaggio del Corano e l’unicità intraducibile della sua forma linguistica sono paragonabili all’universalità dell’azione salvifica di Gesù Cristo e al suo essere ebreo di Galilea vissuto in un determinato tempo e luogo che compì gesti (compreso il suo memoriale consegnato al pane e al vino) comprensibili solo in quella determinata cultura. Quando l’eterno irrompe nel tempo il paradosso è di casa. Rispetto al Corano la parete che divide le due celle è decorata di caratteri arabi; i colpi però sono uditi e non visti. Merita una perenne attenzione il fatto che proprio la civiltà che ha raggiunto esiti di ineguagliata bellezza nella calligrafia abbia affidato alla voce umana la massima capacità di comunicare il divino. La mano cede il primato al petto, alla gola, alla lingua, alle labbra, al naso, i cinque principali luoghi di emissione dei suoni minuziosamente descritti dalla disciplina coranica detta tajwid. Leggere una traduzione e pensare di essere in grado di giudicare la fede musulmana in base ai contenuti così appresi (operazione peraltro frequente sia in passato, sia nel presente) equivale a emettere giudizi privi di discernimento.

Il turismo, troppo spesso manifestazione palese di incomprensione dei luoghi da esso raggiunti, mette molte persone a contatto con mondi diversi dai propri. Per chi ha gli orecchi perennemente occupati da cuffie e adusi al rumore (e tra essi ci sono anche giovani musulmani), la voce di richiamo alla preghiera percepibile nei paesi islamici, in genere, produce  noia. Se, però, si dischiudono mente e cuore all’ascolto, l’atteggiamento subito muta, e ciò avviene  anche se non si capisce il senso delle parole.  Allora è dato di udire i colpi sulla parete. Nelle notti di ramadan nell’aria bruna si diffonde il canto del muezzin che chiama alla preghiera: aprire la finestra e fare entrare quella voce (sia pure, con ogni probabilità, registrata) dice qualcosa di Dio. Nel buio giunge a noi l’invisibile.

 

[1] Si segnala, Il Corano,a cura di Alberto Ventura, traduzione di Ida Zilio-Grandi. Commenti di Alberto Ventura, Mohyddin Yahia, Ida Zilio-Grandi e Mohammad Ali Amir-Moezzi. Mondadori, Milano 2010, pp  899,   € 20.00.

 

 

 

5 Responses to Tradurre l’intraducibile (con gli auguri per il suo compleanno a Dusco Jankovic)

  1. Mery Carol ha detto:

    Mi consenta il signor Dusco Jankovic di porgergli anche i miei auguri. Credo sia una bella persona. Mi fido di Antonio. Sono tante le sue lingue madri? Non ha bisogno dunque di ricorrere al traduttore informatico. Io, al contrario vi ricorro spesso dovendo comunicare con amici di lingue diverse. Le mie traduzioni sono perfette solo nel ristretto ambito della lingua francese che conosco. Non mi azzarderei mai a inviare una lettera, scritta con il solo contributo del traduttore di internet, ai miei amici tedeschi,inglesi, olandesi o danesi. Se non ho il conforto di qualcuno che conosca quelle lingue, mi scuso e scrivo in italiano. L’articolo di Piero Stefani è molto bello. Per comunicare bisogna essere in due e la voglia di comunicare deve essere reciproca. Gradevole il canto del muezzin che invita alla preghiera. Quanto i musulmani gradiscono l’Angelus dei cristiani?

  2. Gilberto Marselli ha detto:

    Mi permetto di unirmi anche io agli auguri al tuo amico Dusco, ringraziandolo per la sua vivacità e, soprattutto, per averti indotto a fare queste interessanti considerazioni. Il dialogo è necessario perché p vita; ma esige che vi sia disponibilità infinita da parte di ognuno, sempre pronti ad accettare le opinioni altrui nella speranza che gli altri accettino anche le nostre. In sostanza, “dialogo = civiltà”….Grazie Antonio..GIL

  3. D. Jankovich ha detto:

    È un piacere potere ringraziare signora Carol e signor Marsilli per gli auguri, l’interesse e le simpatiche parole che mio amico Antonio ha promosso cercando di spiegare alcuni lati della mia persona che certamente non meritavo. Ero semplicemente un giovane uomo curioso, esageratamente forse, che per un insieme di circostanze e colpi di fortuna ha potuto dare sfogo alle proprie bizzarrie. Cresciuto in un ambiente multietnico, figlio di genitori e con parentado di intellettuali di varie nazionalità, allergico agli indottrinamenti, sbattuto in conflitti incomprensibili razionalmente, ho trovato un unica uscita creandomi un proprio mondo … fantastico, forse.
    Per me le varie lingue e culture che man mano incontravo erano un invito all’immedesimazione. Con certa sorpresa ho notato che arrivando nuovamente in posti che ho visitato previamente e conosciuto come lingua e cultura, mi bastava come cliccare per sentirmi subito a mio agio, essere di casa. Certo, in alcuni paesi, ambienti era evidente, diventavano per me luoghi di interesse culturale. Non cercavo dialogo dove la premessa era cambiare. Arrivato alla mia età vivo di retrospettive e poche amicizie, molte curiosità sono rimaste, attuarle in pratica è diventato impossibile. A pochi è concesso sapere approfondire le proprie curiosità come a Pierò Stefani. Grazie nuovamente.

  4. D. Jankovich ha detto:

    Correzione:
    Certo in alcuni paesi, ambienti era evidente, restavano per me paesi di interesse culturale.

  5. D. Jankovich ha detto:

    Certo, in alcuni paesi, ambienti “l’intraducibilita” era evidente, restavano per me posti di puro interesse culturale.

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