Mario Trufelli, L’OMBRA DI BARONE – I. Il pianto della dea
IL PIANTO DELLA DEA
( Rabatana invita a leggere L’ombra di Barone. Viaggio in Lucania, il libro bellissimo e irripetibile di Mario Trufelli. Per facilitare e dare tempo alla lettura, Rabatana pubblicherà un capitolo per volta, a intervalli di 5-6 giorni. Quando la pubblicazione e la lettura saranno completate, per il meccanismo del blog che da la precedenza al post successivo, il libro risulterà capovolto, dall’ultimo capitolo al primo. Allora per chi vorrà rileggerlo (o lo leggerà) il libro sarà pubblicato, con i capitoli in ordine, dal primo all’ultimo (dal primo all’undicesimo), in versione pdf ).
Mario ha dedicato L’ombra di Barone alla moglie. Ti lascio un libro pesa / meno di un etto di pane / ti lascio i miei pensieri forse / non pesano nulla / ma odorano di pane. A Nietta.
* * *
Lo Jonio rimane una visione, una sconfinata superficie che scintilla davanti agli occhi. E tutto sembra essersi fermato a quando all’orizzonte apparivano i primi coloni, gli epigoni degli eroi greci dimenticati nel tumulto delle ultime battaglie.
C’è il rischio di naufragare nelle improvvisazioni della fantasia in questo viaggio tra antico e moderno, tra Lucania e Basilicata (l’equivoco continua), in uno scambio di sensazioni e di entusiasmi, senza tralasciare riferimenti storici e rievocazioni.
In questo mare sarebbe scomparso il “sapiente Pitagora”, punito dagli dei per avere elaborato e divulgato dottrine non proprio gradite ai suscettibili abitatori dell’Olimpo: la dottrina della discontinuità, l’essenza delle cose nell’armonia del numero, il teorema dell’esattezza. Ma é storia, quella della scomparsa di Pitagora tra le onde dello Jonio, che sfuma nel mito, nella leggenda: e chissà che non si sia insinuata nella ricchezza dei canti popolari, nei racconti orali della gente, nella tradizione contadina e pastorale. E uno pensa che all’epoca in cui Pitagora insegnava, praticandole, mitezza e tolleranza, il rumore della risacca dovette essere fortemente propizio al pensiero, il “male sacro” di Eraclito, il pensiero, appunto, il supremo momento.
La fretta delle riflessioni conferma l’ansia di voler memorizzare ogni cosa, ad ogni passo. E mi muovo agevolmente, tra case ville e alberghi lungo i viali del lido di Metaponto che definiscono il rapporto tra il mare e la costa, viali ancora assolati – ottobre dona un’ebbrezza incomunicabile ma già deserti; case e ville chiuse dietro una lunga teoria di cancelli, tra camping, piazzali alberati domina l’oleandro – e larghe macchie di pini ed eucalipti che sanno di rimboschimento fatto in tempi in cui più corretto era il rapporto uomo-natura.
Sul viale principale (segno di rispetto la dedica a Pitagora), si respira aria di competizione tra molto cemento e poco gusto. Per fortuna non si deve fare fatica a immaginare, a soli quattro chilometri dal mare, la vita delle comunità della costa che qui vissero migliaia di anni fa, e che soltanto intorno al sesto-settimo secolo dell’era cristiana, cacciate dalla malaria e dalla pirateria, salirono lungo le montagne, verso l’interno. Quegli uomini avevano saputo organizzare una vita colta e civile. Compirono la prima vera bonifica, misero argini ai fiumi, li resero navigabili, prosciugarono le terre, fecero città considerevoli e templi maestosi, come il tempio dorico costruito al di fuori della città antica, il tempio delle Tavole Palatine: é difficile spiegare il riferimento ai paladini di Orlando, i leggendari cavalieri della Tavola Rotonda, che nel medioevo la fantasia popolare immaginò a banchettare tra le colonne doriche.
Quindici delle trentadue colonne che sostenevano l’architrave sono rimaste in piedi, ritte verso il cielo. E mentre le ammiri, uno strano capogiro ti rapisce il pensiero. É quasi certo che il santuario fosse dedicato a Hera, la dea della fecondità, del nutrimento, della continuità della vita. Ha tra le braccia il bambino, simbolo della riproduzione della specie, un atto d’amore che, a sua volta, ha per simbolo la melagrana.
Emoziona l’idea di andare a ritroso nel tempo. Vado alla ricerca di un profeta, o di un fantasma, con tanto di barba fluente e cascata di capelli bianchi; alla ricerca del mito dopo quello tramandatoci dagli dei. In una piacevole confusione tra il vero e il fantasioso, vado incontro a Pitagora adagiato ai piedi di una colonna del tempio. Sono al limite del sacrilegio. É suggestiva l’idea di un’improvvisa reincarnazione.
Ma il Pitagora del mio immaginario é Dinu Adamesteanu, il re della Siritide, il mitico (Demetra mi perdoni) archeologo che negli ultimi quarant’anni é riuscito nell’affascinante impresa di strappare alla terra, lungo il litorale jonico, il segreto di antiche città: le individuava anche dall’alto, attraverso la fotografia aerea, che offriva al suo occhio allenato, tra ombre e sbavature del terreno, tra fossi ed avvallamenti e macchie sospette, la presenza di insediamenti sepolti da millenni.
Non é laconico il Professore, anzi. “Sarebbe capace di percorrere a occhi chiusi le vie invisibili, di distinguere le case, i monumenti, gli acquedotti dell’antica Metaponto, scomparsi, cancellati in un tempo brevissimo e per cause non tutte accertate”. Ce lo descrive cosi Carlo Belli in Costa viola, memorabile passeggiata in Magna Grecia, un’opera dalla quale ho attinto suggerimenti preziosi per questa visita nel Metapontino.
Pitagora, dove si nasconde lo spirito pitagorico dopo tanti secoli? Dove é possibile rintracciare qualche aspetto della incredibile personalità del filosofo il quale per primo intui che gli avvenimenti di una volta ritornano periodicamente con identici aspetti, per cui nulla in assoluto vi é mai di veramente nuovo?
La fronte di Dinu Adamesteanu, arabescata da un ciuffo di capelli candidi, si spiana all’improvviso. “Qui le rose fiorivano due volte all’anno” dice, con l’arguzia di chi é certo di stupirti. Ma come faccio a dirgli che non m’intendo affatto di botanica?
In piedi contro la colonna dorica immersa in una luce profetica, Dinu appare come un’antefissa a ornamento dell’intero santuario. É voce lontana la sua, evocativa.
“Pitagora quando fuggi da Crotone dove la sua politica aristocratica stava per essere sopraffatta da un’ondata di populismo, per cui molti suoi discepoli furono bruciati vivi, trovò qui rispetto e devozione, fino alla morte. Se Crotone lo cacciò, se Locri lo respinse, Metaponto lo accettò. Lungimiranti e desiderosi di capire, i metapontini accettarono e rispettarono senza riserve la morale pitagorica dell’ospitalità”.
Dalle Tavole Palatine, o dal Tempio di Pitagora, o dal Tempio di Hera (ognuno esprima a questo proposito il proprio punto di vista, secondo le proprie conoscenze e le proprie suggestioni), lo sguardo e la fantasia spaziano sui luoghi la cui storia, mescolata al mito, si aggroviglia a mano a mano che l’occhio procede verso la piana metapontina definita da comode strade. La litoranea Taranto-Reggio Calabria permette un veloce accesso alle zone dove l’opera della bonifica ha mutato il volto del paesaggio. La natura ha reso all’uomo quel che l’uomo le ha chiesto, o strappato, campi sterminati con ortaggi e frutteti eccellenti.
Metaponto non esiste più come la città di Pitagora, o di Ocello Lucano, uno dei più fervidi seguaci del pensatore jonico. Ocello fu accolto nella scuola metapontina, insieme ai fratelli Ocylo e Polo e ad altri giovani lucani, preceduto dalla fama delle sue intuizioni filosofiche sulla perennità del mondo, l’universo infinito, eterno e uno. Della natura dell’universo, la sua opera più importante, per l’organicità e la profondità del pensiero, ebbe grande diffusione anche per la idealizzazione che ne fecero i poeti e gli scrittori lucani.
Metaponto non esiste più come la città delle “filosofe”, le celebri donne pitagoriche, da Timica, moglie di Millia di Crotone, a Filti, che seguirono il maestro dopo la fuga da Crotone; fino a Eccelo ed Occelo, anch’esse lucane, che accolsero Pitagora al suo ingresso nella città jonica.
Metaponto non esiste più come nucleo edilizio visibile in piazze, strade, case e vicinati. Guerre e rovine si abbatterono sulla capitale della Magna Grecia. Metaponto é oggi una fiorente distesa agricola, tra il Bradano e il Basento, con quel tempio dorico che si é fatto riferimento storico e simbolo delle città morte.
Nelle decorazioni dei vasi indigeni – e Dinu Adamesteanu si fa sempre più prezioso nel suo discorrere modulato e profondo – con molta frequenza é stata indicata dagli studiosi la presenza del sole e della luna con tutto il firmamento. Pitagora lo disse? “Non ci risulta. Ci risulta però che l’universo delle città greche si rispecchia chiaramente in queste decorazioni, con sole luna e stelle”.
Ma luna e stelle sono ancora lontane in questo vagabondaggio illuminato da un ospitale sole autunnale, e se é vero che i coloni greci operavano prevalentemente a luce piena dobbiamo presumere che l’esecuzione di Farfalia, la bella etera, avvenne in pieno giorno, al centro dell’agorà, nel cuore della città di Metaponto. Ai piedi del tempio di Apollo Liceo, parte viva e integrante dell’antico centro abitato dove qualche avanzo, piuttosto cospicuo, testimonia la civiltà dell’origine, Farfalia concluse la sua vicenda di seduttrice. Tra il santuario i cui resti sono stati in parte ricomposti, e l’agorà, il centro degli incontri e delle decisioni, i sacerdoti, vedendola, e sentendola (forse cantava), e conoscendo le sue abitudini di donna di vita, la uccisero: corrompeva la gioventù, contaminava i costumi. “Era bellissima Farfalia”. Interviene Hel, la compagna di Dinu, anch’essa archeologa formatasi alla scuola tedesca e a quella lucana. Con Dinu hanno scelto di vivere tra i santuari della Magna Grecia, a Policoro, tra quel che resta di Siris, tra le memorie di Eraclea. Hel, dolce e insieme austera (in cuor suo forse si commuove), racconta il dramma delle etere che sapevano intrattenere gli uomini, non sempre con il corpo e con la voce (col canto), ma anche con colte conversazioni nelle quali tornavano di frequente gli insegnamenti dei filosofi.
Ed é ancora più precisa Hel quando rievoca con l’entusiasmo e la drammaticità di chi sta vivendo la suggestione del mito, il pianto di Atena Iliaca per l’esecuzione in massa dei giovani che si erano rifugiati nel suo tempio dopo aver tentato invano di difendere Siris, la loro città, dall’aggressione di una comunità di predatori achei. La dea chiuse gli occhi e pianse, non poteva assistere a quel massacro. “La ricca e potente Siris, posta in una zona incantevole, là dove il Sinni si confonde nel mare, fu distrutta. Sua colpa più forte fu l’essere capitale di una zona – la Siritide – che già Archiloco aveva cantato a voce spiegata, definendola bella, desiderabile, amabilissima”.
“Ma tutto questo avveniva quasi due secoli prima dell’arrivo di Pitagora nella grande piana metapontina” precisa Hel, e chiarisce la differenza tra Siris e Metaponto, due città vicine ma assai diverse tra loro.
Tutto é possibile tra gli ultimi resti della Magna Grecia lungo la costa dello Jonio, tutto é pieno di dubbi e invenzioni: da una parte ti conforta il mito, dall’altra ti soccorre la storia, ma é pur sempre storia raccontata da chi é nato e vissuto nel mito.
E Pitagora? Certamente non é una figura soltanto mitica. Per spiegare la sua dottrina Pitagora si affidava anche alle vibrazioni sonore. Tentò di capire qual era l’ordine all’interno della materia. Prese delle coppe di metallo e le percosse, delle corde di spessori e di lunghezze diversi e le fece vibrare, e capi che tra un corpo e l’altro c’erano momenti di affinità.
Ma chi ha detto che fu il primo codificatore della musica? Aristosseno, seguace del pitagorismo, tecnico di ritmica e di musica; o Archita Pitagorico, al quale si devono, nel quarto secolo avanti Cristo, i primi studi di acustica? Mi affido all’aneddotica, il mito si arricchisce di suggestioni e riferimenti poetici, tanto per non smentirmi.
Dinu ed Hel mi guardano un po’ stupiti e un po’ divertiti per le mie interpretazioni, se non proprio avventate, perlomeno fantasiose. Ma poi arriva, a sorpresa, credo, la domanda che vorrebbe insidiare le conoscenze del mio amico archeologo di origine romena, Adamesteanu appunto, che con grande intuito e particolare intelligenza ha scoperto, esaminato, studiato, catalogato il reperto archeologico, dopo aver visto dall’osservatorio delle nuvole, il luogo sospetto, la necropoli sepolta.
“Ma Pitagora come mori, di che cosa mori Pitagora? Scomparve davvero tra le onde dello jonio in un giorno di tempesta per un dispetto degli dei, o fu rapito da una setta misteriosa mentre predicava per le strade e le contrade di Metaponto, o svanì come un profeta della Bibbia?”
Dinu, mentre mi ricorda che il 470 avanti Cristo è una data possibile per indicare la morte del quasi ottuagenario pensatore greco, mi risponde con l’aria di chi ha consumato immemorabili “scampagnate” archeologiche: “Pitagora non era un dio, non veniva dal mito, era un uomo come te e come me, si alimentava come tutti gli uomini del suo tempo e del nostro tempo. Quasi certamente Pitagora mori per una banale infezione, o per una indigestione, che risultò fatale, mori di favismo, e tu che ti occupi di medicina in televisione, sai di che cosa parlo”.
Favismo, dunque, “malattia delle fave, ereditaria, presente soprattutto nei paesi mediterranei. Dopo due ore o al massimo dopo due giorni dall’ingestione di fave crude o poco cotte compare una grave crisi emolitica, con anemia, senso di malessere generale. Nel dieci per cento dei casi é letale”. Così recitano i trattati di medicina.
E se davvero il “sapiente Pitagora” (come si fa a non credere a Dinu Adamesteanu?) mori tra grandi sofferenze, con febbre, vomito, diarrea e perdita della conoscenza, magari proprio in un campo di fave, tutta l’aneddotica antica, o meglio, tutte le credenze popolari, tutte le supposizioni, vanno a farsi benedire.
Hel, sotto una luce dorata, la luce del primissimo pomeriggio, organizza il finale di questa escursione. Possiamo chiamarla così, escursione, di fronte a due consumati archeologi? Dinu, con la sua pacata ironia, fa chiarezza in tanta enfasi. “É una gita per semplice diletto o ha anche qualche valore di studio?”
La provocazione ha il suo effetto. Sono un viaggiatore curioso in cerca di novità, alla ricerca di emozioni e stimoli letterari? Non vale darsi delle risposte, sono qui e basta, incantato di fronte alla collina dell’Incoronata, il primo insediamento greco nel territorio di Metaponto, dove viveva una popolazione venuta dal mondo insulare greco, un mondo di zingari del mare e di altre piccole regioni dell’Asia minore. Archiloco, il fondatore della lirica greca, vissuto intorno al settimo secolo prima di Cristo, nella “impareggiabile italica vallata del fiume Siris, in Lucania, visse tempi indimenticabili. Non era soltanto un poeta inquieto Archiloco, era anche un singolare Cirano de Bergerac della sua epoca, spadaccino e guerriero. “Davvero non c’è luogo bello e amabile / e dolce, qual laggiù sul Siris rapido” pare avesse esclamato di fronte a un paesaggio tutto da vivere.
Ma davvero il poeta vagabondo arrivò fin qui, nella terra promessa dei coloni greci? Non bisogna dimenticare che ci stiamo occupando di personaggi vissuti settecento anni prima della venuta di Cristo. Non si ha notizia, a quell’epoca, di filosofi e di artisti, masi ha la massima manifestazione dell’arte greca fittile, l’arte della creta. Qui nasce un’attività locale con l’uso più ampio dell’argilla, un’arte derivata dal mondo greco-orientale e modificata successivamente dagli artisti locali, i quali ebbero il buon gusto di realizzare cose belle e durature, pur nella loro fragilità.
E Zeusi? É proprio cosi fragile e cosi poco duratura l’arte di Zeusi, il pittore di Eraclea, il Raffaello dell’epoca, vissuto tra il quinto e il quarto secolo prima di Cristo? C’è chi sostiene, tra gli indagatori dell’antichità, che in qualche opera scomparsa, o ancora sottoterra, Zeusi avesse raccontato, in pittura, la fine di Siris, la città che due secoli prima di Eraclea fu il perno di una presenza ionica sulla costa che va dal Bradano al Sinni, le due linee d’acqua che Adamesteanu definì le autostrade di fondovalle della Lucania.
Ma la più importante, sempre secondo gli archeologi, é la terza, la valle dell’Agri, dove sono transitati usi e costumi, tante civiltà, tante idee della Magna Grecia e del mondo arcaico. Usi e costumi che si erano spenti altrove e che qui si rigeneravano. I coloni, profughi o avventurieri, arrivavano dal mare e attraverso le valli, lungo i fiumi, tentavano di capire che cosa accadeva all’interno. Oggi quelle antiche linee d’acqua si chiamano superstrada Basentana, Sinnica, Bradanica, quasi tutte arterie per il traffico veloce.
Ma torniamo a Siris che nel quinto secolo avanti Cristo, suo malgrado, cambiò nome, si chiamò appunto Eraclea e si diede le tavole della legge che portano il suo nome. Siris fu annullata, sconfitta; vittima dell’invidia? Adamesteanu, che la sa lunga sulle vicende che hanno cambiato il volto della storia più di duemila anni fa, ha la risposta pronta.
“L’invidia é un sentimento, la lotta per il potere é tutt’altra cosa. Siris tentava di diventare più importante di Sibari e di Metaponto, soprattutto nei commerci con il vicino oriente, e quando ci sono di mezzo gli interessi, c’è sempre qualcuno più forte che prevale”.
A quell’epoca prevalsero Sibari e Metaponto, Taranto e Crotone, tutte città che si guardavano con sospetto, ma si tolleravano. Fra loro si fecero fecondi anche gli scambi culturali. Zeusi fu un pittore conteso, oggi lo definiremmo “un maestro d’arte”. Le scene che rappresentava nei grandi vasi, dei quali restano esaltanti testimonianze nei musei di Metaponto e della Siritide, sono quasi tutte collegate alle tragedie di Euripide, il filosofo della scena, il poeta tragico dell’antichità. In un solo vaso Zeusi, che veniva richiesto e ben retribuito anche altrove, da Crotone a Reggio Calabria, dove lasciò opere pregevoli, sintetizzava il soggetto di una tragedia. La sua capacità era quella di fare emergere luce dalla materia, luce chiara, radiante, riflessi lustri. Zeusi ha lasciato dovunque il suo fantasma.
Il sole scivola dietro le colline che sorreggono i paesi dell’interno. Suggestivi i colori degli alberi e della terra nell’autunno che avanza.
Sarebbe bello fissare questo spettacolo della natura in un’opera d’arte. Basterebbe trascrivere le varie tonalità del verde, il bruno dei terreni, l’azzurro malinconico delle colline che si accavallano all’orizzonte. Testimonianze e rovine sono passate sotto gli occhi. Morti ed eroi, scomparsi millenni addietro, ho calpestato tra le Tavole Palatine, il Tempio di Apollo e le tante strade ortogonali di Metaponto. Quanta curiosità tra quel che resta dello splendore di Siris, uno splendore durato forse cento anni; e quanto stupore nell’apprendere che mentre Siris finiva, travolta dalla sua ambiziosa politica di espansione, appariva Eraclea, la città satellite della potente Taranto da cui ereditò il dialetto dorico, usi e costumi spartani.
Dinu si esalta, sa tutto di Eraclea, é alla perenne ricerca di tutto ciò che ancora rimane. La sua casa confina con le testimonianze della città che visse, probabilmente senza molta gloria – ma Dinu non condivide – fino a seicento anni dopo Cristo. Lui dice che soltanto la malaria, più maligna che mai, decise il suo destino. Recenti scoperte hanno rivelato che Eraclea, a pochi chilometri dal mare, si era dotata di un piano regolatore e di un porto che si apriva ai traffici più avventurosi.
Durante la visita al Museo della Siritide dei ed eroi, a stento contenuti nella cornice di un vaso, ti passano veloci davanti agli occhi. Dinu mi scopre incantato davanti ad alcune idrie dipinte con l’immagine di Demetra che ha in braccio il porcellino da sacrificare e mi annuncia altre novità, tra i ruderi di Serra di Vaglio e il tempio di Rossano dedicato alla dea Mefitis, una divinità lucana legata alle sorgenti.
“A Vaglio di Basilicata, dunque, dopo il tuo pellegrinaggio al Parco delle Nuvole” annuncia con l’amabilità di chi, pur apprezzando la poesia, ha molta più dimestichezza con il linguaggio delle pietre.
Il cammino del sole si é quasi concluso, in lontananza “il Parco delle Nuvole”, ironica metafora per indicare il territorio dei poeti, tra calanchi di arenaria e vallate solitarie, si chiude alla luce come un immenso sipario.
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