Mario Trufelli, L’OMBRA DI BARONE – II. Resterà la poesia
RESTERA’ LA POESIA
(Viaggio a Tursi, città di Albino Pierri, dove era nato il 20 ottobre 1916 e nel cui cimitero riposa (morto a Roma il 23 marzo 1995). Albino Pierri, professore di filosofia nei licei, poeta noto per la sua svolta dialettale e per essere stato più volte candidato al premio Nobel (v. https://it.wikipedia.org/wiki/Premio_Nobel_per_la_letteratura). Le sue opere sono pubblicate in inglese, francese, persiano, portoghese, spagnolo, rumeno, arabo, neogreco, olandese e svedese).
* * *
E’ rassicurante il sonno dei morti nel cimitero di Tursi immerso in un velo di nebbia. Sono il primo e per ora l’unico visitatore alle nove del mattino. Mi accompagna il rumore dei miei passi mentre attraverso, tra l’odore acre dei fiori marci, i vialetti che dividono le cappelle con i nomi degli antenati. Albino Pierro, il poeta delle “funebri memorie”, dal 23 marzo 1995 riposa in un loculo, un tempietto a livello del pavimento, con lapide di marmo e classica fotografia ovale, in ceramica. Sigaro tra le labbra e cappello di lato, a cencio, Albino sorride con aria spavalda. Assunta e Giuditta Pierro, “le carissime zie” nubili che lo allevarono dopo la morte prematura di sua madre, riposano nella stessa fila di nicchie, due piani più su.
Sono tanti i sepolcri del cimitero di Tursi che lo stesso custode mi aveva dato una prima indicazione generica, poi si era corretto indicandomi il percorso giusto, ma senza stupirsi per la mia insistenza.
La visita si conclude quando il sole é già alto sul paesaggio arso, disseccato di Tursi. La strada che porta al cimitero segna il punto finale del tragitto, più avanti c’è il dirupo.
Torno al paese, profondamente segnato dai calanchi che cadono a strapiombo nella valle. Sulla collina, che si affaccia proprio sui calanchi, indifferente ai capricci della natura e del tempo, intristisce la Rabatana (la tana degli arabi), il quartiere più antico di Tursi che spartisce lo spazio tra la terra e il cielo lungo il confine dell’orizzonte.
Il paese nuovo é cresciuto a valle e l’ha tagliata fuori. La gente se n’è andata lasciandosi dietro una manciata di case cresciute a grappolo in cima alla collina di tufo. “Tufo arenario” precisa il vigile urbano che mi ha portato fin quassù, anche per la cortesia del sindaco, a bordo di una cinquecento multidatata che, sola, può arrampicarsi tra vicoli e stradine con un acciottolato lustro e sconnesso. Ma se voglio arrivare alla casa dove nacque Albino Pierro di qui devo passare.
Sono nel cuore della Rabatana, cioè nel vecchio cuore del cuore di Tursi, e mi muovo come in sospensione tra storia e leggenda. Sto mettendo alla prova la mia curiosità di visitatore non proprio occasionale. Se dovessi fotografare questo luogo (e con lo sguardo l’ho già fatto), mi soffermerei sui camini spenti, sulle porte chiuse, sulle stradine vuote, in penombra.
Uno scalpiccio di zoccoli sul selciato attraversa il mio passato di ragazzo vissuto per anni in un paese di contadini: é il richiamo sonoro di una immagine, quella dell’asinello superstite, che va verso una stalla superstite, tirato a cavezza da un uomo anziano, minuto e sonnolento. II “buongiorno” é di rigore, ed é reciproco. Lui intuisce, non é nuovo a questi incontri, e nell’indicarmi il portoncino della casa natale del poeta, a pochi passi da noi, dice a mezza voce, prima di scomparire dietro l’angolo: “La casa é aperta, c’è il padrone”.
II padrone é un amabile signore, il tabaccaio del paese ai tempi di Pierro, che ha superato bene gli ottant’anni. Mi riceve in un ampio appartamento, una sorta di convento, con tante camere che si affacciano sulla penombra di un lungo corridoio che non ho capito bene dove finisca, forse in cantina.
Il signor Alessandro si fa mio complice quando gli chiedo di raccontarmi qualche episodio inedito sulla vita e sul carattere del poeta. “Non era troppo socievole” dice, ma col rammarico di chi non ha l’abitudine a svalutare i sentimenti. E aggiunge: “Era un grande poeta e come tutte le persone importanti difficilmente entrava in confidenza”.
Intanto mi mostra la stanza da letto dove Albino venne alla luce il 19 novembre 1916 e dove, appena un anno dopo, per una febbre maligna, moriva sua madre. Lo strazio del figlio poeta é durato tutta la vita.
“Dal giorno che zitta e buona / la volle la Madonna in paradiso / non si é fatta più sentire; / eppure, piangendo, mi lasciò / di pochi mesi”.
Lo lasciò quasi in fasce.
Già poeta affermato, in uno dei suoi rari ritorni al paese, Albino stentò a riconoscere la casa dov’era nato e nella quale aveva vissuto i primissimi anni dell’infanzia.
Con in testa un mondo di domande che vorrei rivolgere al padrone di casa, mi muovo dalla stanza tinello, che la madre di Albíno, maestra elementare, attrezzo a scuola agli inizi del secolo, fino al terrazzo, altro lungo corridoio ma all’aria aperta: e non riesco a rendermi conto come hanno potuto i tralci di una vite arrampicarsi fino al tetto incorniciando i balconi come un lembo di parato, con foglie larghe e già dorate, dai quali pendono grappoli di uva nera, con gli acini ancora lucidi e gonfi di succo.
Il padrone, mentre mi indica il robusto ceppo della vite ai piedi dell’alto caseggiato – “La vite rampicante si prende lo spazio che vuole” dice, “e questa già esisteva cinquant’anni fa, quando acquistai questa casa” – mi mostra, come un vanto personale, il paesaggio che ci sta di fronte e che lui tutte le mattine abbraccia con l’emozione di chi sente di poterci convivere. Dinanzi alla linea ininterrotta del mare che chiude l’orizzonte come un acquario, si srotola, marcata dai teneri colori dell’azzurro, una lunga striscia di terra: é la contrada Troilo dove, apprendo, il padre di Albino possedeva un’azienda agricola con frutteti, oleificio e un gran numero di capi di bestiame.
Paragonato alle forti immagini della poesia di Pierro, questo paesaggio, così sereno e seducente, mi sembra quasi una provocazione.
Non interrompe la sequenza delle testimonianze sul poeta di Tursi, con tanti riferimenti anche alla sua vita privata, il ritorno in strada, tra i vicoletti selciati, che mi appaiono sempre più stretti, sempre più scomodi.
Mi imbatto in una suora (ma forse sarebbe più corretto chiamarla “monaca” per una certa aria di clausura che si respira intorno) che mi invita (mi ha chiamato per nome) a entrare nella scuola materna annessa alla casa canonica che ospita lei e un’altra religiosa rimaste a guardia della chiesa di Santa Maria Maggiore. Il tempio del 1500, mal restaurato, ha grandi affreschi sulla navata centrale, che illustrano vite di santi, di martiri, la gloria della Madonna e la solennità del Padreterno.
“Si stanno dimenticando tutti di noi” dice suor Celeste mentre mi guida nella visita alla cripta dove ha impresso il sigillo lo scultore Ascanio Persio, con un presepio in pietra: il Bambinello, la Madonna, San Giuseppe, i pastori, hanno già superato cinque secoli. Un sarcofago accoglie le spoglie mortali di un discendente della potente famiglia dei principi Doria di Genova -nome carico di risonanze – che vantava possedimenti e poderi feudali anche nel territorio di Tursi.
Come un viaggiatore inesausto che vuol sapere tutto dei luoghi, anche a volo d’uccello, risalgo in fretta dal fondo della cripta alla chiesa, lungo le ripide scale che sembrano scavate nella roccia, per vedere il fonte battesimale dove, secondo suor Celeste, sarebbe stato battezzato Albino Pierro. Con una solida base di marmo, ad altezza d’uomo, e con la cupola di legno che guarda all’arte rinascimentale, il battistero sorveglia, da un angolo privilegiato, la porta della chiesa dal giorno stesso in cui questa fu aperta al culto, cioè dal 1518.
Ma quante volte, mi chiedo, Albino é tornato in questo tempio dove vi sono le testimonianze del fervore artistico di una comunità aperta a culture diverse e disponibile ad assimilarne gli apporti?
“Io lo vidi una sola volta diversi anni prima che morisse. Era venuto nella Rabatana per visitare un suo vecchio parente infermo. Ma si fermò poco, e scambio’ con noi suore poche parole di circostanza. In chiesa non entrò”.
Suor Celeste, delle pie discepole del Sacro Cuore, presenti a Tursi da più di trent’anni, é precisa come un calendario. Tanto gentile quanto prudente, si schermisce quando le dico che lei potrebbe dire molte più cose su Albino Pierro, sulla gente di questo povero quartiere, sulla solitudine di oggi, sulla vita di ieri. Suor Pacifica, piccola, frettolosa (il nome la tradisce) la solleva dall’imbarazzo consentendole un rientro strategico in chiesa per la lettura dei salmi “all’ora media”.
Il volto quasi nascosto sotto il velo nero, sussurrato un “buongiorno”, scompaiono. Un minuto dopo ci giungono le cadenze severe dei salmi, cantati a due voci.
Rompe il silenzio della strada lo scoppiettio della messa in moto della cinquecento: il vigile urbano, che in mia compagnia si é ripassata una parte della storia del suo paese, mi vuole ricordare che siamo attesi nella biblioteca-museo dedicata a Pierro. Si riprende la gimcana. Si viene giù dalla Rabatana ma poi si risale, da un altro versante, per poter raggiungere piazza Plebiscito, nel centro storico, lungo una sequenza di stradine a chiocciola lastricate e ripide.
Un palazzo aristocratico da anni disabitato; una chiesa dedicata a San Filippo Neri con la facciata barocca resa più visibile dalla imponente gradinata a semicerchio; un palazzetto – la casa dei Pierro – a ridosso della chiesa, con un portoncino fine Ottocento, chiudono, a triangolo, la piazza. Sulla collina di fronte, austero e solitario, il cinquecentesco convento di San Francesco. Su una lapide accanto al portone di casa Pierro sono incisi, nel difficile dialetto di Tursi, versi struggenti: “Vorrei tornare per sempre dove ci scorre come fra i dirupi l’acqua, la vita mia”.
Per sentire il respiro del poeta bisognava venire qui, nel luogo dove é cresciuto con le zie Assunta e Giuditta, “le signorine della posta” come le chiamavano in paese per il loro attaccamento al lavoro nell’ufficio postale che diressero per anni.
Una scala di pietra in un ingresso ampio ma un po’ buio, mi introduce in tre grandi stanze: non c’è un solo arredo, un mobile che possa dare un’idea di come sia vissuta in questo appartamento la famiglia Pierro. Solo scaffali che toccano il soffitto con lunghe mensole zeppe di libri. “La biblioteca del poeta, dono della figlia Rita” dice l’impiegata comunale che mi fa da guida. Ma guida di che, per che cosa? A parte qualche fotografia e un busto in bronzo, opera di uno scultore romano uscito dalla costola di Emilio Greco, che lo ritrasse (a sua simiglianza) nel 1965, di Albino, della sua vita privata, non c’è un solo frammento. Ritrovo la sua poesia nel paesaggio dei calanchi, che squarciano la valle soverchiata da un grande silenzio. La Rabatana incombe sulla testa come una persecuzione. Dall’ampio terrazzo, un palcoscenico all’aperto, Albino guardava il tramonto del sole e il sorgere della luna.
Nell’ottobre del 1982 lo incontrai nel suo paese dove era tornato dopo molti anni. Era stato organizzato in suo onore un convegno con la presenza di letterati, amici e paesani. Quella volta, con l’odore dei mosti nelle strade, salutò tutti con calore, abbracciò vecchi conoscenti, si commosse. La festa era cominciata nella cattedrale, luogo piuttosto inconsueto per “celebrare” un poeta.
“Albino” gli chiesi con un pizzico di malizia, “sei tornato dopo tanto tempo per farti festeggiare o per farti santificare?” Rispose sorridente, divertito.
“Questo no. Sono tornato per rivedere le radici che mi appartengono e dove io mi ritrovo come se non mi fossi mai allontanato da Tursi, perché più si va avanti con gli anni e più affiorano le cose lontane come qualcosa che ti coinvolge, e ti coinvolge in una maniera, non dico tempestosa, ma quasi”.
Alla domanda se avesse pensato di sistemarsi definitivamente a Tursi, rispose con un timbro di voce che denunciava un profondo rammarico.
“Purtroppo la nostra vita si svolge come una parabola. C’è la fase ascendente e la fase discendente. Ma Tursi é sempre dentro di me. Ma ritornare qui dove non c’è più nulla, dove i miei parenti sono scomparsi da anni, dove é scomparso anche il ricordo della casa dove nacqui, dove la vita si é consumata, non é più possibile. Vivo ora qualcosa di perfetto, quasi di irripetibile, che può essere vissuto soltanto da lontano, nel ricordo, nel sogno”.
Eravamo ai piedi della Rabatana che in quel momento si ripopolava di figure poetiche. Albino, senza farselo dire la seconda volta, cominciò a recitare davanti a tutta la gente che lo stava applaudendo, la poesia dello strazio filiale, “A Ravatén”, appunto: “Ma ié vòggie bbéne a Ravaténe / cc’amore ca c’è morta mamma méje: / la purtàrene ianca supr’ la ségge / cchi mmi nd’ i fasce com’a na Maronne / cc’u bambinélle mbrazze.” (Ma io voglio bene alla Rabatana / perché c’è morta la mamma mia: / la portarono bianca sopra una sedia / con me nelle fasce come una Madonna / col bambinello in braccio).
Ma i tursitani si riconoscono nel dialetto di Pierro? Ritrovano le loro stesse parole, i loro modi di dire, soprattutto quelli popolari? L’impiegata comunale che prima parlava con enfasi dell’originalità dell’idioma del suo paese, il più antico nella terra di Lucania, risponde in un tursitano che non capisco, ma dove vibra la cadenza dei versi che recitava, da interprete appassionato, Albino.
Non ci vuole molto per capire che malgrado le lunghe assenze e le disattenzioni, anche umane, Tursi sa che oggi deve molto al suo poeta il quale ha dato dignità letteraria a un dialetto che probabilmente genti lucane parlavano anni e anni prima del Cristo.
Nella parte più nuova e più a valle del paese mi avvicino a un gruppo di anziani, uno accanto all’altro seduti sulle panchine. Nel pomeriggio seguiranno il giro del sole. Il sole va goduto finché dura l’ultimo frammento di luce.
Una voce isolata critica la scarsa attenzione che il paese ha riservato in tutti questi anni al poeta, il quale ha fatto conoscere il nome di Tursi in tutto il mondo. Ripete: in tutto il mondo. Le fa eco un vecchietto chiuso in un cappotto di panno nero. Nelle rare visite Albino si chiudeva in casa e a stento, nei pochissimi giorni che restava a Tursi, metteva la testa fuori della porta.
“Si chiudeva pure nel tabacchino per non farsi notare quando, di nascosto, sceglieva nel pacco i mezzi sigari toscani” commenta, ironico, il più vecchio di tutti, l’ultimo della fila. Un altro, più informato, mostra invece apprezzamento per le iniziative che si vanno prendendo per onorare la figura e l’opera di Pierro.
Molti ricordi degli anziani sono sfumati: la memoria ti incalza quando stai lontano, ma se vivi nel paese te la perdi per strada. Già, ma che cosa resterà di Albino fra qualche anno, soprattutto tra le nuove generazioni, tra i giovani, e sono tanti, costretti ad emigrare?
“Resterà la poesia” dice, ammiccando, il giovanissimo vigile che mi ha “scarrozzato” con la sua utilitaria in un’ardita sequenza di saliscendi nel suggestivo centro storico. Si chiama Claudio, nome inconsueto a Tursi, come quello di Albino d’altronde. Il posto d’onore nell’anagrafe cittadina spetta a Filippo, il nome del santo patrono.
Nel salutarmi, il vigile ha un ultimo sussulto di orgoglio municipale: mi mostra un’insegna che é stata piantata a un angolo della piazza.
É come un’edicola, una sorta di promemoria anche per chi vive qui.
E distante, ma riesco a leggere la scritta: “Tursi, città di Albino Pierro”.
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